Diciottanni - Il mondo ai miei piedi
Sceneggiatura: Elisabetta Rocchetti - Fotografia: Raoul Torresi - Montaggio: Barbara De Mori, Alessandro Guariento - Interpreti: Marco Rulli, Elisabetta Rocchetti, G-Max, Maroc Iannitello - Produzione: Elisabetta Rocchetti, Officine Ubu - Distribuzione: Officine Ubu (Italia 2010 - colore - 85')
Qualcuno ricorderà il felice debutto di Elisabetta Rocchetti in un ruolo da protagonista e in un film “impegnato” e importante come L’imbalsamatore di Matteo Garrone che consentì all’attrice di aggiudicarsi il Globo d’Oro come migliore esordiente nel 2003 (era Debora, la “ragazza con la bocca rifatta”, una che cambia continuamente mestiere, e colei che innescherà la scintilla che determinerà il tragico epilogo che chi ha visto il film ben conosce).
Da allora il cinema italiano non ha però offerto alla Rocchetti altre occasioni interpretative di analogo rilievo (non è stata ovviamente inattiva fra grande schermo e televisione, ma si è in genere dovuta accontentare di ciò che – come si dice in gergo - passa il convento). E’ quindi una piacevole sorpresa ritrovarla adesso impegnata nella regia (una passione che ha sempre coltivato in parallelo) di questo Diciottanni – il mondo ai miei piedi che ha anche interpretato, oltre che sceneggiato e prodotto (in collaborazione con “Officine Blu” che ne curano anche la distribuzione, sempreché davvero riescano, con i pochissimi mezzi che hanno a disposizione per far sentire la loro voce, a far “emergere” la pellicola dal fondo del barile e garantirle una magari fugace programmazione in sala che per il momento credo difficilmente ipotizzabile, visto che si tratta di un’opera “intelligente” ma davvero minimale sulla quale pochissimi, esercenti compresi, ritengo siano disposti a scommetterci sopra).
Intendiamoci bene, l’opera è ancora acerba e ingenua (la possiamo definire al massimo “sufficiente”), ma la neo-regista dimostra di conoscere abbastanza bene i suoi limiti e li sfrutta al meglio, e soprattutto con l’umiltà di chi ha voglia di mettersi in gioco “rischiando sul campo” e senza pretendere di strafare. Si avverte dunque la consapevolezza di chi ha ben presente che nessuno nasce “imparato” e intende per questo affrontare seriamente un percorso irto di difficoltà, il che rende la Rocchetti (almeno ai miei occhi) decisamente simpatica, e fa sì che il risultato diventi alla fine complessivamente “accettabile”, pur nella povertà dei mezzi anche espressivi a disposizione (e messi in campo).
Potremmo dire allora che questo suo primo impegno registico si impone per la freschezza della rappresentazione, facendosi soprattutto apprezzare per il buon ritmo imposto alla narrazione e per la dimostrata capacità di affrontare senza troppi compiacimenti una materia tutt’altro che facile soprattutto per la notevole dose di cinismo e sgradevolezza che si porta dietro.
La regia è scarna e senza guizzi narrativi e la storia che ci viene narrata può apparire un po’ usurata, poiché è di quelle che abbiamo visto e rivisto più volte sia al cinema che in televisione, ma è perfettamente calata nell’ambiente che descrive, il che contribuisce a renderla credibilmente interessante e meno ovvia del solito. Ne è protagonista Ludovico, un ragazzo diciottenne che ha difficoltà a vivere “serenamente” la sua età e porta sulle spalle il peso di un passato molto doloroso che lo ha segnato in negativo. Rimasto orfano in tenerissima età, è stato cresciuto da uno zio tossicodipendente, e forse è proprio per la mancanza di una presenza al femminile nei suoi affetti infantili, che ricerca nelle donne, in particolare in quelle più grandi, l'amore incondizionato che non ha mai potuto avere soprattutto da ragazzo, nel tentativo fallace di riuscire così a riempire il suo vuoto affettivo che diventa però sempre più incolmabile. Emerge dunque in assoluto primo piano la figura di un personaggio molto problematico (qualcuno – non ricordo chi - lo ha definito un diciottenne “mostruoso” con il cuore di pietra), abituato a barcamenarsi all’interno di sofferte difficoltà familiari, ma che non riesce a viverle come esperienze da volgere in positivo, così da assorbire alla fine soprattutto i lati sgradevoli di quel percorso fallimentare di “formazione” (gli “insani” principi” e le cattive abitudini apprese dagli esempi domestici). Quando però il giovane si innamora dell’amante di suo zio (Giulia) sarà costretto ad aprire finalmente gli occhi non solo sulla tutt’altro che edificante situazione che lo circonda e condiziona, ma anche sugli scompensi sentimentali che ne sono derivati. Dopo aver toccato il fondo spirituale e morale, tenterà così di ritrovare davvero se stesso per “imparare” finalmente a vivere, come dovrebbe appunto saper fare un ragazzo della sua età capace di mettere in gioco anche i sentimenti.
Si può dedurre da questo sintetico accenno alla trama, che ci troviamo di fronte a un affresco generazionale amaro e diretto, incentrato sul disorientamento sociale e sulle difficoltà interpersonali di un ragazzo dal carattere introverso e i modi troppo sbrigativi, che ha dovuto bruciare le tappe di una vita davvero difficile e crescere troppo in fretta puntando le carte soprattutto sulle sue indubbie “qualità” esteriori.
Particolarmente interessante il rapporto che emerge con l’esempio (a)morale che il giovane ha ricevuto nella sua formazione adolescenziale, che è poi quello fornito dall’unico legame affettivo che ha avuto, quello con lo zio Sandro, il solo che gli era rimasto, ma che invece di prendersi cura di lui come sarebbe stato necessario, ha persino dilapidato completamente l’eredità lasciatagli dai genitori sperperandola a suo piacimento fra donne e droga.
Costretto per questo a “gettarsi” nella mischia della vita e del mondo da solo e senza adeguate “risorse”, Ludovico può utilizzare soltanto l’unica arma che possiede e conosce, quella della seduzione, che esercita soprattutto nei confronti di donne più grandi di lui: prima la sua professoressa, poi la madre del suo migliore amico, fino ad approdare al disarmante innamoramento per Giulia che finirà per diventare un approdo fondamentale per tentare una “ricostruzione in positivo” del proprio vissuto.
Indubbiamente un’opera che gira intorno alla solitudine e al vuoto morale che sta dietro a rapporti e situazioni interpersonali tutt’altro che “costruttivi” e tenta di mettere a fuoco le dinamiche di un malessere generazionale (e non solo). la Rocchetti è in questo bravissima nell’essere adeguatamente “cruda” nella rappresentazione del “disagio”, e soprattutto nell’evitare totalmente le trappole, i prevedibili cliché e le facili forzature che con un personaggio “abusato” e al limite come quello di Ludovico, potevano essere in agguato. Si avverte poi perfettamente che lo sguardo è “femminile” e che se il protagonista è un uomo, viene riservato anche alle donne il giusto spazio e la necessaria introspezione psicologica per mettere a fuoco le loro fisionomie (quasi tutte quarantenni e tutte altrettanto vittime di una solitudine devastante che le porta ad imbarcarsi in relazioni futili, insoddisfacenti e inappaganti) e non lasciarle relegate al ruolo un po’ sterile di “comprimarie”.
Abbastanza “accettabile” anche la recitazione degli attori, a partire dal “gradevolissimo” (non solo fisicamente parlando) Marco Rulli nel ruolo di Ludovico. Elisabetta Rocchetti si è ritagliata per sè con perfetta aderenza, il personaggio di Giulia, ma è soprattutto G-Max - che interpreta con sensibilità ed equilibrio il “vizioso” zio di Ludovico, tutto gioco d’azzardo, droga e tradimenti - che merita una menzione speciale (ricordate chi è vero? il simpatico conduttore della trasmissione Stracult).
Passato per alcune manifestazioni festivaliere secondarie, ricordo anche che il film si è aggiudicato il premio “Terre di Siena” per la migliore interpretazione maschile.
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