Carlo Mazzacurati aveva un grande pregio, non imporre la sua presenza, in un mondo dove si sgomita, si briga, ci si agita molto per avere i riflettori addosso.
E questo mi ha fatto sempre pensare alla sua somiglianza con un altro grande uomo del Veneto di una volta, Goffredo Parise.
C’è qualcosa che li accomuna, l’uno scrittore, l’altro regista, linguaggi diversi ma mondi vicini, fino a toccarsi.
E non si tratta solo de Il prete bello, capolavoro di Parise, unico all’altezza dei suoi strabilianti Sillabari.
Il prete bello (1989)
di Carlo Mazzacurati con Roberto Citran, Adriana Asti, Massimo Santella, David Torsello
Mazzacurati ne fece un film, il suo secondo film.
Imperfetto ma onesto, e, soprattutto, un gesto d’amore per Parise.
Perché dunque scegliere Parise alla sua seconda prova d’autore cinematografico? E cosa unisce questi due artisti nel guardare gli uomini e le cose?
Perché nell’’89, a più di trent’anni dalla sua pubblicazione, un giovane regista di trentatrè anni ripesca un romanzo su cui si erano depositati vari strati di polvere, in un’Italia agli ultimi posti nelle classifiche di lettori di libri?
Parise e Mazzacurati sono pezzi di un’anima vera del Veneto forse irrimediabilmente sparita, o contaminata gravemente, in un territorio devastato per trent’anni da lanzichenecchi di varia portata che l’hanno reso irriconoscibile a chi l’ha conosciuto prima e lo racconta a chi è arrivato dopo, con la malinconia sorridente e un po’ sorniona che contraddistingue quella che Parise chiamò “venetità”.
E non è stato solo il Veneto bigotto ma simpaticamente dedito alla trasgressione, a sparire, quello di poche remore quando si tratta di definire qualcuno fiol de na bona dona, ma anche di amabile signorilità perfino nei suoi osti e bacareti, quello, per capirci, di Signore e signori, risucchiato in quel pezzo d’Italia che Mazzacurati si rifiutava di chiamare volgarmente “nord-est”.
Lo ribadisce a Torino, all’ultima apparizione in pubblico al TFF, per ritirare il premo Torino 2013, già visibilmente sofferente per la malattia che l’ha portato via a 57 anni.
“Il Veneto è cambiato e noi abbiamo appena fatto in tempo a vedere com’era” ha detto, e in vario modo l’ha raccontato nei suoi film.
Ha raccontato, infatti, il cosiddetto “nord-est”, cioè quella metastasi del tessuto sociale e culturale di un territorio che Parise conobbe in anni di profonda povertà, fra le due guerre, una terra da cui partì per far fortuna e dove tornò per amore.
Amore del Piave (qui detto la Piave), della sua terra barbara di muschi e nebbie, della casetta rosa di Salgareda, sul greto del fiume dove visse gli ultimi dieci anni a scrivere I Sillabari.
Oggi anche Mazzacurati è andato via, presto, come Parise che morì alla sua stessa età.
Un amico partito prima anche lui e che, come loro, guardò con occhio lucido, affidando la sua speranza all’arte, dedica una delle sue poesie parlando alla luna
Poesia di Andrea Zanzotto -
Luna Starter di feste bimillenarie -
21- 22 dicembre 1999 -
Fotomodella d'altissimo rango
in piena forma sembri questa sera,
pur sempre amica Luna,
non si direbbe granchè dilatata
dentro il gran sottozero
che rende ogni belletto menzonegro.
Ma di certo un lievissimo cachino
ti sfugge mentre adocchi sulla Terra
formicolar la gente assatanata:
perchè ben sai
che gran parte del senno umano ormai
nel tuo mirabil tondo è congelata.
Invano striglia Astolfo l'ippogrifo
ed il carro d'Elia s'appresta invano.
Al mondo per le sue presenti mete,
non serve il senno, basterà la rete.
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