Inizia oggi una nuova rubrica, dedicata a quel cinema che, per collocazione geografica (e non solo), rimane al di fuori dei grandi circuiti dell’Europa occidentale e dell’America del Nord. E per questo conserva una propria identità artistica e culturale autonoma. Lo scopriremo lungo un viaggio (dis)organizzato, per immagini, attraverso i cinque continenti.
Di ogni singolo autore presenteremo, in queste pagine, la fimografia nel suo complesso. Esamineremo poi, separatamente, mediante recensioni, le singole opere, evidenziandone i punti di forza e le eventuali debolezze.
La prima tappa di questo itinerario ci porta in Argentina, la patria di Lisandro Alonso.
Lisandro Alonso nasce a Buenos Aires nel 1975. Dopo la laurea presso la Fundación Universidad del Cine, nel 1995 dirige, insieme a Castriel Vildosola, il suo primo film, il cortometraggio Dos en la vereda (1995). In seguito collaborerà, in qualità di tecnico del suono, con il regista Pablo Trapero e, come assistente alla regia, con Nicolás Sarquís. Nel 2003 fonda una casa di produzione, la 4L. Ha al suo attivo quattro lungometraggi:
La Libertad (2001) (selezionato per la sezione Un certain regard del Festival di Cannes)
Los muertos (2004) (selezionato per il Festival di Toronto)
Fantasma (2006)
Liverpool (2008) (selezionato per il Festival di Toronto)
Il connotato di fondo del cinema di questo autore è il lirismo dell’uomo selvatico, che, in mezzo ad una natura primitiva e sterminata, si affanna, dolcemente, alla ricerca della propria strada. I personaggi di Alonso partono da lontano, e vanno lontano, in un solitario pellegrinaggio che attraversa una vastità immersa nel mistero e nel silenzio (le pampas, la giungla, le lande innevate della Terra del Fuoco), e che non termina con una vera meta, ma soltanto col (temporaneo) ritorno a casa, al punto di partenza: l’unico luogo in cui tutto prende quel significato chiarificatore nel quale il cuore trova la pace e che altrove, invece, inesorabilmente, si perde.
I suoi film sono un perfetto equilibrio tra mansuetudine e crudezza. Un elemento forse marginale, ma certo significativo, tra i motivi ricorrenti nelle sue opere, è l’animale catturato dall’uomo per essere trasformato in cibo (l’armadillo, la capra, la razza, la volpe); l’obiettivo ama, inoltre, indugiare sui processi di preparazione della carne e sulle scene in cui i protagonisti mangiano o bevono (vedi, in particolare, la scena finale ed iniziale de La libertad).
Questo richiamo all’istinto cacciatore sta ad indicare che il minimalismo narrativo di Alonso (interminabili sequenze con un unico personaggio, campi lunghi su scenari deserti, quasi totale assenza di dialoghi) si coniuga più con la nudità dell’essere umano povero e primordiale che con le astrazioni intellettuali e la geometrica essenzialità di un certo sperimentalismo d’avanguardia. Nel suo cinema, la rarefazione è una forma purissima di aderenza alla realtà, del tutto priva di sovrastrutture interpretative assegnate a priori.
Alonso dichiara di ispirarsi a Werner Herzog nel proporre un cinema inteso come avventura di libera scoperta, dove la libertà di guardare e riflettere è un privilegio espressamente concesso al suo pubblico: il suo preciso intento creativo è “filmare qualcosa, osservare determinate persone senza intervenire più di tanto sulla materia, dando così allo spettatore il tempo di osservare ciò che vuole e trarre le proprie conclusioni sulla base delle immagini.”
Ciò che sembra emergere, dalle ambientazioni spoglie e anonime, prive di punti di riferimento, e dalle stesse storie, che, affidate ad attori non professionisti, procedono mute, lente ed insicure, è una sorta di realismo interiorizzato: un approccio che rifiuta sia il pudore dei rivestimenti estetici, sia la sfrontata genuinità della cronaca documentaristica. E fa in modo che la verità sia quella che si rivela dentro, e si presenta al mondo esterno sotto la calda ed eterea forma di un sospiro.
La successiva puntata de Il cinema degli altri:
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