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"Bittere ernte", il primo eroe-non-eroe della Holland
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“Il corso di catechismo si teneva in un locale dietro al sacrestia, freddo e puzzolente di sudore. Padre P. ci diede da studiare un libro composto di domande e risposte e di orazioni. Nella preghiera ci guidava personalmente. Tania mi raccomandò di stare molto attento a osservare come facevano gli altri bambini a pregare, quando si inginocchiavano, quando si segnavano, e di comportarmi come loro. Ci avrei messo un po’, ma non dovevo far notare che non sapevo come si fa. Dopo le preghiere padre P. spiegava l’argomento della giornata e ci chiamava per nome a rispondere alle domande del libro, che leggeva lentamente e ad alta voce. Scoprii che era meglio dargli le risposte esattamente com’erano scritte. Ma, studiando questo libro e ascoltando il sacerdote, capii che la mia situazione personale era disperata e deplorevole.

Non esiste salvezza se non attraverso la grazia, e la grazia si può conseguire unicamente attraverso il battesimo. La virtù senza la grazia non può bastare. Me lo spiegò con l’esempio del popolo ebreo. I patriarchi del Vecchio Testamento erano contemplati nella discesa salvifica di Cristo all’inferno. Ma dopo la nascita del Signore gli ebrei avevano infranto il loro patto con Dio, crocifiggendo Suo figlio e ostinandosi a ribellarsi al Suo insegnamento. Era pertanto evidente come, quand’anche non violasse i comandamenti, ogni ebreo fosse dannato”… 

                                             °°°°°

Leon – “Sono dodici gli apostoli. Uno è più importante, però…”

 Rosa – “A Simone lo chiamarono Pietro. Saul si convertì e scelse il nome di Paolo. Giovanni invece…”

Leon – “Già gli e lo avevano dato a Giovanni!”

Rosa – “Così non posso concentrarmi”

Leon – “Ma vuoi imparare o no? Cosa hai fatto tutto il giorno?... Se non sai bene le regole della fede, il prete non ci sposerà mai!”

Rosa – “Ed anche se fosse, che importanza avrebbe?”

Leon – “Questa è una situazione eccezionale, però finita la guerra non vedo per quale ragione dovremmo continuare a vivere nel peccato. Dovresti rallegrarti di conoscere finalmente la vera fede”

Rosa – “Meno male che no ti sei fatto più prete. Saresti insopportabile”

Leon – “E’ una vergogna non conoscere il Vangelo!”

Rosa – “Ma sei tu che non conosci il Vecchio Testamento. Che è l’origine della fede. Disprezzi la mia fede giudaica, però essa è il fondamento della vostra di religione. Siamo i vostri fratelli maggiori, di voi pagani.”

Leon – “Ma sei pazza?... Quali pagani?”

Rosa – “Però voi eravate prima dei pagani!”

Leon – “I giudei hanno crocifisso Gesù Cristo!”

Rosa – “Il vostro Gesù era giudeo! Un messia giudeo, se ti interessa saperlo… Gli apostoli erano giudei, e pure la tua Vergine Maria lo era. L’unica differenza è che voi credete che il messia, da solo, vi ha salvato tutti. Il Cristo sul Calvario…. I giudei hanno oggi, invece, migliaia di martiri innocenti!”

Leon – “Taci!”

Rosa – “Con quale diritto esigi che io rinneghi la mia fede?”

Leon – “Con quale diritto tu compari il Cristo alla tua gentaglia giudea?”

                                             °°°°°

Ho voluto accorpare monologo e dialogo soprariportati, perché ritengo si possano trovare molti punti di contatto, parecchie fascinazioni comuni e singolari permanenze di senso tra le pagine del romanzo di Louis Begley, “Bugie di guerra”, ed il film “Raccolto amaro” di Agnieszka Holland.

Il primo è l’intenso racconto della rocambolesca odissea del piccolo Maciek e di sua zia Tania, unici sopravvissuti della loro famiglia, nella Polonia occupata dalle truppe naziste. Un’odissea costellata da incontri e da sotterfugi, da fughe e da improvvise speranze di riparo e di difesa dagli orrori della guerra; un meccanismo narrativo perfettamente oliato che sta a metà strada tra il grottesco ed il tragico, dove la finzione, il non essere ciò che si è e l’essere invece ciò che non si è, diventa regola base di sopravvivenza. La seconda invece è un’opera cinematografica poco conosciuta, di una regista sicuramente apprezzata dal pubblico internazionale ma più per i risultati non sempre convincenti della seconda parte della sua carriera. Un’artista polacca, già assistente di Zanussi e co-sceneggiatrice di Wajda, che dei due maestri del “cinema dell’inquietudine morale” ha preso, quasi in egual misura, molti pregi e pure qualche vistoso difetto. Una capace narratrice per immagini che, a seguito dei fatti tragici del dicembre del 1981, si è vista costretta a sviluppare buona parte delle premesse stilistiche già evidenziate in patria fuori dai confini polacchi; prima in Francia, poi in Germania, ed infine negli Stati Uniti. Un’autrice che sul tema centrale di questo suo sconvolgente film, e cioè sulle conseguenze morali di azioni e scelte fatte mentre la storia incontra e travolge gli uomini, sulla crudeltà stessa della storia umana che diventa specchio deformante l’identità e la consapevolezza di sé, è tornata in altre decadi con opere comunque di sicuro interesse. Prima negli anni ’90 con il film tratto magistralmente dalle “Memorie” di Salomon Perel, e cioè “Europa Europa”, e recentissimamente con “In darkness”.  

Ma è in questa sua prima incursione nel “gioco del fantoccio della guerra”, che la Holland riesce a identificare con eccellente sobrietà gli elementi che compongono l’intreccio e lo sviluppo dell’azione drammatica; da un lato il fiume carsico dei disperati, dei vinti e dei perseguitati, che squarciando il buio iniziale dei titoli di testa, saltano dentro la storia filmata ed invadono con la loro presenza quella vasta landa desolata che è l’impassibile, e allo stesso tempo, inumano universo di chi si prefigge di vivere il massacro come una normale epoca di transizione. Di arricchimento, anzi. Un film che pare possa discutere di religione, che tremi soffusamente di una riflessione teologica, che sostenga tesi e proponga antitesi ma che, alla fine, si piega alla benedizione maledetta di una salvezza che salvezza forse non è. La figlia ed il marito delle due vittime del campiere Leon Wolny, salvati dal conflitto ora sperano in una nuova esistenza in America e da New York, metropoli già tentacolare e multiforme, inviano la loro piccola carta di emendamento per la coscienza di un uomo perso, ritrovatosi, perso nuovamente ed in cerca di una sua identità mentre gioca, sbrana, afferra e nega le identità degli altri. 

Ecco, la sintesi mancante. Perché rimane da chiedersi cosa porta Wolny a salvare Donna Rosa, bella giudea fuggita  - con figlia e marito, la prima però morta ed il secondo disperso nel bosco – da un carro bestiame diretto ad Auschwitz. Il paradosso percorre e vivifica questa narrazione. Una pietà impietosa che rimane impigliata nella rete delle ambizioni sociali (Leon è il figlio di un povero bracciante, al soldo di una ricca famiglia di Cracovia), di conversioni inespresse (Leon frequenta il seminario, vuole diventare prete ma non finisce il corso per la debolezza della sua fede), di aneliti vigliacchi (Leon si avvicina alla resistenza ma, quando deve dare prova di sé, manda a morte una ingenua donna che lo ama follemente senza essere ricambiata), di istinti irrefrenabili (Leon non è sposato; imprigiona tra le sue brame Rosa, tenta di circuire per interessi Eugenia, ed infine diventa il padre del figlio che attende una serva debosciata e ninfomane, molto più giovane di lui). Una empietà pietosa che spinge alla fine Wolny a tentare di riparare all’irreparabile. Dunque, chi è davvero Leon Wolny? O meglio cos’è?...

Se in “Europa Europa”, Salomon Perel (o Solly, o Salek, o Jupp, in virtù dei continui cambi identitari) alla fine riusciva ad ‘essere partorito’ dalla guerra e a rinascere con l’istinto della conservazione e della integrità d’animo, dovuta proprio alla necessità di raccontare l’abominio e l’insensatezza grottesca dell’odio, se nell’ultimo “In darkness” Leopold Socha, anche dopo aver ricattato e tradito, trovava se stesso “giusto tra le nazioni” e moriva forse anche “per la punizione di aver aiutato gli ebrei”, qui Leon Wolny invece amplifica lo stato di reclusione, di sfruttamento e di annullamento della ‘vittima’ di turno. Illumina di squallore un mondo fittizio di vere canaglie (“Una canaglia in meno!” e ciò che dicono lui ed il suo compare quando trovano il delatore Maslanko, loro amico, sgozzato dai partigiani). Raggela la spinta di liberazione dall’incubo nazista in un gretto conteggio economico di dare ed avere, forse facendo presagire (e qui c’è una pennellata autobiografica della regista) che la fine della guerra non sarà ‘la fine della guerra’. Ad un invasore ne seguirà un altro. Continueranno i carri bestiame, stavolta con nuove direzioni e conducendo con sé nuovi fantasmi, continueranno ad aggirarsi tra i boschi i fuggitivi, i perseguitati; continueranno le buche nella terra, le delazioni, i calcoli bizantini tra concedere aiuto o dispensare la morte; continueranno i nascondigli a nascondere, con le nostre povere vittime, anche ogni minima attesa di coscienza.

Magari, così, Leon Wolny è la Polonia intera che passa dal martirio ariano all’oppressione sovietica, dalla croce uncinata alla falce e il martello, dal nazismo al comunismo. O, se preferite l’omissione ideologica, Leon Wolny è il campiere dell’umanità intera, squallidamente indaffarato con lo stesso sacco di iuta che trasporta prima delle mele (anche qui frutto simbolo del tradimento), poi il cadavere di una spia da far sparire, ed infine da servire per raccogliere le povere cose di una donna tenuta in salvezza/ostaggio per più di un mese. Una possibile sposa lasciata ‘suicidare’ perché nella partita a scacchi con la storia chi vuole vincerla, una volta dev’essere cavallo, una volta torre ed altra alfiere. Ma mai può correre il rischio di farsi pedina. Lo sviluppo del film sta in due passaggi essenziali, chiarificatori. La prima volta che Leon porta fuori dal nascondiglio Donna Rosa e le fa baciare nuovamente il sole, lasciandola saltare a piedi nudi tra le pozzanghere dell’aia, è il primo assalto alla sua integrità; l’uomo la prende contro la sua ritrosia, la vince. E, ad una nuova uscita tra i colori ed i suoni della primavera imminente, le fa chiudere gli occhi e le fa ascoltare il mondo. Un ronzio, il canto degli uccelli, il silenzio, poi gli spari delle esecuzioni sommarie. E nuovamente afferma il suo potere sul corpo e sull’identità della donna.
La sintesi alla fine è una sola. Le fosse si scavano nei boschi così come sotto ai pavimenti delle case. I salvatori sono anche aguzzini. Tutto ciò che sembra rendere possibile la vita tra gli uomini (sesso, economia, società, religione), alla fine può divenire un semplice quanto implacabile strumento di oppressione. Un film molto bello e non importa se sono cinque, quattro, tre le stelle che splenderanno nella mia opinione; conta poco il numero di stelle in una notte fattasi così buia…

 

 

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