Nasce il 14 luglio – io il 12 – del 1940 a Laveno – io del 1978 ad Abbiategrasso, va bè. Ma è a Milano che nasce il “Pozzetto” artistico. Nel ’64 forma il duo comico Cochi e Renato con il suo grande vecchio amico di sempre Aurelio Ponzoni. Il Cab ‘64, l’Osteria dell’Oca, e infine il mitico Derby, il laboratorio avanguardistico della Milano che ride sono i locali in cui i due saltimbanchi si presentano in scena carichi solo della loro improvvisazione. I loro amici? Uno su tutti l’immenso Enzo Jannacci conosciuto proprio al Derby nel ’64, ma anche Massimo Boldi, Felice Andreasi, Adriano Celentano, Dario Fo, Lino Toffolo e col tempo tutti coloro che tra il Derby e la tv anni ’80 sono gravitati nell’orbita del cabaret che conta. Poi arriva la tv: ed ecco in fila, Quelli della Domenica nel 1968, Il Poeta e il Contadino tra il ’68 e il ’73 e infine la Canzonissima del ’74 che poi li divise. Una separazione arrivata dopo un successo enorme, epocale e rivoluzionario per la comicità italiana, ma senza essere una vera e propria separazione. Infatti Cochi e Renato rimangono amici e ognuno insegue la propria strada.
Si frequentano nella vita, sono amici di famiglia fin da quando erano piccoli. A parte qualche incursione cinematografica che li vede protagonisti insieme, Cochi si dedicherà quasi totalmente al teatro di prosa, impegnato e serio, mentre il Renato si concentrerà sul cinema raggiungendo fama e considerazione storica negli anni ’80. Partito dal 1974 di Per Amare Ofelia, arriva all’inizio degli anni ’80 con un bagaglio di titoli d’antologia come La Poliziotta, Paolo Barca Maestro Elementare: Praticamente Nudista, Oh! Serafina in un inedito ruolo misurato e serio, Ecco Noi Per Esempio per la prima volta in coppia con Celentano, Tre Tigri Contro Tre Tigri, Io Tigro, Tu Tigri, Egli Tigra e Saxofone che è anche la sua prima regia, se tralasciamo quella nell’episodio del precedente Io Tigro.
Gli anni ’80 iniziano con uno dei film più amati da Pozzetto stesso: Sono Fotogenico. Il suo carisma cresce, è più convinto di essere autore, seppur sempre cialtrone e saltimbanco, ma ugualmente autore di una autorialità di se stesso che solo i grandi comici della storia hanno avuto. E gira così titoli ben presenti a tutti come Porca Vacca, Mia Moglie è una Strega, Culo e Camicia, Nessuno è Perfetto, La Casa Stregata e Questo e Quello. Ma il suo periodo di massimo splendore va dal 1983 di Un Povero Ricco al 1985 di E’ Arrivato Mio Fratello, a cui appartengo altri due capolavori come Lui è Peggio di Me, di nuovo in coppia con Celentano, e l’ormai mitico Il Ragazzo di Campagna. Mitico perché ha creato una vera e propria mitologia di situazioni, tipi e sketch ben presenti e conosciuti da chi era ragazzino a quell’epoca e riproposti regolarmente in compagnia.
Inizia poi un periodo di semi-declino. Solo gli aficionados lo seguono certi di non essere traditi, ma i titoli da segnalare diventano pochi rispetto al periodo precedente. Ci si ricorda di Grandi Magazzini – e del cane castrato – e soprattutto ci si ricorda di Da Grande, ad oggi il film che lo ha fatto conoscere anche non ai suoi fans, compreso chi oltreoceano lo ha poi fatto diventare Big con Tom Hanks. Seguono Burro, molto amato da Pozzetto, la trilogia delle Comiche in coppia con Villaggio, con cui Pozzetto confessa di aver iniziato a vedere che le cose andavano male. Arrivano poi Piedipiatti con Montesano, Infelici e Contenti con Greggio e Ricky e Barabba con De Sica, forse i titoli migliori, soprattutto quello con Greggio, e tutti e tre del biennio ’91-’92.
Si arriverà in seguito, senza troppi clamori, al 1996 di Papà dice Messa in coppia con Teocoli. Terza regia per Pozzetto, ed ennesimo tentativo di trovare un nuovo compagno storico. Ma l’amicizia vera che lega Cochi e Renato crea anche un feeling insostituibile. Sarà così, che dopo quattro anni di fermo per Pozzetto, e ben 25 per la coppia famosa, Cochi e Renato si ritrovano sulla Rai per Nebbia in Valpadana, a teatro con Nonostante la Stagione, e anche dentro un cd con Le Canzoni Intelligenti. Bisognerà aspettare altri sette anni per goderseli di nuovo. Nel 2007 infatti tornano in tv a fare cabaret a 33 anni dall’ultima Canzonissima con Stiamo Lavorando per Noi, tornano a teatro con Nuotando con le Lacrime agli Occhi e al cinema con la quarta regia di Pozzetto dal titolo Un Amore su Misura.
Cosa distingue Cochi e Renato dal resto della comicità italiana? Non è un mistero che è fattibilissima una mappatura della comicità in Italia. C’è quella milanese, quella di Cochi e Renato, Jannacci, Gaber, Celentano, Abbatantuono, Porcaro, Boldi e Teocoli, più i recenti Maurizio Milani, il panettiere Chiodaroli, il trio Aldo Giovanni e Giacomo, Bebo Storti, Ale & Franz e Kalabrugovich. C’è la comicità toscana di Pieraccioni, Ceccherini, Panariello, Benigni e Francesco Nuti. Quella romana di Verdone, Sordi, Manfredi, Montesano, Proietti e molti altri. La napoletana di De Filippo, Peppino, Totò e il recente Salemme. Infine quella siciliana i cui nomi storici sono Franco e Ciccio e oggi Ficarra e Picone. Ogni regione ha la sua nutrita schiera di comici, addirittura ogni località può vantare un suo personale approccio al lato comico della vita. Ma le principali sono quelle elencate.
Di queste, a parte la toscanaccia rustica e viscerale, le altre sono tutte comicità di situazione, di tipi e gag tradizionali. La romana e la napoletana poi, erano addirittura le codifiche comiche imperanti da sempre, anche nei primi anni ’60 quando esordivano Cochi e Renato. Il loro merito fu quello di essere l’alternativa al modello dominante proponendo situazioni assurde al posto di quelle canoniche d’avanspettacolo, un linguaggio estraniante al posto della battuta calcolata e prevedibile, un’interpretazione stralunata al posto di una consapevole presenza scenica. Il tutto abbracciato al nonsense che gli ha resi poi celebri.
La loro forza, prettamente milanese, è stata quella di presentarsi come un’alternativa più che valida, un’alternativa soppiantatrice. Tant’è che ad oggi molti sono i comici in cui si può ritrovare il “gioco” comico-surreale di Cochi e Renato. Chi di più, chi di meno, chi più dichiaratamente e chi più di nascosto, molti sono quelli che hanno imparato la lezione del duo comico milanese. Tra questi vanno ricordati Zuzzurro & Gaspare, Aldo Giovanni e Giacomo, Nino Frassica, Gene Gnocchi – anche se gli ultimi due sono molto personali e indipendenti nella loro origine comica, ma credo si possa rintracciare comunque un debito con il duo milanese. Ognuno ha poi apportato qualcosa di originale che ne ha decretato il successo e il marchio personalissimo. Pensiamo a Gnocchi, una delle voci più sottilmente ironiche e satiriche del nostro panorama comico italiano. Oppure i grandissimi Zuzzurro & Gaspare che han fatto della scena vuota il loro cavallo di battaglia, come Cochi e Renato, ma aggiungendovi la loro particolare brillantezza che infatti adesso li vede tra i più applauditi attori teatrali brillanti, soprattutto Andrea Brambilla (Zuzzurro), uno dei migliori attori italiani.
Ad oggi, invece, la rinnovata presenza di Aurelio Ponzoni e di Renato Pozzetto è la constatazione che la loro comicità non solo non è morta, anzi è viva e vegeta e palpitante, ma è anche il monito che l’Italia sta perdendo la sua innata voglia sperimentale, di nuovi linguaggi, di un’universalità di gag assurde capaci di parlare a chiunque. Le evoluzioni sintattiche del duo comico milanese, la loro interpretazione alienata e stralunata, la loro “nonchalance” nel tratteggiare il proprio mondo comico, sono caratteristiche che oggi mancano a quasi tutti i celebrati comici d’Italia, Zelig o non Zelig. Insomma, non c’è Zelig che tenga, Cochi e Renato rimangono i più grandi, che in linea diretta con le grandi coppie comiche che gli hanno preceduti e seguiti, come Tognazzi-Vianello, Ciccio e Franco, Ric & Gian, Totò e Peppino, Zuzzurro & Gaspare, sanno essere sempre e il più importante punto di riferimento.
Passando a Renato Pozzetto la “roba” si complica. “E la Madonna!” direbbe lui con quella faccia tenera da cane bastonato. Invece Renato Pozzetto possiamo dire con assoluta certezza che è l’equivalente italiano del gigantesco Buster Keaton. Negli anni del muto, nell’opposizione Charlie Chaplin/Buster Keaton, saltavano agli occhi i due modi con cui parlare dell’uomo e raccontare il mondo dell’epoca. Chaplin era il casinista rocambolesco, vestito in modo improbabile, sempre in qualche guaio, inseguito dai soliti poliziotti col manganello in perfetto stile slapstick comedy; Chaplin era la causa del casino intorno a lui.
Keaton, invece, nella sua straordinaria maschera, nella sua fissità, nella sua sottrazione delle emozioni visive tipiche di ogni attore, soprattutto nel suo connaturato mutismo e fissismo, rappresentava il sorriso amaro, la disillusione, la malinconia dolce di una condizione serena che il mondo gli privava; Keaton poteva anche essere la causa del casino intorno a lui, ma rimaneva immobile, fisso, sconcertato, alienato, distante. Caratteri che ritroviamo nella poesia comica dell’assurdo di Renato Pozzetto. Se Keaton era più elegante e intellettuale nel suo proporsi e nel suo creare, Pozzetto non rinuncia alla sua condizione naturale di saltimbanco, di cialtrone, di villano contadino concreto in opposizione al poeta astratto che è stato poi Cochi ai tempi del duo.
Anche nelle sue performance cinematografiche, Pozzetto rimane diversi passi lontano dall’oggetto emozionale della situazione. La sua espressività stralunata, fatta di silenzi, di gesti impacciati, sguardi fissi di una freddezza sì milanese, ma che è propria di ogni maschera italiana e non, sono i caratteri che lo portano ad allontanarsi dal “centro” che invece attirerebbe qualsiasi altro attore in sede di interpretazione. Un ipotetico dizionario pozzettiano potrebbe essere questo: stralunato, straniante, alienato, sottrazione, silenzi, sguardi fissi, freddezza, nonchalance, malinconia, riso, improbabile, assurdo, surreale, nonsense, originale, poetico, semplice, concreto, astratto, sintassi evoluta, jazz.
Perché Jazz. Il jazz lo sanno tutti, si spera, è l’apoteosi dell’improvvisazione dei sensi, è l’orgasmo perpetuo dei nostri sensi in copula con le nostre emozioni. Il jazz sta quindi a Pozzetto come una jam-session sta alle gag comiche. Il piacere di Pozzetto risiede così nel suo gusto per l’assurdo. Rivedere oggi Saxofone, sua prima regia del 1978 è come immergersi in un carosello felliniano, un circo di situazioni e di linguaggi non di questo mondo. Le sue successive prove di regia in lungometraggi non hanno avuto lo stesso impatto autoriale della prima.
Con Un Amore su Misura, da un’interessante romanzo di Vittorino Andreoli, l’autorialità di Pozzetto fa un passo avanti, ma resta incompresa. Anche nei film non da lui diretti, Pozzetto riesce a far breccia nella paludosità melmosa della risata italiana. Supera la commedia dell’arte, sorpassa azzardato la farsa popolare dei cinepanettoni e ci propone il suo teatro dell’assurdo. L’assurdo in Pozzetto è come la brevità in Ungaretti. Non è solo il suo marchio d’autore, ma la vera essenza della sua opera. Pozzetto come Ungaretti? Perché no? Poeti lo sono entrambi.
Infatti, lungo tutti i ’70, Pozzetto inanella un personaggio dietro l’altro senza allontanarsi dal suo ruolo principale, se non in casi celebri come in Oh! Serafina. Credo che il momento di maggior codifica della sua comicità è da rintracciare in quei primi anni ’80 in cui anche il boom delle televisioni ha permesso una maggiore visibilità delle sue performance. Titoli come Lui è Peggio di Me, La Casa Stregata e Culo e Camicia sono emblematici. Ma i due film, tra l’altro contigui, girati uno dietro l’altro tra l’84 e l’85, che sono un vero e proprio manifesto pozzettiano, restano Il Ragazzo di Campagna e E’ Arrivato Mio Fratello... Ralf Benson! Direbbe il Renato guardando il cielo stellato in cerca del proprio nome.
Nel primo, Pozzetto porta in scena, nella centralità dell’azione, il contadino da cui era nato comicamente al fianco di Cochi. Il film è una giustapposizione di gag esilaranti, mai viste prima, qualcosa che i detrattori fanno fatica ad accusare. Siamo nell’evoluzione sintattica del linguaggio verbale, frammentato e illogico. Ma anche la sintassi del film viene scardinata. C’è sì una storia che nasce e finisce, quella di Artemio in trasferta milanese dal cugino Severino Cicerchia – generoso Boldi – ma è solo un pretesto per aggiungere gag a gag. Sono vere e proprie “inquadrature” comiche, dato che l’inquadratura è il brano di film compreso tra due stacchi successivi. I ragazzini dell’epoca e i giovani di oggi, passano le giornate, si può dire, a rivedere scene ormai annoverate nella nostra memoria storica.
Con E’ Arrivato Mio Fratello, ...Ralf Benson!, direbbe il Renato guardando il cielo stellato in cerca del proprio nome, l’evoluzione sintattica di cui tanto ho parlato trova il suo manifesto più ricordato, che dà anche il titolo a questo mio articolo: “Scusi cardinale, ho sbagliato incendio”. Allora, innanzitutto non c’è nessun cardinale, secondo non c’è nessun incendio. Si tratta di Ovidio Ceciotti che sta facendo le inalazioni all’eucalipto con tanto di asciugamano rosso sulle spalle. Ma anche nel caso fosse semplicemente una svista, un equivoco, un normale comico italiano, ansioso di portare avanti l’azione, puntando più sulla scena brillante che su quella assurda, avrebbe gestito diversamente la battuta. Non avrebbe detto “Scusi cardinale”, perché era la casa di suo fratello, e se proprio fosse stato un cardinale o qualcun altro che non fosse il fratello, gli avrebbe detto tutto sommato “scusi ho sbagliato appartamento”. No! Il Pozzetto cita l’incendio!
Non è l’unico esempio con cui si possono tracciare i segni con cui l’attore veicola il proprio sapere comico, la propria intuizione surreale. I segni sono altri e vanno appunto dal linguaggio verbale a quello gestuale, alla postura e alla presenza scenica fino alla struttura nonsense dell’intera scena, architettata senza le basi dell’avanspettacolo.
In ultima battuta, l’assurdo di Renato Pozzetto ha reso il genio comico italiano uno dei più innovativi e avanguardistici in circolazione. Ogni Paese è caro alla propria tradizione comica, ma come la nostra va detto che non ce n’è. Cochi e Renato hanno quel gran cuore di saltimbanchi cialtroni, veri e genuini. Cochi, il poeta astratto, fa di una situazione canonica qualcosa di surreale ed improbabile. Renato, il bifolco concreto, fa di quella situazione la deformazione malinconica della vita di tutti i giorni.
Firenze, giovedì 11 gennaio 2007
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