Ogni giorno passato a Venezia apre la mente. Salvo quando il tempo non ti annebbia la vista: anni fa, avevo coniato questo proverbio, di fronte alla città più affascinante e spesso nebulosa del mondo. Ed è il caso di riprenderlo, parlando di “The Police Officer's Wife”, e che in originale è “Die Frau des Polizisten” (diciamo “La donna e il poliziotto”, per mantenerci sul vago.
Gröning, Philip ; Düsseldorf, classe 59
Anni fa poteva capitare di incrociare un tipo dal marcato accento tedesco che parlava inglese prontissimo a spiegarvi il suo progetto: per il sottoscritto, che in circa trenta anni (come passa il tempo!), ha visto decine e decine di festival, però, la cosa era usuale. Fino all'avvento del digitale, quando per quasi tutti i costi erano davvero proibitivi, molti autori giravano con due, tre cartelle dattiloscritte nei circuiti festivalieri alla ricerca di contributi e finanziamenti. A queste manifestazioni, è noto, partecipano produttori, investitori, distributori. Ma le possibilità di riuscita che un progetto simile vada in porto sono davvero basse: è quasi tutto pre-ordinato negli studi di una società che ha un paio di sceneggiatori cui affida due, tre storie, magari tratte da romanzi e racconti di cui ha già comperato i diritti. Per chi sogna, però, si può anche sperare di fare l'incontro di una vita. E Philip era davvero un sognatore: l'ultimo (o magari il penultimo) dei romantici. Il suo progetto, infatti, era ridotto a poche righe, anzi una: filmare l'interno di un monastero. Gröning proviene, in definitiva dal documentario: anche oggi, dunque, ritorneremo su questo aspetto fenomenico del cinema, la presa in diretta. Le ragioni di filmare con una troupe modesta, con una sceneggiatura adattabile alle situazioni, una macchina da presa leggera, affidabile e soprattutto poco rumorosa (per chi ha avuto modo di utilizzare una super-35 mm, sa che occorre una troupe di diversi elementi, insonorizzare la macchina e soprattutto allestire appositi binari su cui far scivolare carrelli, cavalletti a tre piedi semoventi, dolly e piccole gru, perché la stazza della cinepresa non favorisce riprese a spalla, l'esatto opposto di ciò che occorre al documentarista), via via che negli anni la tecnica andava migliorando, sono venute fuori sempre più prepotentemente: la possibilità di lavorare “en plein air” e utilizzando location naturali, un minore carico di luci ad incandescenza. Allora, quale migliore sede di un monastero, per realizzare tutto ciò? “Philip, I'm sorry, but are you sure of what you say?”, ma lui era sicuro. Da diversi anni, infatti, mandava la richiesta di autorizzazione alle riprese ai monaci certosini de la Grande Chartreuse, sulle Alpi Francesi, a una trentina di kilometri da Grenoble. Ovviamente, i monaci sono pazienti, ma chiusi. Rispondevano sempre no. Ma lui era certo che ce l'avrebbe fatta: aveva, diceva, la loro stessa pazienza. Il fatto è che Philip, prima di fare il regista (in fondo, gli si riconoscono meno di una manciata di titoli: l'unico noto è intitolato “Sommer”) ha studiato Medicina, in qualche modo ha esplorato l'animo umano. Una lunga permanenza nel Sud America, poi, lo accomuna ad un altro “maledetto” testardo del cinema tedesco: Werner Herzog, di cui, almeno per la linea documentaria, si sente l'erede. Va fatto qui presente che, da Fassbinder in poi, la Germania ha sviluppato un filo continuo tra gli Autori di provenienza tedesca, cercando di sostenerli tutti: la Fondazione delle Due Germanie, infatti, delibera per circa trenta film all'anno, indipendentemente dal peso politico, dal colore, dalla sceneggiatura, ma riconoscendo il solo valore dell'opera. In Germania, in sostanza, conta il film, più che il regista. Non è infatti un caso che proprio Herzog abbia girato il mondo in lungo e in largo per trovare capitali: il regolamento tedesco è molto rigido, poco concede ripetizioni di contributi nella stessa direzione. Se ci si fa caso, anche Reitz (che ha legato il suo nome ai capolavori di “Heimat”) ha fatto pochissimo, oltre all'opera che lo ha reso celebre. Stufo di non trovare finanziatori, allora, che ti fa Phlip ? Ma è ovvio: dopo che i monaci si sono stancati e gli hanno concesso il permesso di girare, con un solo amico – nemmeno un operatore, diciamo un tutto fare – una telecamera digitale ed una piccola cinepresa in 16 mm, si avventura ne La Grande Chartreuse. Voci non confermate aggiungono che alcuni certosini si prestarono a dare una mano come tecnici volontari (“ti tengo il microfono”, “reggo la camera”), ma, in definitiva, grazie ad una scenografia meravigliosamente naturale, ai costumi, ai momenti di coesione tra i frati, “Il grande silenzio” fu l'opera di un uomo solo, Philip Gröning. Ora, che il suo film sia stato considerato lento, difficile da sostenere, non tragga in inganno : è un pugno nello stomaco. E, pensando anche ai tempi, “The Police Officer's Wife” resta, ad oggi, il favorito per la vittoria.
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