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Stazione Carandiru, ultima fermata...
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Spada -“Per il rimorso c’è un rimedio?”

Il dottore -“No, non c’è, perché allora tutti ne avremmo davvero bisogno!”

 

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“Quand’ero bambino, guardavo elettrizzato i film carcerari in bianco e nero. I detenuti vestivano le loro uniformi e progettavano fughe mozzafiato, buone per qualche sceneggiatura di successo. Nel 1989, venti anni esatti dopo essermi specializzato come oncologo, dovetti girare un video sul problema dell’AIDS nell’infermeria del penitenziario statale di Carandiru di San Paolo, costruzione ideata negli anni ’20 dall’architetto Ramos de Azevedo. Quando la pesante porta si chiuse dietro di me, avvertì un groppo alla gola come mi succedeva certe mattine al Cinema Rialto, nel quartiere di Bras!”.

Inizia così il suo racconto sull’incontro con il carcere di Carandiru, il dottor Drauzzio Varella. In questa presentazione sono già chiare tutte le componenti che caratterizzeranno non solo la scrittura del testo, ma che daranno al racconto di vita di Varella i crismi di un ‘testo cinematografico’; un destinare parole e periodi a colmare spazi e paure, ad illuminare incubi e sogni o, umanamente, a spegnere il senso sulle mille ingiustizie che la giustizia porta sempre con sé. Quasi a sottolineare come il testo di “Estaçao Carandiru”, se non trasuda cinema da ogni pagina, di una elementare, simbolica ed al tempo stesso realissima fascinazione cinematografica è figlio certo.

 

Cos’era Carandiru, innanzitutto? I muri della prigione vengono inaugurati nel 1928; sono gli ultimi anni di quella che verrà poi ricordata come la ‘Vecchia Repubblica’, figlia della politica “café com leite” (la ‘politica del caffellatte’, quando i paulisti e le popolazioni del Minais Geiras, produttori rispettivamente di caffè e di latte, monopolizzavano la guida del paese). Il ‘caffellatte’ brasiliano è una lunga parentesi di democrazia più o meno illuminata che, se da un lato garantisce unità e sviluppo nel commercio e nelle arti, dall’altro provoca non pochi risentimenti in molti strati della popolazione e procura alibi e ragioni per continue rivolte, putsch e tentativi di insurrezioni militari. Insomma, getta le basi per il colpo di stato di Getulio Vargas...

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Ma non è questo che ci interessa. Quello che ci importa è quest’altro. Carandiru diviene l’emblema di un sogno riformatore nella nascente buona borghesia paulistanas. L’enorme paese, regno della fortuna e della disgrazia, pubbliche e private, ricco di materie prime e di giacimenti ma attraversato da un malessere diffuso e già marchiato dalle grandi differenze che lo accompagneranno fino ai giorni nostri, intende con quell’imponente edificio di correzione e di riabilitazione segnare un punto fermo. Carandiru è il simbolo dell’ordine nel progresso, del controllo sociale nell’inevitabile scontro tra classi e tra generazioni. Viene costruito in una zona ancora semi-periferica di Sao Paulo, amena quanto basta perchè le alte mura trovino ancora ombre di magnolie tra i loro inserti. In un vecchio footage traballante, tutta la vita del nuovo carcere è ripresa e ciò che si mostra è solo pulizia, efficienza, ordine e volontà di redimere gli errori dei ‘bandidos’. Ciò che è invece Carandiru all’epoca ‘filmica’ del racconto lungo di Babenco, ce lo mostra opportunamente la prima inquadratura. Una veloce zoomata cala dall’alto su Sao Paulo. Che non è più una città ma una ragnantela, un tessuto indistinguibile di costruzioni, vie, spazi irrisolti o compressi, indefinite strategie urbane che escono fuori dallo sguardo dello schermo e depongono per il teorema di un caos ineffabile. Questo concetto delle prigioni, o meglio degli ‘stati di prigionia’ che si intersecano e si contengono quasi in una disperata matrioska sociale, è il primo spunto che la visione suggerisce. Il ‘Settore giallo” riposa dentro lo stomaco del ‘Pavilhao 9’ che a sua volta è contenuto nella zona esterna del perimetro carcerario, che annaspa tra i quartieri senza nome della città che a sua volta vive adagiata nel corpo malato di un Brasile che cerca di uscire fuori dalla sua di prigione. Che è la prigione del debito, dell’inflazione forzata, della povertà diffusa, della criminalità imperante e della fame di vera democrazia che lo attraversano per intero la tutta la prima metà degli anni ‘90. E come dice il personaggio di Chico in un passaggio rivelatore del film, “L’unica cosa buona della galera, è uscire!”.

 

“Attraverso quale sistema d’esclusione, eliminando chi, creando quale divisione, attraverso quale gioco di negazione e di rifiuto la società può cominciare a funzionare?”. Questa è una della domande centrali che Michel Foucault si pone nella sua trattazione di “A proposito della prigione d’Attica”, ed è una domanda che spesso torna in mente rivedendo le immagini del film di Babenco. Ma se il pensatore francese aveva ancora negli occhi la perfetta lindura della prigione americana, lì dove “dietro a questo paesaggio grottesco, che schiaccia tutto il resto, si scopre che Attica è un’immensa macchina”, nella Carandiru filmica del ’92 nulla è rimasto di così oliato, di correttivo. Ciò che ci mostrano le immagini del film riporta invece all’idea ‘primigenia’ di un luogo di costrizione dove si osserva, impotenti per lo più, al continuo e spesso sfalsato tentativo di riavvicinamento di due mondi separati traumaticamente. Il ‘dentro’ ed il ‘fuori’ che non riescono a  comunicare se non con gli incontri settimanali tra ‘recuperandi’ e ‘visitatori’; visivamente parlando degli affascinanti ‘picnic alla francese’, su cui si sofferma più volte la tecnica registica di Babenco, ma umanamente delle parentesi che riconsegnano i problemi alle loro non-soluzioni (Chico ed i rapporti con i figli; Zico e Francineide; Majestade e le sue due mogli; Ezequiel e la sorella; Deusdete e l’attesa promessa dall’innamorata Catarina). Tanto che viene da sigillare questa riflessione con le altrettanto scolpite parole di Zygmunt Bauman, (“Una società inclusiva sarebbe una contraddizione in termini”), che non fanno da contraltare a ciò che le precede ma, semmai, ne amplificano lo sguardo traverso che scorre lungo quella che qualcuno ha definito “la violenza fredda del carcere”. Che spesso però, sublima l’umanità calda ed incontenibile delle sue vittime...


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Hector Babenco fa suo questo enorme, oppressivo e delicatissimo impianto ideale partendo ovviamente dalle pagine di “Estaçao Carandiru”, ma centrifugando storie e personaggi reali quasi a voler riplasmare lo sguardo letterario in un fotogramma ‘novo’ che aleggi su tutto e su tutti. Arreso alla nostra comprensione di spettattori, ma refrattario ad una chiara matrice scolastica. E se tutta la prima parte si perde, ritrova e ridisperde nel più classico ‘teorema del flashback’ così comune ai movies-crime di stampo hollywoodiano, e se la parte centrale, con il suo lievitare la pena e sottendere la tensione che cova sotto l’epidermide oscura delle celle, fa da piccolo spartiacque è poi nella seconda trama della sceneggiatura che l’opera davvero prende corpo ed anima. “Ci sono sempre solo due opzioni...”, si ripete il dottore all’uscita dal portone di Carandiru, pronto ad essere nuovamente ripreso dalla vita ‘normale’ della metropoli, “...dimenticare o tornare”. Il regista ‘torna’ sulla sua poetica classica della restrizione e della libertà, della violenza e della poesia proprio quando si pensa che l’intero film stia stancamente sfinendo in un ‘monstrum’ inchiodato nella fissità delle vite molecolari, nei percorsi repentini, nervosi, irredenti dei personaggi che lo animano. Per certi aspetti “Carandiru” festeggia il trentennale di carriera del regista argentino, aggiustando le tessere delle due opere che lo hanno reso visibile a livello internazionale (“Pixote” del 1981, “Il bacio della donna ragno” del 1985). Se all’espressionismo feroce che baluginava tra l’umanesimo del primo, mancava il tocco d’ala di un piccolo congegno ipnotico, e se alla didascalia onirica del secondo faceva mancanza un esatto bilanciamento, qui il regista prova a soppesare bene le due cariche induttive (l’espressione e l’impressione). Ed ancora una volta non ci riesce appieno. Felici intuizioni quasi buñueliane (del maestro quando viveva in terra messicana, sia chiaro), come la conversione di Spada sotto la pioggia, fanno contorno a sferzate grottesche che anticipano e chiudono l’orrore finale (la partita di calcio del campionato carcerario ripresa quasi fosse la finale di un mondiale, con atleti commossi, spettatori che cantano l’inno e guardie che fanno il saluto militare; il samba finale che chiude lo scempio con sardonica irriverenza). Ma ci sono lacune narrative in molti passaggi; a volte la tensione scema, il livello torna al minimo sindacale e ci vogliono alcune piccole ‘zampate d’autore’ a risollevare l’attenzione. Un omicidio notturno tra i vicoli illuminati delle favelas, una rissa tra le fiamme di un letto matrimoniale, un matrimonio in carcere tra due ‘puri’ che vivono l’inferno...

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Interessantissima ho trovato la visione del documentario “O prisioneiro da grade de ferro” girato dal regista Paolo Sacramento nel 2001 e cioè un anno prima della definitiva demolizione del carcere. Un esperimento, molto riuscito direi, di ‘narrazione collettiva’ (ritorna il richiamo a Foucalt, che nel novembre del ’71, affitta una sala cinematografica per proiettare un documentario sulla vita nelle carceri di San Quetin e di Soledad, opera che fa interagire per la prima volta carcerati e familiari, “chi sta dentro e chi è prigioniero della propria libertà”!), e che per alcuni versi si avvicina, molto di più del film di Babenco, allo spirito del libro di Varella. Considerata comunque la mole di ‘materiale umano’ e di ‘materia narrativa’, due anni dopo aver realizzato il film, anche Babenco con l’aiuto della regista Marcia Faria proverà a sviluppare il concetto di ‘narrazione collettiva in uno spazio restrittivo’ nei quattro episodi televisivi di “Carandiru: outras historias”.

 

Se possedete tempo eccovi il link del lavoro di Sacramento...

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Infine e per chiudere il discorso. Tre stelle avrei dato alla fatica dell’argentino ma, considerata la parte finale del film abbastanza apprezzabile e l’interesse sulla vicenda che mi ha portato ad approfondire argomenti e punti di vista (che è anche quello che poi si può davvero chiedere ad un film!), segno con discrezione la quarta, di stella... Buona visione.


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