La valutazione di un’opera come “Il momento della verità”, non può prescindere dal considerare proprio l’anno in cui è stata realizzata, e il particolare momento “creativo” della carriera del regista (arriva infatti dopo due “capolavori” come “Salvatore Giuliano” e “Le mani sulla città” e precede la sua successiva “scivolata” verso il mondo più fantasiosamente favolistico – oggettivamente non proprio nelle sue corde - di “C’era una volta”, rivisitazione del mito di Cenerentola in chiave antropologica e popolare ma troppo impreziosita da una “forma” (ambientazioni, fotografia e costumi) “sfarzosamente” opulenta, realizzata con la mediazione delle “novelle” di Giambattista Basile (1575/1632) autore de “La gatta Cenerentola” e de “Lo cunto de li cunti”.
La conoscenza “a posteriori” del percorso del regista, ci permette infatti di leggere adesso il film come un’opera certamente ambiziosa, ma di transizione e come tale, indubbiamente “portatrice” di qualche sottesa eco delle sue precedenti produzioni, ma già pericolosamente sospesa verso la conseguente allettante e imponente (anche come investimento economico) produzione della committenza “Ponti” (una parentesi non proprio “infelice” ma abbastanza discutibile), prima che Rosi ritrovasse la necessaria lucidità critica e politica che lo porterà di nuovo sulla strada maestra della sua personale poetica e che si estrinsecherà e riprenderà adeguato vigore negli anni successivi (anche se con una certa intermittenza), più che con il pacifismo di “Uomini contro” (capitolo ugualmente tutt’altro che secondario, comunque) a partire da “Il caso Mattei” e seguenti.
Opera dunque davvero attesa con spasmodica attenzione (ricordiamo che già a metà dei ’60 sembrava di respirare un’aria un po’ stagnante intorno al cinema mondale in generale - almeno per ciò che riusciva ad arrivare fino a noi – e a quello italiano in particolare e si avvertiva un bisogno assoluto di poter contare su una nuova generazione di autori di cui Rosi poteva a buon diritto essere considerato un capofila). L’altra sollecitazione veniva proprio dall’argomento scelto, un progetto che vedeva Rosi impegnato per la prima volta ad “evadere” da una prospettiva strettamente legata a problemi connessi con l’Italia e gli italiani, visto che tutte le sue precedenti prove si erano indirizzate esclusivamente verso un contesto ben preciso e circoscritto (il sud della nostra penisola). Opere insomma con le quali era riuscito a mettere in magnifica evidenza e a sottolineare con adeguato spirito critico e di denuncia, gli aspetti contraddittori della vita (e delle condizioni di sopravvivenza) di quelle popolazioni emarginate (non solo diseredati e contadini però, ma anche mafiosi e camorristi), con uno sguardo trasversale che riusciva ad offrici di riflesso l’immagine di un paese ancora ben lontano dall’aver raggiunto quel presunto grado di benessere generale e quella unità nazionale di ‘usi e costumi’ di cui tanto si parlava già allora spesso a sproposito e con molto pressappochismo, visto che con ulteriori 50 anni sulle spalle siamo ugualmente ben lontani dall’averla raggiunta, e che anzi la “crisi” non solo economica, ma anche dei valori che stiamo attraversando, ci ha fatto semmai ulteriormente allontanare da quell’ambizioso e sacrosanto obiettivo, spingendoci invece verso un imbarbarimento che ha fatto cadere in disuso rendendoli obsoleti, persino i concetti di condivisione, parità di diritti e fratellanza dei popoli.
In ultima analisi quindi, per la critica e il pubblico, “Il momento della verità” poteva (e doveva) essere la definitiva verifica di un talento espositivo già ritenuto eccezionale, vera e propria prova del fuoco per saggiarne la tenuta anche nella rappresentazione filmica di un problema “sociale” esterno alla sua zona privilegiata di osservazione che si spostava infatti – come ottica osservativa – dall’Italia alla Spagna.
E’ bene a questo punto ricordare che Rosi (già assistente di Visconti per “La terra trema”), si era imposto clamorosamente all’attenzione generale già con la sua opera d’esordio (“La sfida”, 1958, film che solo una giuria troppo ossequiente e timorosa non ebbe il coraggio di premiare col massimo riconoscimento alla Mostra di Venezia di quell’anno, preferendogli il “corretto” ma insipido “L’uomo del Risciò”) certamente non scevra da imperfezioni, ma già depositaria in nuce di una differente e insolita (per il nostro sistema produttivo) maniera di approcciarsi a un racconto che riusciva a fondere l’analisi politica di un problema con il cinema d’azione di matrice hollywoodiana.
Non che “La sfida” fosse un capolavoro assoluto (lo ribadisco): i difetti e le concessioni erano molteplici e piuttosto evidenti, ma era l’opera ‘forte’ e sentita di un debuttante talentuoso, un film insomma stimolante e coraggioso teso alla ricerca di un linguaggio autonomo, socialmente impegnato ma totalmente svincolato dalle precedenti esperienze (neorealiste e post-realiste), pur se realizzato con una tecnica ancora acerba e bisognosa di ulteriore maturazione. La nobiltà dei temi e l’onestà della fattura sopravanzavano comunque di gran lunga le carenze e avevano già fatto immaginare successivi, positivi sviluppi, e questo nonostante che le aspettative (così suggestive) fossero state ridimensionate in parte dal parziale insuccesso e dalle perplessità suscitate dall’opera successiva (“I magliari”, film ambientato in una Little Italy germanica e interpretato oltre che da un manierato Alberto Sordi, da Renato Salvadori e Belinda Lee). Infatti, pur se non mancavano momenti e situazioni felici e intelligentemente risolte, l’opera nel complesso risultava una piccola battuta d’arresto e sicuramente un passo indietro rispetto alla sua folgorante entrata in scena. Sorprendeva soprattutto constatare che il regista questa volta non era riuscito a dare sufficiente spessore psicologico ai suoi personaggi (specialmente quelli minori) che spesso non riuscivano ad andare oltre la “macchietta”. Il film nelle intenzioni (si leggano le note di accompagnamento scritte in occasione della sua programmazione in sala) doveva rappresentare un ulteriore sviluppo dei temi sociali enunciati ne “La sfida” letti in una prospettiva più ampia, compresa quella dell’emigrazione, ma questo impegno ideologico traspariva solo a tratti, rimanendo spesso allo stato embrionale e sotto la superficie.
Si trattava pur sempre di un’opera seconda (che come ben sappiamo è quasi sempre inferiore - salvo rare eccezioni - ai debutti eccellenti: si sarebbe dovuti essere più magnanimi quindi, ma una parte della critica nostrana fu invece particolarmente feroce (soprattutto quella orbitante intorno alla rivista “Cinema Nuovo” diretta da Guido Aristarco) forse temendo di aver preso un nuovo abbaglio (vedasi per tutti il caso di Maselli e de “Gli sbandati”) e di gran lunga più cattiva di quanto il film effettivamente meritasse.
Ma a calmare le acque e a riportare le cose nella giusta prospettiva, arrivò poi lo splendido “Salvatore Giuliano”, che rimane a tutt’oggi davvero la più matura e completa opera di Rosi.
Il successivo “Le mani sulla città”, pur essendo un’opera altrettanto coraggiosa e pregevole (un altro capolavoro in nuce), non ne raggiunge però né eguaglia – pur rimanendo di poco inferiore - quei vertici assoluti, anche se dobbiamo riconoscerle il non secondario merito di aver saputo nobilitare al piano dell’arte cinematografica argomenti particolarmente temerari fino a quel momento (quasi dei “tabù), quali la speculazione edilizia e le compromissioni fra politica, affari e cosche malavitose.
Rimane comunque un appassionante pamphlet politico solo un tantino schematico e a tesi (problemi quindi più di scrittura che di forma), con personaggi troppo nettamente divisi fra il “bene” e il “male” con poche sfumature intermedie (soprattutto il personaggio del comunista, positivo e “ideologicamente centrato” oltre ogni ragionevole dubbio, e conseguentemente privato di una reale consistenza psicologicamente catalizzatrice nelle sue monolitiche e unidimensionali certezze). Avercene però anche oggi opere di tale portata e significato!! visto che il sistema è ulteriormente peggiorato e si sentirebbe un grande bisogno di altrettanto vigoroso coraggio “denunciatorio” che invece purtroppo latita.
Un lavoro insomma altrettanto encomiabile (e giustamente premiato con il Leone d’Oro) con quel prepotente ribadire il suo primario e dichiarato coinvolgimento nel sociale, che diventava però anche il fondamentale tassello che rende evidente l’impegno nella ricerca tesa a sviluppare la definizione di un linguaggio cinematografico autonomo, stilisticamente personale e maturo.
E si arriva così proprio a “Il momento della verità", opera in cui fin dal soggetto sono abbastanza evidenti alcune analogie di “percorso narrativo” proprio con quello che era già stato magistralmente compiuto con “Salvatore Giuliano”: tutte e due le pellicole mettono infatti in scena (pur con le debite ma fondamentali differenti dimensioni di portata non solo storica, ma anche sociologica), il ritratto di un uomo: il famoso e discusso bandito di Montelepre nel primo, un torero qualunque nel secondo. In entrambi, si cerca poi di smitizzare un personaggio “tipo” (semplifico così il concetto), per dare nel contempo anche un ritratto reale e criticamente pregnante della società (e del clima politico) che l’ha generato e in cui si trova ad agire.
Dobbiamo dire subito che proprio in questo parallelismo il film mostra un’ambizione di intenti non del tutto confermata (e forse non poteva essere altrimenti) dai risultati.. Il torero infatti non riesce a rappresentare e universalizzare le contraddizioni sistemiche e i problemi della Spagna di quegli anni, cosa questa che invece era felicemente riuscita proprio per la differente statura del personaggio, con Giuliano, attraverso la spietata analisi della sua storia e della sua morte, collegata alle turbolente vicende siciliane nell’Italia del dopoguerra.
Come persona infatti, Miguelin esiste, è una presenza concreta e attiva della società che lo ha prodotto (e nella prima parte del film si avvertono chiaramente tutti i presupposti messi in campo per analizzarlo anche come prototipo di una generazione che si rispecchia in lui), ma è solo un faccia della medaglia e nemmeno sufficientemente esaustiva. Nella seconda parte (che è poi la più “fragile”) viene infatti a mancare una visione più universalizzante delle cose, e di conseguenza non rimane altro che la dimensione più personale e privata di un “fallimento individuale” che seppure trova le sue radici nelle condizioni e nelle contraddizioni della nazione, non è necessariamente e unicamente da queste motivato né può avere la forza per essere davvero generalizzato per parlare di un concetto più complessivo di “sconfitta”.
I propositi erano ovviamente più che nobili: darci una faccia vera, umana, di una Spagna “cattolica” e bigotta soffocata da un regime fascista (il franchismo che impediva ogni libertà individuale) ancorato a primitive tradizioni strettamente connesse con la “religiosità” atavica del paese (che il tempo e la ritrovatala democrazia non ha poi modificato di tanto). Una dimensione barbarica e quasi medievale delle cose, che porta inesorabilmente a sfogare i propri istinti e le proprie costrizioni in riti ed espressioni che rasentano la violenza e il sadismo (nel caso specifico, la corrida, appunto). Che cosa rappresenta la corrida per gli spagnoli? Questa domanda sicuramente – e lo si evince chiaramente ancora oggi – sta alla base di un film che tenta di dare una risposta ma poi non riesce del tutto a farlo, pur provando seriamente a demistificarla nel farcela percepire più “reale” e meno coreografica e appassionante (un discutibilissimo veicolo di sfida e “prevaricazione” che ha sempre un esito letale, anche quando a soccombere non è l’uomo, ma il toro).
Io non l’ho mai vista e mai la vedrò dal vivo una corrida (mi ripugna persino l’idea), ma ho letto molto intorno e conosco il valore anche simbolico che si tende a dare a una simile rappresentazione di forza a stretto contatto con la morte, crudele e “fuori tempo massimo” ma sorretta e alimentata anche da tanti (troppi) esempi di cattiva letteratura (e non solo) o da molti film turistico-avventurosi soprattutto del passato. Per rimanere nel campo del cinema, anche registi impegnati e importanti, quando hanno affrontato questo argomento sia centralmente che marginalmente (e fatta solo una parziale eccezione per Almodovar), si sono comunque confermati attratti dalla “suggestione” anche metaforica dello spettacolo, rimanendo però sostanzialmente estranei al fenomeno culturale e sociale che ci sta dietro e l’alimenta, nel portarne alla luce solo gli elementi scenografici, folcloristici e talvolta altamente drammatici (ma di una drammaticità esteriore e fine a sé stessa…. che si potrebbe definire, saccheggiando il titolo di un’altra celebre pellicola, del “sangue” e dell’”arena” ).
Qui rimaniamo comunque (quasi) sempre e per fortuna, ben lontani dalla Spagna da cartolina ufficiale e tradizionalista conosciuta attraverso i dépliants turistici e da questi pubblicizzata anche nei suoi aspetti più deteriori, “valorizzati” invece come importanti elementi distintivi di una tradizione “rispettabile”e secolare. Non manca evidentemente nemmeno qui il “fascino perverso dell’arena”, e quello della “liturgia ecclesiastica”, ma Rosi con un piglio a tratti quasi documentaristico ci mostra spesso immagini inedite e potenti capaci di rimettere ogni cosa in discussione, dirette e crudeli testimonianze di un’aberrante condizione umana e sociale, che trova origine nella profonda miseria ed ignoranza in cui si è voluto tener sprofondato un popolo mantenuto a lungo schiavo da un regime dittatoriale, reazionario e assurdo.
Illuminanti a tal proposito sono le prime scene del film, che ci mostrano una nitida (e sconcertante) visione della Spagna bigotta e anodina di quegli anni (non distante da certe tradizioni che si perpetuano anche da noi soprattutto al sud) che mettono a confronto la povertà rurale con il fasto barocco delle rituali processioni della settimana santa. Di un allucinante verismo (anche disturbante) risulta soprattutto il grosso baldacchino sormontato da immagini sacre e candele che a malapena esce dalla porta della chiesa, sorretto da centinaia di persone delle quali si intravedono solo i piedi, che avanzano a ritmo lento e strisciante, simile a un mostruoso animale dalle mille zampe (che mette in evidenza l’amoralità di “certa” fede di stampo “punitivo” attraverso cerimonie che non hanno niente a che fare con il dettato evangelico, e che rasentano appunto la credenza irrazionale della superstizione).
Quell’impressione di disagio che si avverte davanti a questa manifestazione anacronistica e retrograda (come se si fosse davvero di fronte a un’immagine spaventosa e quasi orrorifica) è amplificata proprio dalla valenza simbolica che Rosi riesce a conferirle, c he è poi uno dei pregi principali della pellicola (il “valore aggiunto”, direi), proprio perché capace di trasmettere il disgusto anche nello spettatore e a farlo seriamente riflettere sulle ragioni fondanti di questo abbrutimento bestiale, terreno fertile per ogni dittatura (anche delle idee).
Il protagonista del film è comunque Miguelin, un ragazzo come tanti, figlio di contadini che continuano a coltivare i campi con sistemi arcaici e superati, in netto contrasto con la razionalità raggiunta dall’agricoltura dei paesi liberi, o comunque da quelli sorretti da governi definiti “democratici”: fatica, “fame” ed ingiustizia, insomma, e poco di ogni altra cosa.
Ci troviamo così davanti a un giovane “grezzo” e genuino, che subisce quasi passivamente il suo ruolo quasi da “servo della gleba” (come si potrebbe definire se si parlasse di un film ambientato nella Russia zarista) che non ha ancora preso coscienza dei suoi diritti, anche se ha già sviluppato una specie di avversione un poco anarchica per la società in cui è nato ed è costretto a vivere: un giovane comunque “generoso” e ancora pieno di speranze, pur se non completamente delineate, che si identificano principalmente nella voglia di ricercare e raggiungere un avvenire migliore. E’ per questo che a un certo punto del racconto decide di lasciare la casa e la famiglia per andare in città a lavorare. Vuole essere indipendente, vuole guadagnare di più, conoscere qualcosa di nuovo, allargare insomma l’orizzonte ristretto della sua prima giovinezza.
Un percorso di maturazione insomma, che lo porterà presto a scontrarsi con una realtà più dura del previsto e certamente più difficile e complicata che determinerà ad ogni modo la conseguente progressiva e inevitabile acquisizione di una coscienza non più esclusivamente cattolica, ma anche sociale e morale che potrebbero alimentare anche la rabbia e la ribellione.
La città non è infatti quel “paradiso” sognato: vive come può e a costo di enormi sacrifici perché anche trovare un lavoro costante e duraturo necessario per costruirsi una nuova e decente esistenza, è speso un’utopia, ma non cede, accontentandosi di consumare pasti frettolosi alle mense operaie e alloggiando in una specie di dormitorio pubblico, in mezzo al sudiciume e alla disorganizzazione.
Ci troviamo così di fronte ad alcune delle scene più crude di tutto il film, che ben aiutano a caratterizzare il passaggio dalle speranze e i sogni, alla realtà. Il conseguente e definitivo crollo di tutte le illusioni, lo porteranno così ad accettare di nuovo passivamente ma con crescente animosità, le aberranti leggi tutt’altro che egualitarie, che regolano la società in cui si trova a vivere: pur di lavorare, e non essere costretto a tornare a casa definitivamente sconfitto, Miguelin entra di conseguenza nel giro dello sfruttamento: un sistema tutt’ora in uso e che ha ripreso addirittura vigore, dove “procacciatori” senza scrupoli hanno pieno potere sul collocamento effettivo della mano d’opera del precariato, pretendono tangenti e si occupano anche – dietro versamento di una percentuale del salario giornaliero - a trovare alloggi di fortuna..
Le corrispondenti e impattanti sequenze del film, sottolineano abilmente la psicologia aberrante di questo “caporalato”, l’incombente clima di costrizione che impedisce ogni possibile reazione e permette lo sfruttamento indisturbato degli operai sullo sfondo squallidamente degradato e intriso di miseria della periferia della città (una delle parti più belle e “centrate” di tutta la pellicola, proprio per la forza esplicativa che il regista ha saputo imprimere alle immagini che dicono davvero tutto e non avrebbero bisogno di altre spiegazioni). Rosi però sembra non volersi accorgere che sarebbe stato proprio questo il giusto passo da seguire fino in fondo e sceglie invece di essere più didascalico, calcando di conseguenza la mano per chiarire senza ombra di dubbio il suo discorso, ricorrendo all’’ingombrante “peso” della parola (i dialoghi che risultano forzati e spesso anche artefatti e che spostano pericolosamente la pellicola dalle parti di un film troppo scopertamente “a tesi”).
La risoluzione (parziale) dei problemi di Miguelin si ha apparentemente quando decide di intraprendere la carriera di torero. Più che di risoluzione infatti, si dovrebbe parlare di adattamento e anche, in definitiva, di una completa accettazione passiva delle “regole” imposte da quella particolare società. Miguelin, comunque, riesce a raggiungere il suo scopo diventando un torero (ed anche di successo): il film ci mostra così gli sviluppi pratici della sua folgorante carriera, dall’esordio in un’arena periferica, dovuto praticamente al caso, fino al successivo, definitivo trionfo a Madrid, nella Plaza de Toros.
A partire da qui però il processo abbastanza “corale” della messa in scena si frantuma fino a far rimanere centrale soltanto Miguelin e la sua parabola ascendente su uno sfondo sempre più inerte, come se al regista alla fine interessasse più lui di tutto il resto: lui solo (e, di conseguenza, la corrida diventata parte essenziale della sua esistenza) perdendo così di vista il rapporto dialettico che aveva provato a costruire nella prima parte con la Spagna e il suo popolo). Rimane quindi poco altro che l’ipotetica rivalsa sociale di un singolo individuo ottenuta attraverso una affermazione “individuale” grazie a un a professione “crudelmente” pericolosa ma foriera di quattrini e notorietà., mentre gli “altri” diventano figure di contorno necessarie solo per farci arrivare alla catarsi finale: una folla sempre più anonima e lontana, che si limita a far sentire la sua presenza con brusii, fischi e grida durante le corride, o con fugaci apparizioni non sufficientemente incisive e soprattutto prive di mordente e spessore.
L’unica riflessione certa, è dunque quella che Miguelin diventa torero perché questa era l’unica opzione per uscire da una condizione di degrado e di miseria per lui non più sostenibile, poiché il contesto sociale non gli stava offrendo altra alternativa, ed è quindi disposto per questo a mettere a repentaglio giornalmente la sua vita davanti alle corna dei tori, ormai abbagliato dalla voglia di raggiungere quello ‘status’ sociale a cui aspirava (ma anche in questo caso non mancherà però lo sfruttamento economico da parte dei manager che lo gestiscono). I guadagni sono comunque piuttosto consistenti e il ragazzo comincia a permettersi il lusso del telefono in casa, di una spider fiammeggiante etc. etc. : si potrebbe insomma dire che lui in qualche modo ce l’ha fatta (e come lui, tutti coloro che hanno della “stoffa” per toreare, o più semplicemente la temerarietà e l’incoscienza per farlo, ma ci dice invece troppo poco degli altri, di quelli che non sono altrettanto bravi o non hanno analogo coraggio: si limita a mostrarceli nelle semplici e marginali sembianze di un pubblico urlante e caciarone, che applaude, fischia o starnazza, abbrutito dalla frenesia del sangue e della morte. E anche il disperato gesto compiuto da alcuni giovani che entrano nell’arena per affrontare il toro privi di qualsiasi difesa (mettendo così in grave pericolo la loro vita al solo scopo di dimostrare che non hanno paura, che non sono vigliacchi e che anche loro potrebbero diventare famosi e ricchi, se qualcuno si assumesse l’onere di puntare sulle loro capacità) finisce così per non andare al di là di una felice, ma episodica intuizione che resta troppo marginale.
Le scene girate nell’arena restano ad ogni modo fra le più belle che si siano viste sull’argomento, con ritmo incalzante e calibrato, che raggiunge una continua e reale “suspense”.
Probabilmente è stata proprio questa bellezza intrinseca a prendere la mano a Rosi (e il successivo passaggio a “C’era una volta” sembra volerlo confermare), e a tradirlo in fase di realizzazione: non si spiegherebbe altrimenti l’inserimento di alcuni passaggi pieni di luoghi comuni e banalizzanti, come la terribile (e a mio avviso inopportuna) scena d’amore con la turista-attrice, uno dei momenti più deboli dell’opera.
Ad ogni modo, limitatamente all’evoluzione (o involuzione) del personaggio, anche la seconda parte del film ha pagine di soffuso lirismo e momenti in cui si avverte nuovamente integra e “felice” la mano di un Rosi di nuovo superlativo. Una fra tutte, la splendida scena del ritorno a casa di Miguelin (già famoso torero) nel periodo della trebbiatura, con la fuoriserie (un elemento disturbante e alieno) che sfila davanti a immagini di vita quasi antidiluviane. Ma si devono ancora ricordare tra i momenti di più alta drammaticità che il film raggiunge, e che sottolineano abilmente l’incombenza della morte come “presenza fisica”, l'ingresso nell’arena completamente deserta e la sequenza della prima incornata.
Come ha scritto Jean Cau, i pericoli che minacciano l’intellettuale alle prese con i toros, sono:
1- Lirismo e letteratura (vale a dire il connubio di luce, colore, sangue, tragedia, morte)
2- Se è uno straniero a parlarne… il ridicolo
3- La tentazione di mentire
4 - La tentazione della “verità” (cioè la tentazione di vedere nella corrida soltanto un’immensa e maleodorante cucina).
Questi pericoli Rosi li ha più o meno aggirati tutti, perché anche se non ha saputo presentarci la corrida nella sua reale importanza sociale, siamo ben lontani dalle folcloristiche rappresentazioni Hemingwaiane e C° (già, perché il grande scrittore americano ci ha messo molto del suo per rendercela “mitica” – vedasi soprattutto “Fiesta” e “Morte nel pomeriggio”) ma avrebbe potuto andare molto peggio in altre mani (anche se c’è un brutto cedimento proprio nel finale).
La paura che taglia le gambe esiste, esiste sempre, ed è anche ben rappresentata a conclusione della parabolo dell’”eroe”, ma non poteva e non doveva essere seguita dalla morte reale del protagonista.
Arrivati alla disintegrazione quasi totale del personaggio, il rappresentare realmente ciò che era ormai intuibile, non costituisce altro che una ripetizione “tragicamente” inutile e dannosa, al servizio del melodramma (e qui si ritorna appunto a “Sangue e arena”), in questo voler fare della retorica ad ogni costo, cosa che non può non stupire in un regista come Rosi (anche se col senno di poi si potrebbe dire adesso… che si trattava già allora…. di un’altra “Cronaca di una morte annunciata).
Il momento della verità (1965)
di Francesco Rosi con Miguel Mateo "Miguelín", José Gomez Sevillano, Pedro Basauri "Pedrucho", Linda Christian
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