Barbara De Rossi ha alle spalle una carriera costellata di svariati successi cinematografici e televisivi. Attrice versatile e donna dotata di grande ironia (come si evince anche da molte delle risposte date), ha saputo nel corso degli anni tenere legato a sé l'affetto del pubblico grazie soprattutto a un carattere solare che l'ha portata a restare sempre con i piedi per terra. Esempio per molte generazioni di giovani attrici e volto facilmente riconoscibile, Barbara continua a dividersi tra gli studi televisivi di Raitre, dove il venerdì sera conduce con successo il programma di prima serata Amore criminale (dove si raccontano storie di violenza sulle donne), e i set cinematografici. Reduce dalle quattro puntate della miniserie Pupetta - Il coraggio e la passione (oltre il 22% di share e punte di 7 milioni di ascolto), Barbara ha rilasciato per noi di FilmTv.it un'intervista esclusiva che ripercorre, in maniera gradevole e spontanea, trent'anni della sua storia professionale, costellata di grandi incontri e curiosi aneddoti.
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Parlare di cinema e televisione con Barbara De Rossi, alla luce di una carriera più che trentennale, è abbastanza facile. Si può spaziare da Marcello Mastroianni a Claude Chabrol, passando per Klaus Kinski e Anthony Hopkins. Partendo dal presente, per poi ritornare indietro nel tempo, ti troviamo appena reduce dalla serie televisiva Pupetta – Il coraggio e la passione, ispirata alla vita di Pupetta Maresca. In Pupetta, tu interpreti il ruolo di Elvira, cognata della protagonista e personaggio di donna forte che nel finale arriva a vendicarsi in prima persona dello stupratore del fratello minore in una scena alquanto cruda e forte. Per certi versi, Elvira è l’esatto opposto di tutte quelle donne, vittime silenziose di violenza, che racconti invece in Amore criminale, il programma televisivo di Raitre di cui sei conduttrice.
In realtà, Elvira non è così lontana dalle storie che si raccontano nel programma di Raitre. Ti posso garantire che, al di là di ciò che la gente vede in Amore criminale, quello che mi è rimasto dentro e ferito tantissimo è la grandissima forma di impotenza e il grande desiderio di giustizia che certe storie ti suscitano. Personalmente, sono una donna che rispetta la legge ma, quando ti ritrovi a che fare con un sistema che non permette alle forze dell’ordine di intervenire in maniera repentina per via di una burocrazia piena di intoppi e limitazioni, spesso sono arrivata a comprendere le ragioni e i sentimenti che spingono una persona, che non si vede protetta o tutelata, a farsi giustizia con le proprie mani. Poi, da qui a farlo davvero, naturalmente ce ne vuole.
Come prodotto televisivo, per via dei contenuti veicolati, Pupetta ha ricevuto critiche da più fronti, di cui le più pesanti e sentite sono quelle delle associazioni dei parenti di vittime della camorra e delle associazioni contro la criminalità.
Io credo che l’intento della serie sia stato sempre quello di raccontare di un grande amore e della ribellione di una donna a certe regole e sistemi. È lecito da parte delle associazioni dei parenti delle vittime sentirsi toccati da certe cose perché magari si tende a pensare che ci siano una spettacolarizzazione e un’esaltazione di ruoli che in realtà non sono particolarmente edificanti. Comprendo che le associazioni si siano risentite, soprattutto nel rispetto delle vittime e di quello che hanno vissuto sulla loro pelle. Però, comprendo anche il desiderio da parte degli autori di raccontare storie dando un’anima a un personaggio che, seppur in un contesto simile, ha a che fare con l’amore. Mi ricorda un po’ quando io stessa interpretai in Io e il duce Claretta Petacci, considerata da tutti un personaggio negativo. Ai tempi, a chi mi chiedeva del perché di tale scelta, rispondevo che per me si trattava semplicemente di interpretare il personaggio di una donna che ha amato. Che poi abbia amato Mussolini o che si dica di lei che abbia approfittato della sua posizione è un altro discorso: io raccontavo l’amore. L’appunto dovrebbe semmai essere mosso nei confronti della televisione in generale e a prodotti come Il Capo dei Capi, per citarne uno.
Mettendo da parte il capitolo Pupetta, il 3 ottobre ti vedremo nuovamente al cinema in Universitari di Federico Moccia.
In Universitari interpreto la madre di una delle protagoniste, una mamma che vive un rapporto difficile con la figlia adolescente. Federico riesce a raccontare sempre tutti i problemi dell’adolescenza e della gioventù di oggi con uno sguardo molto attento.
Tra cinema e tv, com’è essere diretta da registi così differenti come Moccia o Chabrol? Cosa ti richiedono?
I registi che ho incontrato nella mia vita sono stati così talmente tanti e diversi tra loro che non saprei come risponderti. Una cosa particolare della mia carriera è che, per moltissimi anni, sia al cinema che in televisione mi sono stati richiesti molti ruoli drammatici: pare che avessi questa capacità di esprimere la sofferenza e il dolore che altre non avevano. Poi, per sei anni ho fatto solo cose comiche e niente più soggetti drammatici: il nostro è un Paese davvero strano. In generale, gli attori dovrebbero cimentarsi in più cose e alternare i generi. Io invece per trent’anni ho fatto quasi esclusivamente solo ruoli drammatici.
Qual è il ruolo che ricordi con maggiore piacere?
Sono davvero tanti. Se parliamo di cinema, l’incontro con Chabrol per Giorni felici a Clichy è senza dubbio il più importante. Così come quello con Carlo Lizzani per Mamma Ebe, dove interpretavo una fanatica di mamma Ebe e che mi diede anche la possibilità di vincere il premio Pasinetti al Festival di Venezia. Per quanto riguarda invece i registi con cui ho lavorato per la televisione, è quasi difficile scegliere. Una cosa che mi ha gratificato molto, però, è l’aver partecipato per diversi anni - grazie all’impegno della Rai - alle grandi co-produzioni internazionali, avendo modo di lavorare al fianco di attori americani che altrimenti sarebbe stato difficile incontrare: da Anthony Hopkins a Bob Hoskins, da Brad Davis a Susan Sarandon, tutti interpreti formidabili. Mentre oggi accade solo per le produzioni legate al progetto della Bibbia, in passato erano molto più comuni i progetti televisivi internazionali che coinvolgevano nomi di grande spicco.
Si trattava di un sistema produttivo differente. Al di là dei fondi a disposizione, vi era un modo di operare diverso. Oggi è tutto più legato ai tempi veloci di produzione e non ci sono grandi margini per progetti simili.
Si. Ricordo che noi avevamo a disposizione dei tempi di realizzazione abbastanza lunghi e assolutamente diversi da quelli di oggi. Adesso è tutto cambiato. Ho vissuto in prima persona tutte le fasi dei cambiamenti legati al mestiere di attore e al sistema produttivo. Allora per realizzare sei ore di sceneggiato, ci mettevamo anche otto/nove mesi, ora invece in poche settimane il prodotto deve essere finito e, a dispetto della velocità di realizzazione, ci viene richiesto di mantenere un certo grado di qualità, che non sempre si riesce a garantire proprio per via dei tempi corti.
Ripercorrendo la tua carriera, ti sembra che ti sia mancato qualcosa?
Mi piacerebbe tanto passare alla regia. È una cosa che mi interessa ed è un passo, non dico inevitabile, che mi piacerebbe fare. Ci sono tanti colleghi che sono passati dietro la macchina da presa prima di me e sono convinta che sia un’esigenza che col tempo chi fa questo lavoro matura. Il mio desiderio è quello di dirigere altri attori e non me stessa: come si suol dire, non voglio suonarmela e cantarmela da sola. Per quanto concerne il mio mestiere di attrice, invece, mi sarebbe piaciuto sperimentare tanto di più nella commedia cinematografica leggera. Nel campo drammatico ho dato trent’anni di interpretazioni che non mi manca quasi più nulla: forse solo la cieca di Sorrento mi rimane ancora da interpretare.
Anche perché in una delle poche commedie in cui hai recitato, Maniaci sentimentali, hai portato a casa una candidatura al David di Donatello. Un film più moderno oggi che ai tempi in cui è stato realizzato.
È un’esperienza che ricordo con grande piacere. Era una commedia con un grande cast e con molte sfumature drammatiche. Maniaci sentimentali nasceva poi dalla mente di Simona Izzo, una donna di un’intelligenza spropositata e un’autrice formidabile. Avrei voluto cimentarmi in altri ruoli così leggeri ma c’è sempre stata, almeno per quanto mi riguarda, quella sorta di sospetto che per molto tempo ha accompagnato gli attori di televisione. Prima che ci si rendesse conto quanto possa essere remunerativo non solo a livello di soldi ma anche di popolarità lavorare per la televisione, c’era una sorta di razzismo molto forte nei confronti di chi accettava di prender parte agli sceneggiati o alle fiction. Per molti anni, chi faceva l’attore per la televisione è stato quasi considerato un attore di serie b mentre oggi, fortunatamente, è molto diversa la situazione: non esiste più quell’aut aut che ti costringeva a fare solo cinema o solo televisione e son arrivati tutti a voler fare entrambe le cose, anche chi prima, per carità di Dio, “non sarebbe mai venuto a Canossa”.
Hai partecipato come ospite o concorrente anche a diversi programmi televisivi.
Come ospite, credo di essere una delle meno presenzialiste. Ci sono persone che quasi lo fanno per mestiere. Al di là del reality L’isola dei famosi, in cui sono stata chiamata come occhio esterno (non sono un’opinionista, non l’ho mai fatto e non lo farò mai) perché volevano per una volta avere un personaggio estraneo ai salotti televisivi e in cui ho taciuto tanto perché – essendo una persona con un carattere alquanto solare - non riesco ad essere maligna con le persone o ad esprimere giudizi su chi non conosco, ho partecipato come concorrente a Ballando con le stelle. Sono state poche le volte in cui ad esempio mi sono lamentata e, se l’ho fatto, è stato per ragioni umane.
Non è nella mia indole far i capricci da grande star e le volte in cui mi sono arrabbiata sono legate a qualcosa che può avermi ferito. Ho sempre condotto una vita professionale e privata molto riservata ma, tempo fa quando mi sono ritrovata ad avere un compagno più giovane (una cosa che può capitare nella vita), sono diventata mio malgrado oggetto di una leggerezza di giudizio che non riuscivo a sopportare. È quello che dicevo anche a proposito dell’Isola dei famosi: non si possono giudicare persone di cui non si conosce nulla sulla base a volte di filmati di pochissimi minuti. Quando lo hanno fatto con me, è una cosa che mi ha disturbato tanto: si fa presto a stare seduti in un salotto e giudicare la vita degli altri. Lo trovo profondamente scorretto e credo che si sia ormai oltrepassato in maniera esagerata il limite di intrusione nella vita altrui. Fanno bene coloro che non parlano mai dei fatti propri, anche se ho scoperto un altro aspetto paradossale: per quante poche parole si dicano, ci si ricama talmente intorno che alle fine quelle frasi di quattro parole diventano di diciotto. Io posso anche dire tre parole ma, se vengono aggiunte una frase prima e un’altra dopo, il tutto diventa un articolo o un’intervista che stravolge totalmente il significato di quanto ho dichiarato. Quindi, preferisco tacere. Taccio da un anno e mezzo e, comunque, ti assicuro che escono cose dette da Barbara De Rossi: è una cosa incredibile, ci scriverò un libro tra qualche anno sulla capacità che hanno i mezzi di comunicazione di arrotondare i discorsi delle persone e di far apparire dal nulla frasi mai pronunciate o fatti che non esistono.
Nell’ultimo anno e mezzo non hai parlato ma hai cantato. Ti abbiamo vista alle prese con le prove canore di Tale e quale show, programma di Raiuno dal notevole successo di pubblico.
Le due esperienze televisive come concorrente, sia Ballando con le stelle sia Tale e quale show, sono nate naturalmente dal mio rapporto con la Rai, che va avanti da una vita. Quando mi hanno chiesto di fare Ballando, in realtà, ho scelto di partecipare con uno spirito molto più coinvolto perché l’ho presa in maniera molto professionale: avevo l’occasione di lavorare con i più grandi campioni di danza del mondo e di imparare a ballare bene, anche in vista di un possibile ruolo in cui mi si possa chiedere di muovere due passi di danza fatti bene. Quindi, per me Ballando è stata un’esperienza che mi è servita - non a dimagrire, come hanno scritto malignamente un po’ tutti, dal momento che ero già dimagrita prima per problemi di salute – professionalmente per dare un senso nuovo al mio corpo, per rinnovarmi e per sentirmi meglio. A Tale e quale show mi ha chiesto Carlo Conti, un mio grande amico, di partecipare ma mi era stato detto che tutti sarebbero stati al mio livello, quando poi mi son ritrovata a dover “gareggiare” con quattro cantanti professionisti e con un gruppo in cui gli altri tre cantano da quando erano bambini. Io non ho la predisposizione all’imitazione: è una cosa che appartiene ai cabarettisti o a chi ha un approccio diverso da quello che ha un’attrice. All’attrice viene richiesta l’unicità, non vengono richieste le imitazioni: io sono incapace di imitare, cerco di essere me stessa e di interpretare i ruoli ma l’imitazione o la macchietta non mi appartengono. Ho fatto una fatica atroce e di tutti i personaggi che ho fatto due o tre li ho presi. Per il resto erano dei dignitosi tentativi, fatti anche nel rispetto di tutti coloro che erano impegnati nel programma. Mi sentivo in imbarazzo nello scimmiottare: scimmiottare è una di quelle cose che proprio non so fare, al di là del fatto che non sono poi dotata di tutta questa voce. Per me, l’impresa era quella di portare a termine le performance in maniera intonata in modo da poter tornare a casa e non sentire mia figlia di diciassette anni ridermi in faccia.
Hai iniziato a recitare giovanissima in Così come sei, diretta da Alberto Lattuada e al fianco di Marcello Mastroianni. Che ricordi ha di colui che è considerato a ragione uno dei più grandi attori del cinema italiano?
Io credo che Marcello sia stato in assoluto una delle persone, insieme ad Anthony Hopkins, più semplici, umili e tranquille che abbia mai incontrato sul set. Saggio e sempre con la parola giusta al momento giusto, Marcello mi ha mostrato quello che si deve vivere facendo questo mestiere: era già grande e nel pieno della sua carriera quando abbiamo lavorato insieme e con lui io ho avuto modo, al primo colpo, di capire cosa è il lavoro dell’attore e quello che non va vissuto. Il suo è un esempio che ho tenuto sempre a mente, crescendo con la sua immagine, il suo comportamento e il suo modo di affrontare questo lavoro. Era un uomo estremamente semplice e, come lui, anch’io ho cercato di rimanere ben attaccata a terra e vivere gli aspetti veri del mio lavoro, che al di là dei ruoli è fatto di rapporti interpersonali che si instaurano sul set con i compagni di scena e con la troupe durante la lavorazione di un film. Marcello viveva in maniera profonda l’aspetto umano con chi lo circondava e non solo con i colleghi: amava intrattenere rapporti anche con le persone più semplici e in maniera altrettanto semplice e sana, connotazione che manca ad alcuni giovani attori di oggi. Io non ho mai compreso ad esempio come la gente perda ogni contatto con la realtà circostante e cominci a viaggiare su binari di atteggiamenti di onnipotenza che sono davvero sgradevoli. Anthony Hopkins, ad esempio, stava seduto ore in attesa di girare la sua scena, perché convocato in orari sbagliati, senza mai lamentarsi. Giovani attori di oggi, invece, danno i numeri dopo pochi minuti.
E di Klaus Kinski incontrato sul set di Nosferatu a Venezia che ci racconti?
Avevo ventisei anni ed ero un’attrice già affermata, venivo dal successo televisivo de La Piovra, ma quella è stata una delle esperienze più sbagliate della mia vita, che se potessi ritornare indietro non rifarei mai più. Non avrei mai immaginato di trovarmi di fronte a una persona così difficile. Era molto particolare e fuori da ogni immaginazione, rendeva difficilissimo lavorare con lui ed era anche un individuo molto manesco. Durante le riprese ricordo anche un episodio particolarmente sgradevole, in cui mi mise le mani addosso in maniera molto provocante durante una scena che non doveva essere particolarmente sessuale. Lui voleva farla diventare molto sessuale ma si prese un gran cazzotto, venne anche picchiato da persone della troupe e vennero sospese le riprese per due giorni. Grandi qualità di attore e una faccia strepitosa quelle di Kinski ma umanamente era una persona molto complessa ed io in quella scena mi ritrovai in forte imbarazzo: mi mise le mani sul seno, mi strinse, mi fece male. Scappai via dopo avergli dato uno spintone e lui venne aggredito da chi era sul set. Non stavo certo lì a fargli mettere le mani dove voleva: capisco che uno poteva sentirsi attratto ma le mani dovevano rimanere al loro posto. Ero un’attrice e non una prostituta, aveva semplicemente fatto male i suoi conti vedendo una ragazza giovane davanti ai suoi occhi. Ricordo anche che nessuno voleva salire nel suo caravan o che le sarte non volevano vestirlo.
In I Paladini di Giacomo Battiato, hai invece recitato a fianco di Ronn Moss, il Ridge di Beautiful: quasi un destino comune il vostro.
Era il 1983, eravamo giovanissimi e lui era ancora uno sconosciuto: Beautiful sarebbe venuto solamente dopo. A noi venne presentato come un cantante rock/modello. Poi, l’ho rivisto a Ballando con le stelle: abbiamo partecipato alla stessa edizione e, incontrandoci con molto piacere dopo tanti anni e anni, ci veniva da ridere nel guardarci.
Guardando il tuo curriculum televisivo, viene quasi da dire che almeno due mattoni di Viale Mazzini e della Rai siano tuoi di diritto. Tante fiction da te interpretate sono state vendute con successo all’estero e ci sono certi prodotti - penso ad esempio a Pronto soccorso, antesignano del più celebre americano E.R. - che hanno aperto la strada a diversi filoni.
Beh, io ho anche inaugurato la fiction su Raidue nel 1990. Fino a quel momento, era prerogativa di Raiuno ma nel 1990 La storia spezzata diretta dai fratelli Frazzi andò in onda su Raidue, superando i 10 milioni di telespettatori. Da quel successo inaspettato partirono i progetti di fiction anche sul secondo canale, lanciando quel genere un po’ più melò. Sebbene La storia spezzata non fosse un melò, sulla sua scia sono nati prodotti (a serialità molto più lunga) come ad esempio Incantesimo.
C’è stato un periodo in cui ti si è visto poco in televisione. È stata una fase calante della carriera o semplicemente una scelta quella di non accettare nuovi ruoli?
Calante, direi no. C’è stato semmai un periodo in cui non ho lavorato per questioni di salute. Ho dovuto prendere il progesterone per sette anni e ho cambiato peso. Poi, ho dovuto smettere di assumerlo e sono tornata com’ero. È lì che tutti hanno gridato al miracolo di Ballando di cui ti parlavo prima, facendo viaggiare nel web e sui giornali decine e decine di "diete Barbara De Rossi" che io non ho mai dato a nessuno e che non esistono.
Altri ci avrebbero marciato su una vita intera.
No, io no. Io non ho mai venduto la mia vita privata, mia figlia o la fine del mio matrimonio. A parte l’esperienza di un anno e mezzo fa, quando venni tirata in mezzo a tutto quel calderone di cui ti accennavo, io sui giornali ci sono andata solo ed esclusivamente per i miei lavori. Non ho mai fatto parte del gossip e ritrovarmi improvvisamente su quelle pagine per argomenti non inerenti alla mia professione è stato più che uno shock.
Ritornando al cosiddetto cinema d’autore, tu giri quasi contemporaneamente in Francia L’orchestra rossa di Jacques Rouffio e Giorni felici a Clichy di Claude Chabrol.
Chabrol mi vide sul set di Rouffio. Mi trovavo a Parigi per girare L’orchestra rossa a fianco di Claude Brasseur ed ero l’unico elemento brillante di un film drammaticissimo. Un giorno Chabrol venne sul set e, vedendomi, sul set cominciò ad esclamare “C’est elle! C’est elle!”. Chiesi allora per cosa “fossi io” e mi rispose che aveva visto in me la persona giusta per interpretare la prostituta protagonista del film che si apprestava a girare, descrivendomi come “bella e solare” e più adatta rispetto a una donna torbida, che nell’immaginario cinematografico è più facile vedere come prostituta. Ricordo che risposi che non ero disposta a fare film particolarmente scollacciati poiché non ne avevo mai fatti e mai avrei voluto girarne, a parte La Cicala di Lattuada, considerato da alcuni come un film scollacciato per una scena di nudo di due ragazze che passeggiano nei pressi di una cascata. Tra l’altro, ecco, mi viene in mente che La Cicala venne sequestrato dal pretore Bartolomei dell’Aquila per qualcosa che oggi fa ridere solo a rivederlo.
Alla fine, però, accettai di lavorare con Chabrol fidandomi delle sue doti di grande autore e credo di essere stata una delle prostitute più caste d’Europa: ho visto film italiani con scene molto più forti e dove si vede di tutto. Quella di non girare scene spinte è una scelta dettata dall’imbarazzo generatomi dalla vicinanza fisica di una persona che non conosco. Con gli anni e divenendo un “nome”, ho avuto la possibilità di far cambiare certe sequenze o di chiedere al regista di renderle più soft: si giravano così bene le scene d’amore con quel famoso lenzuolo fino alle spalle e con sotto mutande di ghisa o di qualsiasi altro materiale.
C’è un progetto che ha rifiutato e del cui rifiuto ti sei poi pentita?
Si, Cento giorni a Palermo di Giuseppe Ferrara. A quel tempo fui consigliata male: avevo appena fatto La Piovra e il mio agente mi sconsigliò di non fare il film per paura che rimanessi imprigionata in un genere. Al posto mio lo fece Giuliana De Sio. Se potessi ritornare indietro, lo farei invece ad occhi chiusi. Così come Segreti segreti di Giuseppe Bertolucci con Lina Sastri, Mariangela Melato, Alida Valli e Stefania Sandrelli, perché non mi piaceva il ruolo che mi era stato proposto.
Cos’è che invece ti porta a scegliere un progetto piuttosto che un altro?
Senza dubbio, la sensazione che mi dà la sceneggiatura. Al primo impatto, devono emozionarmi la sceneggiatura e la regia. La regia è una grande garanzia, anche se mi è capitato di aver fatto film con registi giovani, un paio di opere prime, che mi generavano buone sensazioni. Questo lavoro in fondo è fatto da quello che ti trasmettono le persone e per me è il rapporto umano è imprescindibile. Quei due o tre progetti che non rifarei sono proprio quelli in cui sono venuti a mancare le condizioni umane che mi permettessero di recarmi a lavorare volentieri la mattina perché i partner erano poco socievoli o chiari o perché la regia non era sensibile. Ho iniziato a recitare quando sul set i monitor non c’erano e il rapporto tra faccia del regista e faccia dell’attore era fondamentale per capirsi: si vedeva il regista seduto e intento a guardarti, chiedendoti con il solo sguardo di portare a termine un qualcosa di comune. Oggi invece è stato creato un ruolo del tutto nuovo di una persona che media e che sta tra l’attore e il regista, facendo spesso venire meno l’intesa tra le due parti e spezzando il rapporto. Io sono nata parlando direttamente con il regista, con persone come Damiano Damiani che sapevano sempre ricavare da un attore ciò che volevano. Poi, ho anche avuto sceneggiatori grandiosi e uno dei miei più grandi amici è stato Ennio De Concini, premio Oscar per Divorzio all’italiana, che nel 1980 presentava tra l’altro le sceneggiature con il mio nome già scritto sopra. Una volta gli sceneggiatori erano sempre sul set, cosa che adesso accade raramente.
C’è poi da dire che il cinema o la televisione oggi in Italia non offrono molti ruoli per una donna cinquantenne. Quando arrivi a quaranta/quarantacinquenne anni e come attrice hai maggiore consapevolezza di questo mestiere, paradossalmente non ci sono altri ruoli da interpretare se non quello di zia, di mamma o di suora. Emma Thompson o Diane Keaton insegnano ad esempio che ci sono donne che riescono a vivere nel cinema meravigliose storie d’amore anche a sessant’anni mentre qui, da noi, sembra impossibile che accada. C’è l’abitudine radicata di vedere sempre giovane la donna che ama e, quindi, fino a trenta/trentacinque anni ti propongono storie passionali da interpretare. Dopo i quarant’anni, invece niente: non c’è più la passione? Per quale motivo esiste questa sorta di demarcazione netta? Nessuno è in grado di scrivere una bella storia che abbia per protagonista una donna sessantenne, piena di amore e con sprazzi di commedia. Aveva ragione tempo fa Angela Finocchiaro quando diceva che qui forse le storie da interpretare bisogna scriversele da sole. Una donna di cinquant’anni dei nostri tempi è una donna ancora in forma, che si tiene bene, che lavora e che spesso sta meglio di quella di trentacinque.
Cosa ti aspetti dal futuro?
Io mi aspetto semplicemente di andare avanti con dignità e di gratificarmi con cose che mi piacerà fare. Come ti ho già detto, vorrei esordire alla regia. Ho già fatto le “prove” con la regia di un paio di videoclip musicali e piano piano mi avvicino alla macchina da presa con grande attenzione e rispetto. Ho diretto il video del brano house The Sun Goes Up del dj Biagio D’Anelli [che vedete sotto], inventando una piccola storia all’interno di un pezzo che non mi dava grandi possibilità di testo.
Pupetta 2 all’orizzonte?
Non lo so, è da vedere. È ancora presto ma, avendo avuto l’ascolto che ha avuto e con il finale lasciato volutamente aperto, è possibile. Tornerò però nella seconda stagione di Le tre rose di Eva, altra serie di grande successo di Canale 5: essendo però io morta, riapparirò grazie a dei flashback in seguito all’infinito numero di mail ricevute dalla produzione che invocavano il ritorno del mio personaggio.
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