Peter Greenaway utilizza il suo cinema “geometrico” per dimostrare una tesi che sembrerebbe in netto contrasto con la sua poetica: l’assunto sostenuto in questo mediometraggio (44') è che non bastano un argomento ed una struttura a definire un film, nemmeno a livello puramente estetico. Il confronto tra quattro diverse ricostruzioni di un ipotetico video, realizzato dal suo alter ego Tulse Luper, ed andato poi perduto, mostrano come l’impianto architettonico del film costituisca solo i contorni di un disegno vuoto e muto, e dunque bisognoso di essere corredato di colori, ombreggiature, ritmi e suoni. Il modello non basta a definire il dipinto, perché tanta parte hanno, nella caratterizzazione dell’opera, la scelta del soggetto da ritrarre, il modo in cui lo sguardo del pittore cade su di esso, e le intenzioni che lo spingono a creare. La materia grezza è, di per sé, nuda, ed incapace di rappresentare alcunché: è la mano dell’artista a plasmarla nel modo più adatto ad articolare le frasi di un linguaggio visivo e musicale. Il discorso valido per un quadro o una melodia si applica anche al film: la scena posta davanti alla macchina da presa non fa, da sola, la sostanza dell'opera, che prende forma solamente allorquando, ad essere tradotto in immagini, è un adeguato processo interpretativo. Vertical Features è il titolo di un cortometraggio scaturito da una ricerca paesaggistica sulle forme verticali riscontrabili in una località della campagna inglese. Dalle bozze dell’autore, il fantomatico dottor Luper,
sembra emergere lo schema di una successione di inquadrature monotematiche, disposte sulla pellicola
secondo un'organizzazione matematica ispirata al numero 11.
Le diverse interpretazioni del progetto effettuate da un immaginario Institute for Restoration and Reclamation daranno vita a quattro diversi remake del film scomparso, in cui gli stessi ingredienti (121 oggetti alti e stretti, ripresi in sequenza ed accompagnati da suoni di sottofondo) daranno vita a quattro prodotti completamente differenti. Il passaggio dal primo, un rudimentale documentario dal montaggio meccanico e ripetitivo, all’ultimo, un poetico itinerario naturalistico pulsante di vita, può essere paragonato all’evoluzione del concetto di linea che, partendo dalla semplice asticella tracciata sulla carta, diventa prima il primitivo palo di una staccionata,
poi un traliccio, o il montante di una costruzione,
ed infine un albero frondoso. Il punto culminante dell’elaborazione artistica è, paradossalmente, proprio la spontaneità della natura, la cui complessità non può essere compiutamente riprodotta da una sintesi superficiale, e può, invece, essere colta, nella sua ricchezza, solo percorrendo fino in fondo la strada della libertà espressiva. Artificiale e forzato, in un’opera d’arte, non è dunque certo l’approfondimento intellettuale ed estetico (che Greenaway persegue con grande impegno), bensì, piuttosto, l’assoggettamento della creazione a criteri di carattere politico, economico, o di mero interesse personale, che, purtroppo, troppo spesso – come ci ricorda la tormentata vicenda raccontata in questo film - concretamente determinano, nel mondo, il destino di un’idea.
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