Saranno le nove di mattina, ma il paesino di Vita è già sveglio da molte ore; gli uomini con le mule ed i carretti hanno preso le trazzere che portano ai feudi ed agli invasi per una nuova giornata di duro lavoro. Le donne sono già affaccendate nei lavori di casa; ne vedi alcune allungare dei tappeti sulle ferriate dei balconi, altre che portano fuori i piccoli carrateddi in terracotta pronte come sono per andarli a riempire al cannolo di acqua limpida che disseta l’intera comunità. Qualcuna è sull’uscio a ricordarsi le cose da fare e qualcuna poi, distratta da un rumore di auto, si è appena girata verso la piazza principale e deciderà cosa fare dopo perché ora la curiosità è tanta e vuole sapere.
In effetti la macchina, un’auto a noleggio di una ditta palermitana, è davvero rumorosa. Fatto un largo giro si è fermata al centro della piazza Sicomo, proprio lì davanti all’antica chiesa madre. Chi ha guardato la scena, da quell’auto ha visto scendere tre uomini. Uno è rimasto a parlare con l’autista e due si sono lentamente incamminati per le vie del paese. Davvero non puoi non notarli; il primo è leggermente tarchiato con dei capelli rossicci folti ed ondulati, mentre l’altro ha una figura più imponente anche se quasi familiare, per i pochi capelli la sua ampia fronte risalta ancora di più così che l’incedere gli conferisce allo stesso tempo autorità e benevolenza. Non sono vitesi e questo è certo, ma molti li salutano con affetto quasi. Come si salutano persone a cui ci si è abituati a dare fiducia ed accoglienza. Ma quello che sicuramente molte donne notano subito, ancora prima del discreto sorriso che orna il volto dell’uomo più alto, è l’incarto di cellophane gracchiante che stringe con una mano. Ha un grosso fiocco rosa in cima e dentro si gode placidamente tutte le attenzioni riservatele una splendida bambola che riproduce la Rita Hayworth di “Gilda”, l’opera-scandalo del 1945. E quella è una scena, che dura qualche minuto ancora e non di più, che nessun libro di cinema vi racconterà mai ma che è degna invece di essere ricordata a lungo. Perché è tutto un gioco ad incastro del destino. Perché quell’uomo che tiene salda in mano l’effige della divina starlet hollywoodiana diverrà ben presto anche lui un pezzo di storia del cinema mondiale. Quell’uomo è Francesco Rosi, regista emergente del panorama italiano che ha già diretto Sordi e la Schiaffino, ma che soprattutto conosce bene la Sicilia per aver lavorato con Luchino Visconti ai tempi di “La terra trema”. Perché l’altro che lo precede a piccoli passi è Enzo Provenzale, uno scrittore-drammaturgo di lontane origini siciliane che sta facendo carriera in quel di Roma, e che si è già preso una bella soddisfazione girando con discreta fortuna “Vento del Sud”, con un Renato Salvatori in grande spolvero ed una giovanissima Claudia Cardinale. Ecco, questo pezzo di storia della settima arte è lì che attraversa le strade del piccolo e povero centro di Vita. Perché è l’estate inoltrata del 1960. Perché da parecchie settimane sono iniziate le riprese di “Salvatore Giuliano” ed il regista, prima di spostarsi da Palermo a Castelvetrano per inquadrare le scene finali del suo film, vuole, deve rendere omaggio ad un pensiero che gli occupa da giorni la mente.
“Cosa mai c’entra il capolavoro di Rosi con Vita?”, vi chiederete un po’ dubbiosi di ciò che sto ricomponendo davanti ai vostri occhi e quasi certi, anzi, che vi stia prendendo un po’ in giro. Credo allora che sia giusto aggiungere subito un’altra cosa che nessun libro di storia del cinema vi svelerà. Alcune scene del “Salvatore Giuliano” sono state girate nel paesino vitese con la partecipazione della popolazione, e con la troupe accolta praticamente nelle case. Andate a rovistare nella vostra memoria o, più comodamente, rimettete sui vostri schermi quel magnifico bianco e nero di Gianni Di Venanzo. Ecco, guardate quel muro imbardato dai manifesti a firma del bandito di Montelepre (“A morte i sbirri succhiatori del popolo siciliano e perché sono i principali radici fascisti, viva il separatismo della libertà!”, citazione di un vero appello fatto da Giuliano nel ’46), con la macchina da presa che si muove ed inquadra un Gaspare Pisciotta/Frank Wolff che sale la strada mentre un uomo lo incrocia correndo verso dei vicoli. Poi la scena successiva, che dovrebbe togliervi qualsiasi esitazione. È una panoramica girata all’ingresso orientale di Vita; si notano le due file di abitazioni e sullo sfondo l’inconfondibile sagoma della Chiesa di Tagliavia. È l’arrivo, girato con un stile che ricorda molto i western di John Sturges (in “Sfida all’O.K. Corral” c’è una inquadratura che è praticamente uguale ma con l’obiettivo disposto frontalmente!), della banda Giuliano che sta organizzando l’ennesima strage, una nuova prova di forza contro lo Stato. Infatti si vedono i banditi svolgere il sopraluogo alla locale caserma dei carabinieri e decidere come disporsi per l’agguato serale. Leggenda vuole che la bellissima disposizione plastica degli attori nella sequenza dell’agguato, disposizione che sa di tragedia greca stavolta e non di kolossal americano, sia stata suggerita quasi per caso a Rosi dal suo aiuto regista Nando Cicero, uno nato appresso al meglio del cinema politico degli anni ’60 e poi finito a girare gli ‘scult’ di Alvaro Vitali! Comunque sia andata davvero la cosa, l’inquadratura è eccezionale; un fotogramma classico che si stampa per sempre nella mente di ogni cinefilo. Finisce il marranzano (si ricorderà del magico incontro immagine-strumento, Sergio Leone in alcuni suoi film), qualcuno fischia dando il segnale. I lampioni vengono spenti ed inizia la mattanza. Se osservate bene quel luogo altro non è che lo slargo dell’attuale via Mameli, a Vita appunto, con la scalinata che scende da sud e che adesso magari troverete invasa da macerie ed erbacce. Un’intera sequenza di due minuti e passa di scene girate nel paesino e, se volete proprio andar per immagini e ricordi, altri scorci ne troverete sparsi per tutto il resto del film.
Ora che vi ho dato le prove inconfutabili che quel capolavoro del cinema realista (di “realismo epico” parlò a suo tempo Alberto Moravia) ha seri legami con Vita, lasciate che vi riporti tra quell’organza di vie e vicoli che sapete, alle calcagna delle due figure che avanzano come cercando qualcosa o qualcuno. Infatti fermano dei passanti e chiedono. Chiedono di una bimba bionda, dagli occhi chiari, minuta e vispa che qualche sera prima ha deliziato tutti con la sua voce e la sua innocenza. La bambola, fanno capire, è un regalo per la piccola.
Era accaduto che nella serata della domenica precedente, l’organizzazione del film aveva voluto ringraziare la cittadinanza vitese per la collaborazione e l’accoglienza ricevute, montando un piccolo palco e facendo un po’ di baldoria. La città, approfittando dell’occasione, era tutta scesa per le strade e ad un certo punto, Rosi in persona salito sulle tavole dell’improvvisata scena, aveva invitato alcuni paesani a dare prova delle loro capacità e del loro senso artistico. La sfida era stata raccolta da qualcuno tra le risate ed i divertiti commenti dei presenti; successe così alla fine che l’attenzione del regista si fermò su una dolce bambina di non più di quattro o cinque anni che se ne stava in assorta contemplazione di quanto accadeva davanti a lei. Colpito dai suoi occhi e dalla dolcezza del volto, il regista la volle far salire sulla ribalta e le chiese se sapesse cantare. Maria, questo il nome della piccola, non aspettava altro e diede fondo alla sua incredibile espressività. Cantò l’hit del momento, la famosa “Marina” di Rocco Granata infiammando il pubblico e non si fermò di certo solo a questo. Lasciò senza parole Rosi ed il resto della troupe con la recitazione, in perfetta dizione francese, di alcune poesie popolari transalpine. Commuovendo quasi.
Ecco ciò che turbava da giorni il regista napoletano; quella bambina, d’incarnato chiaro e nel suo vestitino candido, apparsa quasi come una visione in quel mondo rurale legato ai colori bruni e tetri della terra e del cielo, era riuscita a toccare le corde più intime dell’animo umano riuscendo a far sorridere e ammutolire il mondo degli adulti. “Cerchiamo quella bambina. Sapete di chi è figlia Maria?”, va chiedendo Rosi alle donne che adesso lo attorniano. Incredibilmente la piccola è figlia di tutti. Magari perché la “Gilda” che scruta la scena dentro il suo scafandro di cellophane, è preda ambita da ogni madre lì accorsa. “È la figghia di lu firraro Gruppuso, e abita dda!”, alla fine la più onesta maritata del capannello, forse perché ancora non baciata dal mistero della procreazione, si decide a sciogliere il nodo. E così Rosi, Provenzale e la starlet hollywoodiana di plastica dura, percorsa tutta via Selinunte, sono davanti ad una porta. E bussano, bussano più volte. Ha aperto loro Donna Concetta, che non può nascondere la sorpresa di vedersi parare davanti quei due stranieri, che uno lo conosce già di vista, perché è il signore che ha voluto Maria l’altra sera sul palco ed ha voluto che cantasse e l’ha ricoperta di complimenti, le ha dato un bacio come lo si dà ad una nipote amatissima. O ad una figlia.
“Signora”, prende subito la parola il regista, “volevamo dare questo piccolo pensiero a Maria. Per l’altra sera, perché è stata bravissima e se lo merita davvero!”. “Ma Maria non c’è”, fa la donna gettando uno sguardo ora sulla bambola ora a scrutare gli occhi dei due rimasti immobili sull’uscio della porta. “Comunque se la volete lasciare a me, come torna posso dargliela io”, mentre dietro qualche vicina di casa si avvicina curiosa e Donna Concetta, rinfrancata di non essere più sola a tenere testa ai due, sa che può permettersi di fare due passi fuori e mostrare tutta la cordialità che richiede l’occasione. Francesco Rosi apre uno dei suoi famosi sorrisi pieni di una luce aspra e allo stesso tempo umanissima, e si permette di rilanciare il discorso: “Signora, ecco, la bambola è una cosa e veramente c’era dell’altro di cui vi volevo parlare. Magari sarebbe il caso di chiamare suo marito e di discuterne in casa”. A questo punto la donna è costretta a rifare indietro uno dei passi, cerca con lo sguardo la sua vicina di casa e avendola trovata lì, pronta a pugnare con lei, fissa con attenzione l’uomo del cinema. “Anche mio marito non c’è. Il regalo lo può lasciare se vuole, ma per parlare con lui deve andarlo a trovare al lavoro o torna qui stasera. Come le viene più comodo”. “No, sto andando. Quello che volevo dirvi era se pensavate di volermi affidare vostra figlia. Senza offesa, so che è difficile a dirsi. È una bambina davvero unica, meravigliosa e volevo portarla con me a Roma. Insomma, farla vivere in un altro posto, prendermi cura di lei. Non so se mi capisce?”. Da lontano c’è chi la guarda con attenzione quella strana scena, e vede Donna Concetta con la vicina che adesso le si muove di fianco decisa, che prende la bambola e piega un po’ il capo; ha l’espressione di chi non vuole mancare di rispetto ma ha già capito che il discorso non le quadra, e spinge con franco imbarazzo le parole verso la conclusione.
I due già hanno girato l’angolo quando Donna Concetta, con la vicina che ha preso in mano il cellophane e adesso osserva da vicino la starlet hollywoodiana in plastica dura, può commentare quell’incontro che non potrà mai più avere un seguito. Gente strana quella che era venuta lì, in quei giorni. Gente coi soldi, cordiale ed educata. Quell’uomo alto e gentile era andato dal calzolaio del paese, per un problema al mocassino. L’artigiano gli lo aveva risolto in un attimo, ecco con due soli colpi di martello ed un po’ di cuoio scuro. L’uomo del cinema voleva sapere quanto veniva, ma non si chiedono soldi ad uno così importante che è venuto a portare tanta novità in un paesino, dove i soli colori che si godono gli occhi sono quelli caldi e tetri del cielo e della terra. E così nonostante il rispetto non abbia mai avuto un prezzo, prima di uscire, l’uomo che dirigeva gli attori e le macchine strane giunte da Palermo aveva posato tra i chiodi e la colla sul tavolino, un pugno di banconote. Sì, gente davvero perbene ma non si va in giro a chiedere i figli degli altri. E proprio Maria poi. A Roma? A fare che? Perché Vita forse non le sarebbe bastata? Gente brava la gente del cinema, ripetono ancora le due donne mentre si risente un rumore lontano di auto che rimbomba sui muri del baglio; brava ma un po’ strana per davvero.
La piccola rimase tra gli affetti familiari di sempre, crescendo sotto lo sguardo amorevole di Donna Concetta, nella sua casa a Vita. Il paesino, di lì a poco, avrebbe vissuto il trauma del terremoto e lo spopolamento dei quartieri, imboccando così il lento, inesorabile declino che continua ancora oggi. In pochi anni avrebbe perso molti degli scorci urbani immortalati dal film.
Franco Cristaldi distribuì nelle sale il suo “Salvatore Giuliano” nel novembre del 1961. All’inizio le stroncature si susseguirono in maniera sconfortante, ed il film venne anche scartato dal Festival di Venezia con giudizi poco lusinghieri. Si parlò addirittura di rimettere mano alla pellicola per sforbiciarla ed aggiungere note di colore locale, al fine di alleggerirne il tono. Rosi e gli altri tennero duro. L’opera andò a Berlino e vinse l’Orso d’Argento. Fu l’inizio del suo travolgente successo; alla fine della stagione incassò quasi 750 milioni di lire e venne votata dalla stampa straniera come miglior opera cinematografica italiana dell’anno. Ancora oggi, a più di mezzo secolo di distanza, è considerata da gente come Scorsese e Coppola tra i massimi capolavori del cinema mondiale.
Su come ha visto la questione puramente filologica dell’opera invece Paolo Benvenuti, da molti a torto considerato un ‘seguace’ del pensiero rosiano tout court, sono molto utili questi due link:
e
Ma questa è un’altra storia, che richiede almeno un nuovo post…
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