Roma (1972)
Fellini visse gli anni dell'infanzia e della giovinezza a Rimini, durante il regime fascista. Roma gli apparve allora attraverso la retorica imperiale e «cattolica»: la «cultura» classica e «l'immarcescibile entusiasmo» artificiosamente riacceso dal fascismo e divulgato attraverso film storici, rappresentazioni teatrali d'argomento romano e cinegiornali d'attualità, si univano alle antiche glorie ed alle recenti devozioni formali della «cristianità», rappresentata dallo splendore delle basiliche e dalle benedizioni papali. A questi entusiasmi di gloria e di fede si affiancava anche l'ammirazione mondana del mondo provinciale per la dolce vita romana, di cui giungevano squallide ma affascinanti (per la gioventù di allora) echi e testimonianze.
Con questo spirito di giovanile e provinciale entusiasmo per una Roma retorica ed inesistente o comunque «morta», Fellini partì da Rimini verso la fine degli anni '30 e giunse a Roma scoprendovi una città ben diversa, antieroica, popolare, viva, in cui la retorica fascista si riduceva ad un monotono contrappunto inautentico, mistificato ma inascoltato oppure solo temuto, di messaggi radiofonici e manifesti e più tardi anche di sirene d'allarme, di minacce, di retorica imperialista: desolanti ma a volte allucinanti e paurose immagini di quell'altra Roma, morta e mortificante, che già gli era stata propinata in provincia da una «cultura» sterile e falsa. Al contatto con la Roma viva, Fellini apprese il senso della vita autentica, scoprì se stesso e la sua vocazione d'arte (che era, come ormai sappiamo, quella di cogliere ed esaltare la vita) e divenne regista.
Nel 1971 Fellini, appunto come regista, si appresta a girare un film su Roma: una specie di documentario di attualità sulla Roma di oggi, congestionata da un traffico automobilistico troppo intenso e paralizzata, nei suoi sforzi di risolvere il problema del traffico con la costruzione di una rete sotterranea metropolitana. dalla continua presenza di antiche rovine che impediscono gli scavi. Ma la Roma di oggi è anche la Roma dei turisti di ogni razza e d'altra parte del fascismo minacciosamente riaffiorante, la Roma degli hippies e quella degli «altri» giovani: perché la vita e la morte sono categorie eterne e l'autenticità della vita deve costantemente difendersi dalle tentazioni dell'alienazione; l'ordine sclerotico, la compostezza della morte, proiettano oggi come ieri la loro ombra spettrale sull'armonioso e festoso disordine della vita e ne minacciano l'esistenza.
Nel 1972, infine, esce il film Roma, di Federico Fellini, che racconta quanto abbiamo detto finora: film che non si presenta dunque affatto - almeno in prima istanza - come documentario su Roma, ma semmai come documentario su Fellini, e sui suoi rapporti con Roma, e sul fatto che nel 1971 egli si apprestasse a girare un documentario su Roma (non importa, poi, se ancora una volta si tratta di «menzogne», di finzioni filmiche). Fellini ritorna così, attraverso una complessità strutturale analoga (ma decisamente diversa), alla stessa impostazione dichiaratamente autobiografica che era stata di 8½, per ottenerne, come già in quel film, un recupero della totalità che lo circonda in un impegno di costante ed amorosa apertura; solo che ora, dopo le conquiste di 8½, si è aggiunto l'impegno maturato in Satyricon, in cui, come ho rilevato a suo tempo, l'autore ritrova, proprio attraverso l'evasione onirica, un preciso aggancio alla sua realtà storica; sicché per la prima volta ci dà un film anche esplicitamente e rigorosamente impegnato in senso politico, pur, ovviamente, sotto la forma spensierata e distaccato che gli è propria e che egli non può abbandonare senza tradire se stesso e la sua arte.
Ritroviamo così nel film una struttura (ed una forma «narrativa», in un certo senso) di film filmato, che sottende, mascherando a volte, più spesso esaltando, una precisa tematica antifascista e più generalmente anticonservatrice (in cui si ritrova la precisa connessione che c'è fra la destra politica ed il conservatorismo della gerarchia ecclesiastica), cui si aggiungono brevi ma frequenti cenni polemici ad altri elementi ad esso legati: metodi e programmi scolastici, burocrazia, edilizia, sicurezza del lavoro, questioni sociali e culturali, sono appena accennati, ma con una frequenza che non può essere casuale, in un film cosÌ dichiaratamente «impegnato». Infine, naturalmente, al di sotto della struttura e della tematica che questa sorregge, c'è tutto il mondo di Fellini, che a questa ed a quella fornisce un'ultima necessità artistica, e che illumina e giustifica ogni immagine del film. Occorre perciò ritrovare nel film ed analizzare nei dettagli questi tre elementi fra loro intrecciati: struttura, tematica particolare e atteggiamento di fondo di Fellini; ma per farlo con ordine è utile premettere una breve esposizione del film, almeno nei suoi quadri principali.
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A Rimini, un «pietrone» che ricorda la distanza dalla capitale («km 340») ne introduce molte brevi immagini: il Rubicone, la statua di Cesare (paragonato a Mussolini) e poi la rappresentazione sulle scene della morte di lui, le oche del Campidoglio, diapositive di monumenti dell'impero e della chiesa, alternate ad illecite fantasie erotiche, anch'esse associate alla grandezza di Roma (come, poco dopo, le immagini di Messalina o le conversazioni al bar sulle donne romane), la benedizione papale, il film storico ed il cinegiornale d'attualità fascista, le conversazioni al bar, la stazione con il treno per Roma.
A Roma, l'arrivo di Fellini (il tipico cappellaccio del regista, messo in testa al giovane timido, serve a rendere ironicamente esplicito il riferimento) propone un primo sguardo alla retorica ma soprattutto alla vita della città, la pensioncina in cui il giovane va ad abitare, una lunga scena al ristorante, tipica espressione della vita romana.
Oggi, Fellini parte dal raccordo autostradale per filmare una scena del traffico cittadino.
Brevi immagini del regista intervistato e criticato in anticipo per il suo film, con accuse errate, che egli finge ironicamente di accettare - e che verranno condivise dalla stampa -, gli danno occasione per un ritorno, apparentemente estroso e sconclusionato, agli anni '40: una scena di avanspettacolo al teatrino della Barrafonda, che in realtà ripropone drammaticamente il tema dell'antifascismo.
Senza commenti e senza apparenti connessioni è il ritorno alla realtà odierna (o del futuro), con una parvenza documentaria sugli scavi metropolitani, che a loro volta ci riportano alla Roma antica (esplicitamente fittizia e ricostruita) i cui resti, perfettamente conservati nel segreto del sottosuolo, si dissolvono al contatto dell'aria di oggi subito dopo la fortuita scoperta.
Ma oggi la vita (viva oggi: anche se simile a quell'altra, vissuta duemila anni fa) non è fra cimeli antichi o fra macchine del futuro, bensì fra i giovani hippies di Piazza di Spagna: essi hanno superato anche le alienazioni e le ipocrisie della società che rendevano squallida la vita dei giovani di ieri: per esempio il problema sessuale.
Immagini, anch'esse apparentemente documentarie, di tre differenti case di tolleranza del 1940 sottolineano la squallida ipocrisia del moralismo che ancor oggi condanna la libertà sessuale dei giovani auspicando un ritorno ai costumi di allora (non a caso la stampa benpensante si affretta a precisare che non tutte le case chiuse erano così squallide, e che Fellini ne ha perso il meglio ... ).
Segue, sempre sull'onda del tradizionalismo aristocratico-clericale, un'assurda (spassosa) sfilata di moda ecclesiastica, frutto della fantasia malata di un'anziana aristocratica che dà forma morbosa ad un sogno nostalgico - oggi di nuovo non raro - di apoteosi del cesaropapismo.
Il film riprende ancora l'attività documentaria di Fellini, proponendo un fitto intreccio di esuberanza vitale e di allucinanti minacce di violenza o di «ordine» mortificante, fino alla rombante ed allarmante conclusione, sul carosello motociclistico degli «altri» giovani.
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La struttura del film fonde insieme quei due aspetti che 8½ aveva introdotto e tenuto distinti: da una parte un'impostazione da «romanzo-saggio», da film filmato che consente la divertita introduzione, nel film, di immagini o moduli narrativi o sequenze apparentemente sconnesse e sconclusionate; dall'altra parte un'impostazione narrativa prevalentemente autobiografica, ma non priva di qualche contenuto oggettivo che tende a sovrapporsi al dato autobiografico ed a riassorbirlo, anche attraverso una falsa attribuzione all'autore di aspetti, fatti, atteggiamenti dichiaratamente inventati. Roma riduce enormemente, rispetto a 8½, i riferimenti «filosofici», così come attenua le «intellettuali» distinzioni di livelli filmici che sostenevano la struttura di quel film; ma lo fa non per un abbandono di quella problematica bensì per un ulteriore progresso che la richiama esplicitamente come punto di partenza senza peraltro metterla a tema ed esporla in modo a volte quasi didascalico, come accadeva in 8½, e che si concentra invece, come già abbiamo accennato, in un preciso impegno «politico»; anche se poi sia l'impegno «politico» di Roma, sia quello «filosofico» di 8½ (allusivamente richiamato come punto di partenza anche per Roma) sono sempre presentati come aspetti di una più profonda verità artistica, che è la costante «concezione del mondo» che sottende tutti i film felliniani.
In 8½ il film filmato si presentava a vari livelli, ma sempre solo come film in fieri, in una cornice ancora inconsistente, in cui solo alla fine, come conclusione delle varie vicende narrate in ognuno dei livelli filmici, si giungeva al recupero dell'intero film e quindi alla presentazione di esso con l'esposizione dei «titoli di testa»; Roma si presenta invece già come film fatto e solo in seguito si propone ambiguamente anche nel suo farsi: ambiguamente, ma in sostanza sempre come già recuperato in un film fatto e consapevolmente accettato, fin dall'inizio, secondo i criteri scoperti, nell'esposizione filmica, solo nella conclusione di 8½ (anche se è evidente che nella realtà Fellini li aveva ben chiari fin dall'inizio della realizzazione del film, sebbene non ancora all'inizio della sua progettazione): infatti da un lato il film, presentandosi come fatto da un regista autobiografico ed estroso ed inconcludente e soprattutto sfrenato, si può consentire continue intemperanze, dilatazioni, variazioni e ridondanze di ogni episodio e di ogni immagine. in una successione a sua volta priva di ogni apparente nesso se non quelli imposti da una fantasia incontrollata e disimpegnata; d'altro lato invece il film si presenta spesso in fieri, e suggerisce molte scene a livello di semplici proposte, a volte casuali, che il regista non si impegna ad accettare e rifiuta anzi di sottoscrivere: ma anche questo ironico prender le distanze da parte del regista viene in vario modo superato e ricondotto alla realtà del film fatto, come già l'apparente sfrenatezza e disimpegno venivano superati e proposti essi stessi come finzioni filmiche, che mascherano un preciso rigore stilistico e soprattutto, per la prima volta proprio ora che esplicitamente Fellini sembra riconoscersi i propri limiti in una sostanziale estraneità ai problemi politici e sociali del momento, una costante ed attualissima polemica politica e molte. esplicite anche se appena accennate, prese di posizione anche in campo sociale, Il tutto, ripeto, riassorbito in consapevole unità fin dall'inizio. come si conviene a chi ha già percorso con sicurezza quel processo di chiarificazione rappresentato da 8½.
La presenza del film filmato si limita alle scene della vita romana di oggi, e si riduce ad una dimensione autobiografica per il fatto che l'intero film, nonostante il titolo e la stessa presentazione che ne è stata. fatta, non è un documentario sulla città, bensì sul regista e sui suoi rapporti con la città: così alle immagini di Fellini bambino e ragazzo a Rimini o giovane giornalista nella Roma degli anni della guerra, si alterano quelle di Fellini regista nella Roma di oggi; perché non Roma in sé interessa, almeno in un primo momento, bensì l'autore, E come la Roma degli anni venti è solo fatta di retorica, deformata nelle immagini false che venivano propinate al giovane provinciale, e come proprio durante la guerra ritroviamo una Roma viva perché finalmente Fellini vi si reca e la scopre nella sua pulsante vitalità, così ancora oggi ritroviamo non una Roma «oggettiva» bensì quella vista dal regista che la «gira» (valga il termine come espressione della voluta ambivalenza del film: la «percorre», e la «filma»). Protagonista primo è dunque Fellini ed il suo modo di vedere Roma; ma è ovvio comunque, in un documentario, che l'oggetto è sempre visto dagli occhi del regista: se Fellini ci fa vedere Roma, è chiaro comunque che la Roma che ci presenta è quella vista da lui. Il suo sottolineare, nel film, l'aspetto soggettivo della visione fa parte di una precisa volontà ironica, almeno in parte menzognera: Fellini ha chiaro il senso della vita, e - contrariamente alle prove del neorealismo, che proponevano un'interpretazione soggettiva della realtà sotto un'apparenza rigorosamente documentaria - finisce per cogliere il senso profondo della realtà proprio attraverso sfrenate deformazioni. Era questo già il senso finale del recupero del film che concludeva 8½, che così si presentava non più come film - di fatto inesistente - ma come vita. In Roma Fellini completa la parabola del capovolgimento del neorealismo: il film viene presentato come tale, e addirittura come film sul film, ma contemporaneamente anche come documentario diretto su Roma: il fatto che la città sia vista attraverso lo sguardo e l'obbiettivo del regista non pregiudica l'obiettività della rappresentazione, ed anzi l'inserimento del regista stesso e della sua attività nella vita della città ripropone con più convinzione la fedeltà del film alla vita della città: nulla è costruito, nella Roma di oggi. perché noi stessi vediamo il regista aggirarvisi con naturalezza, osservare, filmare. addirittura spesso guardare con incertezza, senza aver ancora deciso se registrare ed inserire nel suo film ciò che noi vediamo. In tal modo la stessa struttura di film filmato ripropone, anziché una finzione filmica, una più precisa fedeltà alla realtà romana. Si ritrova così ormai a livello di risultati, e quindi di concretezza, quell'affermazione della positività della vita, e dell'arte in quanto fedele registrazione di essa, che in 8½ aveva ancora costituito il fondamento narrativo e tematico del film: mentre di solito il film filmato propone l'inconsistenza dell'opera d'arte, che spesso si fa tragica espressione dell'inconsistenza della vita stessa e dell'autoaffermazione del nulla, qui esso non annulla il film, ma solo la distinzione di esso dalla vita: lo fa coincidere con questa, in una festosità universale colta sia nella vita stessa che si svolge davanti all'obiettivo, sia nell'attività del regista, sia nella prorompente esuberanza con cui lo stesso film fatto si sdipana agli occhi dello spettatore.
In tal modo la struttura del film riconduce, come 8½, alla concezione del mondo che lo sottende; e nello stesso tempo giustifica. come vedremo, l'impegno tematico particolare che lo permea dall'inizio alla fine costituendone il principale filo conduttore che ne lega l'apparente disordine, Infatti l'armoniosa confusione della vita dà il senso al film, riproponendo un'uguaglianza fra i vari termini che in esso sembrano prevalere di volta in volta: non ha più importanza distinguere se il film è su Roma, o su Fellini, o sui rapporti fra i due, o sulla vita in generale, come non ha senso precisare se è un vero documentario, oppure un film su un documentario progettato da Fellini, oppure un film totalmente inventato (si veda l'evidenza della «finzione» durante il ritrovamento della villa romana) o addirittura un film su Fellini che inventa (si veda l'intervista a Fellini): perché Roma è la vita, e Fellini ama la vita e la filma, come ama Roma e la filma, e Fellini stesso vive, e filmando se stesso filma la vita e filma Roma in cui egli vive, e la sua scoperta di Roma è anche la sua scoperta della vita; ed ancora, a livello più esteriore, perché la presenza di troupe cinematografiche fa parte della verità documentaria di Roma come la «falsità» di Fellini, le sue menzogne, fanno parte della sua verità documentaria ed anche, in generale, della vita.
Tutte queste considerazioni sono a monte del film, che perciò non sottolinea le differenze di livelli filmici per poi concludere con la loro sostanziale identificazione, come avveniva in 8½; qui l'identificazione avviene già dall'inizio, e non è più messa a tema, bensì data per scontata, sicché molti elementi, sia di distinzione sia di identificazione dei vari livelli, sono appena accennati: la prima apparizione di Fellini, al raccordo autostradale, è molto breve e lascia ancora tra parentesi il fatto che in realtà noi assistiamo al film in fieri: questo si presenta così come «fatto», come vero documentario su Roma, e la presenza della troupe cinematografica rientra nei fatti usuali della vita romana di oggi; saranno poi le gocce di pioggia cadute «casualmente» sull'obbiettivo e messe a fuoco ad indicare con precisione l'attività filmica del regista: ma esse dicono d'altra parte una osservazione oggettiva del mondo esterno (poiché ad esso appartiene la pioggia) in tutta la sua bellezza prorompente anche dalle cose più modeste (come le gocce di pioggia sull'obbiettivo, così anche il fango schizzato dalle automobili) o di quelle apparentemente tragiche o «brutte» (le prostitute e l'invertito ai bordi della strada, l'incidente stradale ed i vitelli insanguinati); infine la presenza delle gocce riconduce ancora all'atteggiamento del regista, che sa «trasformare» tutto in belle immagini, non per facile e irreale ottimismo (tutto ciò che vien filmato, in questa sequenza, è pur sempre «reale», non costruito), ossia non perché opera delle «trasformazioni» effettive, bensì perché ha occhio d'artista, che sa riconoscere il bello dove c'è, ossia ovunque (sia pure, almeno sotto certi aspetti, con qualche fondamentale riserva che vedremo). Tutta la parte riguardante Roma moderna continua su questo tono ambiguo, oscillante fra i vari livelli filmici e perciò rinviante sempre anche al film in fieri o al film filmato; eppure proprio questa è la più schiettamente documentaria, nel senso che non è costruita: il traffico stradale, i lavori metropolitani, la carica della polizia contro gli hippies sono sicuramente autentici: eppure proprio in essi molte inquadrature sono proposte come possibili, o viste dichiaratamente dall'obbiettivo, ed è inquadrata la troupe, o infine, durante la carica della polizia, il montaggio alternato con una «intervista» costruita in seguito dà un certo sapore artificioso alla lunga scena: sapore che può avere anche una sua funzione espressiva, di cui parleremo, ma che comunque assume un preciso significato nella struttura del film, nel senso che si è detto. Allo stesso modo la scoperta della casa romana, inserita nella lunga sequenza della metropolitana - la più documentaria, figurativamente -, si presenta vo1utamente come costruita (la «scoperta» anticipata da una carrellata all'interno della villa, e poi il foro stesso filmato dall'interno, mentre la fresa abbatte l'ultimo diaframma); ma subito dopo si abbandona ogni presenza cinematografica, e si seguono in atmosfera sospesa tutte le fasi della scoperta, come se essa fosse autentica: gli stessi «collaboratori» di Fellini vi partecipano con emozione ... Viceversa durante la lunga discesa nel tunnel della metropolitana, che sprigiona costantemente un sapore di autenticità descrittiva, proprio la troupe diventa protagonista, ed i pochi scorci del tunnel sono solo proposti dall'operatore, che guarda nel mirino senza decidersi ancora a filmare e chiede consigli (rimasti senza risposta): il procedimento è analogo a quello usato in precedenza nella scena dell'intervista a Fellini - ed in entrambe emerge nettamente, anche se in modi diversi, un altro aspetto, su cui torneremo - e riconduce sempre allo stesso discorso sulla poliva1enza di livelli filmici che permea tutta Roma. Si potrebbe ancora continuare nell'esemplificazione, per quel che riguarda la Roma moderna (cfr. p. es. la falsa introduzione della voce f. c. di Fellini «E la Roma di oggi? che effetto fa a chi ci arriva per la prima volta?»; mentre si tratta semplicemente dell'effetto che essa fa a Fellini: e lo conferma poco dopo egli stesso, non solo introducendosi e filmando, ma poi facendo sparare dei razzi per illuminare la campagna ed i monumenti: in brevi riprese quasi inutili, se non per questa funzione strutturale, di precisare che non si tratta di impressioni di «chi ci arriva per la prima volta» bensì di precisa realizzazione filmica); ma per questa mi sembra che possano bastare gli esempi addotti fin qui.
Quanto alla Roma di ieri, essa è evidentemente ricostruita, dall'inizio alla fine, non foss'altro per ragioni pratiche; ma intanto è quella che più resta «documentaria», senza interventi esterni che ne ricordino l'artificiosità, e coglie squarci di vita spontanea, dalla pensione al ristorante, dall'avanspettacolo alle case di tolleranza, in un ricco spontaneo vivere che non potrebbe esser filmato in modo documentario: proprio la spontaneità totale della vita è in pratica frutto di una ricostruzione filmica; ma, appunto, di una ricostruzione fedele, secondo l'arte felliniana. E se il primo episodio appare sviluppo narrativo delle vicende narrate, o meglio «descritte», a Rimini, e dichiaratamente autobiografiche (ma anche qui l'autobiografia, a parte eventuali menzogne, si fa tipicità, sottolineata dall'anonimità del riferimento iniziale «La prima immagine di Roma è stata questa»: per chi? Evidentemente per l'autore; ma anche per ogni italiano non romano, se non il «pietrone mangiato dal tempo», certamente tutto ciò che segue è stato immagine di Roma, ed il pietrone ne esprime il senso. Sicché ritroviamo qui, in senso inverso, lo stesso rapporto tra l'autobiografia e la tipicità che abbiamo già notato nella introduzione alla Roma di oggi), il secondo episodio è presentato come aspirazione, quasi solo velleitaria, del regista di oggi che vuoI ricostruire immagini di ieri, proposte come evasione onirica, disimpegnata, legittima solo in quanto gli è «congeniale». Vedremo che anche questo è falso; ma intanto il teatrino della Barrafonda è lo stesso di cui il giovane Fellini ha osservato il tetto mobile dalla finestra della sua camera: il riferimento è appena accennato, come già si è notato per tanti altri, ma ricollega in modo preciso questo episodio a quello precedente, in una continuazione della vicenda autobiografica narrata all'inizio: giunto a Roma nel '39, Fellini nel '43 assiste all'avanspettacolo che ora ci ripropone. Così anche il terzo episodio, di datazione incerta, ma comunque risalente a quegli anni, riporta esplicitamente in causa il giovane Fellini, continuandone la biografia, e tuttavia anch'esso viene proposto come ricordo del regista, per spontanea associazione di idee, per contrasto, di fronte alla schietta autenticità di vita degli hippies: si presenta così anch'esso, in certo modo, come divagazione dell'autore e come film filmato, pur nel suo tono rigidamente documentario.
Infine la sequenza della principessa Domitilla, totalmente sconnessa da quanto precede e da quanto segue, è presentata con la naturalezza di un ovvio racconto narrativo: ricordando già nella sua posizione strutturale completamente arbitraria quella posizione di film filmato, e per giunta filmato da Fellini, che ha Roma, e che perciò giustifica ogni inserimento, ogni divagazione, ogni esasperazione: ormai Fellini sembra girare a ruota libera, dopo aver annunziato durante tutto il film il suo diritto a farlo, sotto vari punti di vista: perché è lui, e fa ciò che gli è congeniale: e perché lui coglie la vita, nei suoi aspetti più disparati, nelle sue connessioni più assurde; e perché il film è su di lui e sul fatto che lui filma ciò che gli pare; ed anche perché in realtà non si tratta neppure di un film, ma quasi di un quaderno di appunti, di successioni casuali di scene, quasi di prove per un film da fare o di ricordi di un film (di tanti film: altro aspetto tipico, su cui occorre tornare) già fatto. E tante altre ragioni si possono trovare, per giustificare l'arbitrarietà e l'esasperazione «barocca» della lunga sequenza. Eppure essa raccorda il passato al presente, attraverso una costante cadaverica, ma sempre presente nel mondo romano (l'avevamo già trovata, in contesti diversi ed in una struttura un po' più narrativa, ne La dolce vita); e come tale si inserisce in quel preciso filone tematico di polemica antifascista ed anticonservatrice che permea tutto il film; infine come espressione stilistica è un modo diverso (ogni modo deve essere diverso, per essere vivo - è un punto fermo dell'arte felliniana -) per cogliere sempre, attraverso deformazioni estreme eppure verissime, l'esposizione della vita, oppure della morte, quel suo rovescio che sempre la accompagna: e dopo Satyricon sappiamo ormai bene che la vera morte non è quella fisica, bensì quella dell'inautenticità, delle alienazioni; ed anche queste (anche l'alienazione grottesca del «trionfo della morte», che segna una delle punte massime di celebrazione dell'inautentico che caratterizza l'intero episodio) vengono festosamente accolte nel film, come esaltazione - per contrario - della vita ed anche come parte, esse stesse, della vita.
Appare evidente dunque che la struttura del film risponde ad una precisa esigenza espressiva del mondo felliniano, ed è così intimamente legata a questo da non proporsi più in una sua logica autonoma ma da disperdersi essa stessa in una apparente e caotica spontaneità creativa: per cui un lettore superficiale ha potuto concludere il suo «commento» osservando che «non mancano in Italia i registi (anche grandi, come Fellini); mancano gli amici dei registi, che ponendo loro la mano sulla spalla li confortino al sacrificio e alla misura»; dimenticando che di tali «amici» è pieno il mondo, e che già Fellini ha finito per impiccarne uno e poi per abbandonarlo al dissolvimento, in 8½: perché «il sacrificio e la misura», applicati alla vita, o all'arte che la rappresenta, la uccidono, e non possono che concludere nell'elogio della pagina bianca, se si riferiscono all'arte, oppure di partiti «dell'ordine», se si interessano alla vita (non a caso lo stesso lettore rifiuta di riconoscere la rigorosa coerenza al film della polemica antifascista ed antirepressiva che tutto lo percorre, e pretende di spacciarla per «opportunità un po' tirate per i capelli». Ma di questo riparleremo). La struttura rinvia così, costantemente, alla positività della vita e dell'arte che la rappresenta, ed in essa si dissolve: occorre una precisa volontà (e sensibilità) critica per ritrovarla sotto il prorompere impetuoso delle immagini, come occorre una vigorosa sensibilità d'artista per cogliere l'armonia che lega e giustifica i più svariati aspetti della vita. Molti lettori non hanno saputo coglierla, e si sono limitati a rimproverare a Fellini il fatto che ripeta disordinatamente se stesso e le sue esperienze di uomo e di artista: «una ricapito1azione di cui, francamente, non si sentiva la necessità», o altre simili affermazioni che ripetono con involontaria ironia non solo i concetti ma anche il tono delle affermazioni del critico Daumier di 8½ e del suo elogio della pagina bianca. Abbiamo già visto in 8½ come Fellini proponga già una prima risposta che, sullo stesso piano delle obiezioni di Daumier, non arriva a distruggerle ma comunque se ne mette al riparo: il suo «canto per cantare» vale tanto quanto il silenzio dell'altro: uno sceglie l'essere (qualunque essere, prescindendo da ogni giudizio di valore), l'altro il nulla, e nessuno può prevalere sull'altro; già questa è una difesa, e Fellini ancora una volta la ripropone ironicamente come risposta agli studenti che lo intervistano, rivendicando il proprio diritto a fare solo ciò che gli è congeniale. Ma che si tratti di una risposta ironica risulta non solo dal superamento che ne dà l'intero film (e su cui torneremo) e dal tono menzognero di tutto ciò che riguarda questo aspetto di film in fieri, ma anche dal confronto con 811z, dove già abbiamo rilevato un esplicito superamento di tale prospettiva. Infatti in questo film la positività della vita è faticosamente (anche se «miracolisticamente», sotto un certo aspetto narrativo) scoperta dal protagonista oltre che espressa vigorosamente fin dall'inizio dal regista, e perciò l'imporsi della vita sulla morte, della creazione artistica sulla pagina bianca, dell'essere sul nulla, è messo esplicitamente a tema: la presenza fondamentale dell'ultimo livello filmico, del film finalmente guadagnato da Guido, ormai identificato con Fellini, e coincidente con la vita stessa in quello stesso film-vita cui noi abbiamo assistito e partecipato, esprime anche a livello di struttura il superamento di quella sterile opposizione precedente fra un film «fatto» tanto per farlo ed una rinuncia nata da sfiducia nell'arte; e la sterilità di questa opposizione era già implicita nel fatto che, da un punto di vista narrativo, la rinuncia ultima al film da parte di Guido, prima del recupero finale, era motivata da una esigenza «etica», ossia in qualche modo di «vita», per non perdere la moglie; mentre l'ancora inconsistente «ottavo film e mezzo» progettato da Fellini si presenta, nel suo livello, come realizzazione dell'inconsistenza stessa della vita, secondo il modello che verrà a lungo ripetuto da Bergman: capovolgendo così i termini iniziali dell'opposizione, in modo che proprio la rinuncia al film ha senso solo in nome della vita, e la realizzazione di esso solo come espressione di una accettata inconsistenza della vita, sicché entrambe le posizioni impongono almeno l'esistenza di un positivo. Anche tale argomentazione, dunque, era già implicita in 8½; ma quell'altra, dell'evidenza con cui la vita stessa, e l'arte che la coglie, si impone come positiva, vi era esplicita in tutti i modi. In Roma anche questo secondo argomento resta implicito, proprio perché già acquisito in precedenza; ma non per questo vi è meno evidente; anzi, ora ogni immagine lo impone con una forza nuova, e vi aggiunge, non più solo come corollario, la positività autonoma dell'arte stessa: non solo la vita si impone (si impone al vivente che sappia vederla, ed all'artista che deve coglierla proprio in questo suo aspetto essenziale), ma anche l'arte: è un piacere vivere ed un piacere filmare (ecco un'altra più carnosa ragione per cui, accanto alla vita, il film presenta la vivente troupe cinematografica), ed è un piacere guardare la vita (come fa, ad un livello, la troupe filmata; ma come fa anche lo spettatore che, con l'aiuto di Fellini, rivede con occhio più penetrante la vita di Roma) e guardare il film filmato (anche qui un'ultima e più viva giustificazione della presenza di elementi artificiosi, che richiamano alla realtà di film filmato di ciò che vediamo: le gocce di pioggia come la ricostruzione della villa romana o del teatrino della Barrafonda, ecc.).
Abbiamo già accennato al fatto che Roma, proseguendo il discorso avviato da Satyricon, ritrova un'ulteriore ragion d'essere, più esteriore, funzionale, nel suo impegno politico ed in qualche modo anche sociale. Ma per ora ciò che conta è che le ragioni trovate in 8½ vengono conservate ed anzi esaltate in una nuova sicurezza espressiva: sicurezza tale da consentire a Fellini di trascurare completamente quelle esigenze di originalità, di novità, che in genere assillano i registi a causa delle assurde pretese della «critica» sempre assetata di novità. Perciò Roma può permettersi di mascherare le proprie novità strutturali, rispondendo ad una precisa esigenza espressiva, anche se così si attira sciocchi rimproveri di critici distratti: infatti di 8½ molti lodarono le novità formali (anche se altri, già allora, sull'esempio di Daumier, rimproverarono al film di «essere in ritardo di cinquanta anni su tutte le altre arti». di non avere «neanche il valore di un film d'avanguardia, benché però ne abbia tutte le deficienze»), che ora restano troppo in sordina per esser rilevate dalla critica giornalistica: giustamente, perché ora Fellini «parte» dai risultati di 8½ e già conosce la sostanziale coincidenza dei vari piani di realtà e livelli filmici che in quello aveva distinti. Comunque, anche a riconoscere attentamente la complessità strutturale del film, non è il case di parlare per essa di avanguardia: poiché l'avanguardia deve servire solo come ricerca, per aprire la strada ad altri; Fellini è quell'altro che ha saputo sfruttarne e svilupparne le scoperte strutturali per un lavoro organico che non ha più alcuna pretesa sperimentale proprio perché si pone ad un livello ben più alto, di capolavoro realizzato.
Per quel che riguarda l'aspetto di «romanzo-saggio» che il film in parte presenta (ed in parte supera, secondo quanto abbiamo detto finora) resta ancora da notare come ciò consenta - e potrebbe essere prevalentemente una soluzione di comodo - l'inserimento capriccioso di qualunque cosa venga in mente al regista, in modo acritico. Ma, senza voler affrontare la questione, già abbondantemente discussa nel corso degli ultimi decenni, basti notare che anche nell'opera più strettamente narrativa è possibile inserire, con un minimo di abilità, qualunque cosa si desideri; e che comunque anche in essa la mancanza di giustificazioni «narrative», se compensata da una coerenza artistica, non è mai stata denunciata come negativa dalla critica più attenta. Il che già toglie fondamento all'accusa di faciloneria mossa da qualcuno alla forma «saggistica»; la quale, semmai, impegna maggiormente il fruitore a ritrovare la più profonda necessità d'arte di un'opera e dei suoi elementi e quindi anche l'artista a rispettarla più rigorosamente. Non solo, ma in questo film, come già in 8½, la forma saggistica acquista, come abbiamo visto, una precisa necessità espressiva e perciò rientra essa stessa in quella coerenza d'arte che essa a sua volta richiede. Piuttosto, la stessa forma sembra «sfruttata», come soluzione di comodo, sotto un altro aspetto: essa consente a Fellini di inserire alcune immagini «belle», ma forse «di cattivo gusto», cui egli non sa decidersi a rinunciare né a sottoscrivere: in modo esplicito le inquadrature del parco, con veduta panoramica di Roma o con una bimba che vi gioca a palla, e quelle del tunnel metropolitano. Indubbiamente anche queste trovano numerose «giustificazioni» abbastanza rispondenti al mondo poetico dell'autore, da quelle già indicate finora sull'ironia con cui Fellini presenta quelle stesse e sé che le vuole inserire senza filmarle ed il film che ambiguamente le propone, e più in generale e più profondamente sull'intera struttura del film, che in quelle immagini trova un'ulteriore complicazione; a quelle, variate già da 8½, sulla necessità per Fellini di cogliere anche ciò che è «estraneo», proprio perché non è mai realmente estraneo, in quanto tutto ciò che fa parte della vita, ossia tutto, è connesso ad ogni altra parte del tutto: sicché in 8½ poteva inserire il «marinaio» che balla, in prima istanza come espressione critica del velleitarismo di Guido (e quindi anche in funzione narrativa) ma poi, via via attraverso i vari livelli filmici, in ultima istanza proprio per quel motivo già detto, dell'armoniosa varietà della vita che consente gli inserimenti più imprevedibili. E' chiaro che queste considerazioni riconducono alla questione generale dell'opportunità e dei limiti del romanzo-saggio. Ma queste immagini di Roma presentano anche un altro aspetto, a sua volta passibile di ulteriori sfaccettamenti: si tratta infatti di immagini «di cattivo gusto», di «sicuro» effetto; in particolare quelle del parco richiamano la facile commozione per le bellezze naturali, tipica del cinema ho1liwoodiano o addirittura di tanti cortometraggi pubblicitari Ce dispiace ritrovar1a, con un'insistenza sfacciata in cui non trapela alcuna ironia e tantomeno la semplice schiettezza francescana, nel contemporaneo Fratello sole, sorella luna di Zeffirelli): lo stacco improvviso con cui vengono introdotte e la divertita ironia con cui subito dopo Fellini prende le distanze da esse e le abbandona alla critica risentita degli studenti che vengono ad intervistarlo serve indubbiamente a sottolineare alcune valenze - da noi già rilevate - della struttura del film; ma il fatto che tali immagini siano comunque rimaste significa anche una certa ostinata simpatia del regista: simpatia confermata dal confronto con Giulietta degli spiriti, tutto giocato su un alternarsi di analoghe immagini di sapore fortemente fumettistico, anche se splendide. Anche la sequenza della metropolitana, con il suo fondersi di toni documentari ad altri decisamente kafkiani, rintoccanti all'incubo ed in conclusione aperti a possibilità di evasioni oniriche in mondi lontani e «diversi» (ma non poi tanto ... ), ritrova un parallelo abbastanza preciso in quelle altre sequenze di Giulietta degli spiriti, di sapore «neorealistico», che nettamente si opponevano a quelle sentimentali. Giulietta aveva già scoperto la possibilità di raggiungere l'autenticità anche attraverso il fumettismo di una vita e di una mentalità «borghese»; ora Fellini, facendo un documentario su di sé, oltre che su Roma e sulla vita, confessa anche queste sue tentazioni al «cattivo gusto» di maniera, sia pur nobi1itato da un'estrema maestria, sia verso il sentimentale da fotoromanzo sia verso gli incubi kafkiani. E' questo un nuovo elemento che arricchisce la significazione dei due episodi e si aggiunge, in una diversa prospettiva, ai tanti altri toni autobiografici del film (diverso sia dal banale autobiografismo della vicenda sia dall'antologia di sé che il regista pure presenta nel film) su cui converrà tornare. Ma c'è anche un'inconfessata (o confessata solo a metà) convinzione, da parte del regista, che anche quelle immagini siano veramente belle (quando lo sono: è evidente anche un certo compiacimento, nella ricercatezza formale di quelle brevi immagini, buttate là come osservazioni casuali e non accolte nel film, a suggerire un confronto con la banalità di quelle altre ben più povere, eppure tanto sottolineate, del cinema di consumo. Un analogo compiacimento, misto ad ironia. avevo già rilevato a proposito di qualche breve immagine di Giulietta degli spiriti), e che solo una ragione temporanea, di «gusto» del momento, spinga a rifiutarle. Ciò sembra implicito nelle premesse che già abbiamo rilevato: se tutto è vita e l'arte è riproduzione fedele della vita, anche ogni riproduzione è arte. E' ovvio invece che il sillogismo non regge, perché per diventare arte la riproduzione deve cogliere l'essenziale della vita (diciamo semplicemente così, per non perderci in questioni estetiche irrisolubili ed estranee, nella loro formulazione teorica, al mondo felliniano). Sicché il problema viene solo spostato, e resta ancora da decidere cosa debba venir colto come rappresentativo della vita, ed in che modo: ritroviamo cioè quell'incertezza del regista, paradossalmente timido ed insicuro proprio ora, nel momento della sua piena maturità espressiva, così apparentemente sfrenata; e l'incertezza riguarda proprio quegli aspetti che già dal primo film avevano costituito due importanti poli espressivi e sentimentali della sua arte, oggetti di derisione come forme di alienazione oppure strumenti espressivi come partecipazione del regista alle vicende dei suoi personaggi. Ora il personaggio è il regista stesso, e le immagini riassumono insieme la doppia funzione di esprimerlo e di deriderlo, ma intanto concludono anche il discorso sulla validità artistica delle immagini stesse, in quanto proposte dal regista. Sicché proprio per la consapevolezza della propria grande capacità espressiva Fellini può ora confessare nel modo più diretto i propri dubbi, concernenti alcuni elementi centrali della propria arte, ed esporre brutalmente quelle immagini prive di giustificazioni narrative; ma nello stesso tempo timidamente rifiuta di sottoscriverle: portando anche in questo ad un massimo di lucidità espositiva un elemento già presente in 8½ (per esempio nel proporre al critico alcuni sogni, che Guido vorrebbe inserire nel proprio film; e soprattutto nell'attribuire a Guido tutto ciò che non vuol direttamente filmare come Fellini), e che inevitabilmente si ripresenta in ogni forma di romanzo-saggio. Perciò abbiamo parlato, all'inizio di quest'ultimo capoverso, di «soluzione di comodo», che consente di inserire pagine di incerta valutazione artistica, mettendosi nello stesso tempo al riparo da ogni critica, di contemporanei o di posteri; ma che proprio per questo si attira in ogni caso un'accusa di faciloneria, e non risparmia affatto da altre. Da parte mia rinvio volentieri «ai posteri» (nel senso che rimando di qualche anno) il giudizio di valore sulle immagini in quanto tali, poiché ora siamo tutti legati dallo stesso «gusto» odierno che già ha provocato le incertezze del regista (ma dobbiamo comunque condividere la certezza che almeno si tratti di immagini nettamente superiori a quelle simili di tanto cinema contemporaneo; e non a caso ho citato Zeffirelli, che pure aveva già dato prove di valore); ma non ci sono dubbi, dopo le osservazioni fatte, che Fellini ha saputo inserirle in modo «necessario» nella struttura del film, dando loro una complessa funzione che le rende comunque insostituibili.
Ho tentato così di dare un esempio, particolarmente significativo ma non eccezionale, di come la struttura del film acquisti molteplici funzioni espressive e si fonda con il suo stesso contenuto, in una compattezza sostanziale mai raggiunta in precedenza da Fellini né, credo, da altri registi. E' chiaro ormai che quanto detto finora è ben lontano dall'esaurire l'argomento; ma sulla scorta di questi esempi (certamente insufficienti; ma già troppi per il lettore più sensibile e pronto) è facile aggiungere nuove osservazioni ad ogni nuova lettura del film; perché, come già avvertivo a proposito di 8½, anche Roma si presenta come una fonte inesauribile di osservazioni sulla vita e sull'arte di rappresentarla, e richiede pertanto il costante contributo di ogni lettore: un'analisi critica non può avere alcuna pretesa esaustiva né aspirare ad una impossibile linearità espositiva; per quanto ci si voglia limitare a cogliere pochi aspetti del film, è inevitabile qualche ripetizione, perché ogni aspetto rimette in causa l'intero film, riconducendo sempre, al di sotto della apparenza dispersiva, alla profonda compattezza del tutto.
* * *
Perciò, se si vuole ora, per cercar di recuperare una certa schematicità espositiva (facendo torto al film, che ad ogni schematismo si ribella proprio in nome della vita), analizzare il «contenuto» più profondo del film, occorre ripetere, da punti di vista differenti, osservazioni già fatte a proposito della struttura. In particolare occorre richiamare quelle due identificazioni fondamentali, di Fellini con Roma e con la vita, e dell'arte con la vita e con la positività, a loro volta legate fra loro e che sorreggono, come abbiamo visto, la compatta struttura del film in cui si identificano le varie vicende, piani di realtà e livelli filmici, che 8½ aveva inizialmente tenuto separati. Non mi soffermerò ulteriormente su questi punti, per i quali rinvio all'analisi che ho fatto di 8½; ma occorre tenerli presente per comprendere meglio il senso dell'emergere della vita e della sua rappresentazione in Roma. Solo così è possibile, per esempio, ritrovare il senso più profondo di quei vari toni autobiografici del film, cui ho già accennato: dal costante autobiografismo, che (vero o inventato che sia) accomuna Roma a tutti i film precedenti dell'autore, all'aspetto antologico di Roma, come scelta dei vari elementi tematici e stilistici più tipici di tutta la precedente produzione, all'esplicita confessione-rinnegamento di alcune personali simpatie figurative.
Dell'autobiografismo di Fellini ho già detto parlando in generale dell'autore, osservando fra l'altro che il costante riferimento autobiografico nasce dal bisogno di cogliere concretamente la realtà della vita; ciò è evidente in ogni immagine dei film di Fellini, in cui, anche sotto alle deformazioni più sfrenate, è evidente l'ispirazione a casi realmente osservati. In Roma abbiamo già rilevato che, per la prima volta, non c'è più solo un insieme di riferimenti ad esperienze personali, bensì un'esplicita narrazione autobiografica; e ne abbiamo indicato le ragioni strutturali e tematiche soprattutto nell'implicita identificazione Fellini-Roma-vita. Ma c'è, nel film, un altro aspetto che conferma quanto ho già detto sul bisogno del ricorso felliniano all'esperienza autobiografica: la Roma «riferita» a Fellini, quando egli viveva a Rimini, era anonima, retorica, falsa; quella, non importa se di ieri o di oggi, vissuta e vista direttamente da lui, è viva, varia, autentica.
Anche il modo di guardare alla vita, da parte di Fellini, è però mutato, pur mantenendosi coerente a quello iniziale come ispirazione e come problematica. Inizialmente il regista si opponeva, a volte anche con rabbia, ad ogni forma di alienazione: pur auspicando una vita autentica, egli trovava attorno a sé (ed anche in sé) soprattutto esempi di inautenticità, mistificazione ed alienazioni personali e collettive. Era evidente il suo sforzo anche personale di superarle, per giungere ad una superiore contemplazione, sia come uomo sia come artista, che gli consentisse di vivere e di descrivere la vita nelle sue forme autentiche, conciliando il distacco necessario ad evitare le alienazioni con un radicamento alla realtà necessario per evitare la diversa ed ancor più pericolosa sclerosi dell'astratto intellettualismo. Abbiamo rilevato ripetutamente, nell'analisi dei primi fi1ms, la opposizione spesso irrisolta e perciò sterile fra la denuncia delle alienazioni di cui erano preda i vari protagonisti e l'astratto simbolismo, spesso troppo retorico e comunque sempre generico, di certe figure emblematiche; finché in 8½ la sterilità dell'opposizione veniva riconosciuta e superata, sia da Guido, a livello narrativo, sia da Fellini, a livello espressivo (ma di questo era già possibile cogliere vigorose anticipazioni fin dai primi film). Giulietta degli spiriti ripete in modo più facile e più «narrativo» la scoperta di 8½, e Satyricon cerca, in un mondo lontano, quelle nuove vie che in Roma trovano una lucida continuazione: ora, se si vuoI trovare nel film una figura emblematica, occorre cercarla nell'artista, sia esso il poeta Eumolpo di Satyricon oppure lo stesso Fellini di Roma. Infatti l'artista riassume quel doppio atteggiamento necessario anche per realizzare una vita autentica: una carnosa aderenza alla realtà ed insieme una capacità di sollevarsi a contemplare l'insieme, che possono esser riconosciute in modo netto, per esempio, nei vari movimenti della cinepresa che si solleva e si abbassa durante la ripresa nel «caos del traffico», alternando sguardi di insieme ad amorose osservazioni particolari, anche sul fango o sulle gocce d'acqua; ma soprattutto è la struttura che ripropone il continuo oscillare fra i due atteggiamenti, in definitiva coincidenti, di contemplazione distaccata e di partecipazione aderente a ciò che viene descritto. E' facile ritradurre da questo punto di vista quanto abbiamo visto in generale sulla struttura del film.
Il fatto stesso che Fellini si proponga ora per la prima volta esplicitamente a protagonista del film è significativo anche sotto questo aspetto: descrivendo il proprio processo di comprensione di Roma, ossia della vita, egli coglie insieme il modo dell'artista e quello dell'uomo nel senso che si è detto; e fa di sé il protagonista ed insieme la figura emblematica, ricorrente in modi diversi ed apparentemente saltuari, per riconoscere come aspetti di sé entrambe quelle figure che in precedenza apparivano dissociate nei suoi film come pure, probabilmente, nella sua vita, (ma già sappiamo quanto sia difficile - e comunque inutile - tentar di risalire dai film alla vita di Fellini, sciogliendo l'intreccio di confessioni e di menzogne, e di apparenti menzogne e di finte confessioni); e per confermare la recuperata unità di esse. Ma mentre viene richiamato questo superamento della precedente opposizione, e dato in qualche modo per scontato (lo si è già visto anche nella struttura del film, in tanti modi diversi), si propongono anche nuove distinzioni e nuove identificazioni, già accennate in Satyricon. C'è per esempio un superamento di fatto della distinzione, che in Satyricon assumeva ancora a volte dei toni drammatici, fra la figura dell'uomo e quella dell'artista: Eumolpo poeta non poteva vivere se non rinnegando l'arte sua, né poteva esser poeta se non rischiando la propria vita; finiva per scegliere la vita (e l'impennata del poeta, prima di tale scelta, acquistava un sapore abbastanza ironico, e nasceva come frutto di un'ubriacatura, e provocava infine le risa del giovane Encolpio che non sa che farsene della «poesia» astratta che Eumolpo gli affida come dono prezioso), e proprio scegliendo la vita ridiventava finalmente poeta in modo più concreto, nel condannare le ipocrisie e le alienazioni dei notabili della società: ma lo faceva in morte, senza più creare opere d'arte. Ora invece Fellini ritrova una più serena composizione delle proprie esigenze di uomo e di artista, sia pure attraverso la sim1Jlazione di un'attività artistica sconnessa dalla realtà, apparentemente gratuita e sterile ripetizione di sé: in realtà quello che egli propone di sé, e che gli è «congeniale», non è il distacco dalla realtà che lo circonda, ma il suo gusto di descrittore ed insieme di simulatore, che lo porta a simulare se stesso o almeno a lasciare adito alle interpretazioni errate che ne danno gli altri; sicché il suo film più impegnato politicamente si presenta come semplice autobiografia o come estrosa invenzione o come banale ripetizione di formule convenzionali, e ciò gli consente di continuare a produrre senza far la fine di Eumo1po e senza tradire se stesso.
Si noti comunque che anche questa «simulazione» non è solo un'astuzia per evitare grane con la censura (ma c'è anche questo: non a caso il regista italiano più «cattivo» e più «audace» non ha mai incontrato difficoltà giudiziarie o di censura): è soprattutto un altro modo per esprimere l'ambiguità, o meglio la polivalenza, che Fellini riconosce costantemente nella vita e che ritraduce in modo sempre più complesso nella sua arte. Abbiamo già avuto occasione di rilevarla spesso nella struttura di Roma; e tutte le opposizioni e relative soluzioni che anche a livello narrativo e tematico emergono dal film ne sono ulteriori manifestazioni.
Con Giulietta degli spiriti Fellini ha definitivamente risolto a livello personale il problema esistenziale di vivere una vita autentica: ne ha riconosciuto in 8½ il senso ed il valore, ed ha trovato in Giulietta la forza per realizzarla superando ogni tentazione alienante. Ormai Fellini può tornare a quell'altro problema, che già aveva tentato di affrontare, con forza ancora insufficiente, ne La strada: quello della comunicazione autentica (o «spirituale», ma in senso lato, ed ora più che mai molto particolare). Occorreva prima risolvere il problema dell'autenticità nell'ambito della persona singola, per poi arrivare alla comunicazione, e poi più in generale alla vita comunitaria. In Satyricon questa è colta con straordinaria ricchezza umana nella villa dei due patrizi; ma è colta nel momento del suicidio, e sull'episodio come su tutto il film pesa l'ombra della violenza che la società o il potere può imporre ai singoli: violenza che, se non può alienarli, può però costringerli a vivere nel terrore oppure a rifugiarsi nella morte. Vedremo che la stessa ombra di morte ritorna costantemente anche in Roma; ma ora non appare più con evidenza l'alienazione individuale, che ancora in Satyricon dominava i singoli episodi, sia pure in forme diverse da quelle dei fi1ms precedenti e illuminate dalla certezza della possibilità di un superamento anche collettivo.
Non mi appare ancora chiaro in tutti i suoi aspetti il film su Roma antica; ma mi sembra che molte incertezze di lettura siano dovute ad incertezze del regista stesso, che, superato positivamente il problema esistenziale, cerca ancora un po' confusamente di mettere a fuoco i pericoli «sociali» e di chiarire il corrispondente impegno «sociale» dell'artista (e, forse, alla ricerca della propria funzione sociale si sovrappone il bisogno di giustificare da questo punto di vista la propria opera precedente): sicché le numerose alienazioni personali che ritornano nel film si alternano a quelle nuove e più minacciose imposte dalla società, ed implicite soprattutto nella parte centrale ed in quella finale; ed in entrambe l'ottimismo di fondo del mondo felliniano prevale e, nella scena finale, rischia di trasformare in facile gag comica la denuncia contro la società. Anche sotto questo aspetto Roma raggiunge una ben maggiore coerenza: a parte la rinuncia ad aperture finali verso una nuova speranza (aperture «congeniali» a Fellini, indubbiamente, ma anche emergenti dal tono stesso dei film e perciò artisticamente coerenti; e tuttavia inopportune in un impegno di denuncia sociale), su cui torneremo, il film concentra ormai l'attenzione sulla società, abbandonando completamente ogni problematica personalistica, secondo un'altra ambiguità di impostazione: proprio ora che il protagonista non è più un'immagine parziale del regista, bensì lui stesso in tutta la sua vicenda biografica e nella sua stessa contemporanea attività di regista, il film si concentra sulla vita della società romana in modo quasi documentario, rinunciando completamente ad ogni indagine psicologica sui singoli personaggi. E per un ulteriore capovolgimento (ma coerente con il primo e con il mondo felliniano in generale), proprio ora che non esiste più alcuna indagine psicologica sui singoli personaggi ma viene colta la «massa» nel suo insieme, ogni figura acquista un rilievo particolare, una ricchezza umana che supera (senza perdere) il suo aspetto di «tipo» per vivere di una propria individualità spontanea, viva.
Il processo è ovvio, anche se continua ad apparire miracoloso il fatto che Fellini sia riuscito a rea1izzarlo con tanta sicurezza: guadagnata ormai la possibilità di vivere una vita autentica, si tratta di coglierla in pratica, nella vita quotidiana, nelle attività più elementari. Ciò accade soprattutto nelle ricostruzioni degli anni quaranta; e ne sono ovvie molte ragioni: anzitutto, come già si è detto, per cogliere con la cinepresa la spontaneità della vita occorre ricostruir1a artificiosamente, come Fellini ha dovuto fare per tutti gli episodi del passato, mente quelli del presente nascono da un procedimento quasi costantemente documentario che non consente - paradossalmente - la stessa spontaneità; inoltre Roma è soprattutto un film su Fellini, e di Fellini descrive il primo entusiasmo per la falsa Roma conosciuta a Rimini, ma poi soprattutto la scoperta illuminante della Roma viva, nei primi anni del suo soggiorno nella capitale, mentre gli episodi contemporanei presentano l'attività registica dell'autore e perciò le immagini di Roma acquistano, almeno sotto questo aspetto, una posizione di seconda mano (e comunque, narrativamente e psicologicamente, nei confronti del Fellini protagonista, un carattere di «già noto») che ne toglierebbe la prorompente freschezza della prima scoperta; ma soprattutto la Roma di oggi, richiudendosi simmetricamente su quella vista inizialmente da Rimini, ripropone il pericolo di quelle minacce, nuovamente esplicite, che impediscono o almeno riducono la festosa partecipazione del regista alla vita collettiva. Ma in ogni caso, al di là di restrizioni stilistiche o strutturali che limitano l'esplosione della vita a certi periodi o a certe situazioni, è ormai netto il superamento delle varie alienazioni personali che caratterizzavano i film precedenti: la gente vive in un tripudio di vita spensierata perché priva di ogni mistificazione, mangia, va a teatro o nei bordelli con gioviale allegria, senza ossessioni di alcun genere, litiga perfino senza convinzione; e Fellini osserva tutto con partecipe simpatia, senza drammatizzare i ricordi del passato, anche quando in essi siano esplicite le alienazioni, come a Rimini: è significativo, per esempio, il mutamento che ha subito la figura del preside, da 8½ a Giulietta degli spiriti a Roma: dapprima tragica origine di complessi alienanti, a Giulietta appare stilizzato nella figura del «cattivo» da fumetti mentre ora non è più neppure «cattivo», ma solo maschera, burattino: non uomo, perché è troppo alienato per vivere, ma neppure «cattivo», perché non disturba più, non atterrisce, non provoca paure ed alienazioni. Analogamente il caos stradale di oggi o la dissoluzione degli affreschi antichi sono goduti come spettacoli, aspetti minimi ma anch'essi affascinanti della vasta realtà della vita: non esiste dramma nell'intasamento stradale né nella perdita degli affreschi, ma solo divertita o amorosa e sempre affascinante contemplazione. Ed in ogni immagine, in ogni aspetto della vita, c'è il fortissimo rilievo di ogni singolo elemento ed insieme l'armonioso accordarsi di tutti in un'unica festa (si confronti per chiarire meglio, il lungo episodio della circolazione stradale con il simile film di Tati nel «caos del traffico», in cui la stessa divertita capacità di cogliere e di deformare i singoli aspetti della realtà quotidiana raggiunge effetti simili, ma privi della carnosa partecipazione di Fellini alla vita del tutto).
Su questa festosità universale si stende l'ombra minacciosa della violenza, su cui converrà tornare dettagliatamente, poiché essa costituisce il tema particolare del film. Resta da chiedersi, per ora, se Fellini compirà anche per le alienazioni sociali la stessa parabola che percorre per quelle individuali, fino a riconoscere anche nella tentazione mortificante del fascismo una componente ineliminabile della vita (come la morte stessa), e perciò a suo modo «bella» perché essenziale a quella. Alcune immagini del film sembrano annunziarlo; ma occorre anche notare che solo a processo di «liberazione» ultimato Fellini recuperò le alienazioni personali; ed ora che, libero da queste, ha riconosciuto all'artista un preciso compito sociale e politico, sembra garantire che solo come «storico» (ossia a pericolo reale ormai superato) potrà recuperare anche quella. Ma la questione è non solo gratuita, come tutte le previsioni, ma anche inutile agli effetti della comprensione e della valutazione del film.
(continua)
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