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Il più grande suono del mondo
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1. Il film

Questo film lo si deve a due testardi, magari scontrosi e problematici artisti di immagine filmata. Uno è Franco Maresco, regista palermitano che in combutta con Daniele Ciprì ha segnato una delle stagioni più interessanti e sconvolgenti del cinema isolano (la ‘vera primavera palermitana’ mi sia consentito di asserire, visto la fine che ha fatto la seconda, e cioè quella politico/sociale). L’altro è Edoardo Morabito, già montatore-alchimista di raccordi e di materia narrativa in alcuni lavori di Lucchesi e di Addamo. Il regista, che ho personalmente incontrato a Salemi durante il suo lungo lavoro di scavo sulle radici di Tony Scott, ha voluto fortemente questo lavoro sentendolo quasi come la summa definitiva di una riflessione, già iniziata negli anni precedenti con la genialità compositiva che gli è propria e che sa fare brandelli ed alzare faville, sulla sua grande passione musicale; il jazz appunto. Maresco nasce come ‘personaggio pubblico’ nei primi anni ‘80, come conduttore presso una seguita emittente radiofonica di Palermo di un programma che mischia in parti uguali jazz e cinema, emozione che si ascolta ed emozione che si vede. Luce sonica e riverbero visivo. Passato al video trova in Ciprì un fido collaboratore ed un altrettanto appassionato cultore di musica afroamericana; mirabili i loro lavori “Noi e il Duca” sulla trasferta palermitana di Ellington, “Tutti for Louis” su Armstrong e, soprattutto, il programmatico “Miles gloriosus” del 2001, che punta occhi ed obiettivi su Miles Davis. La loro sperimentazione ‘video/sincopata’ continua con l’allestimento di vere e proprie installazioni artistiche che, oltre alle loro immagini, vede interagire la musica di jazzmen quali Enrico Rava e Salvatore Bonafede con la recitazione di personaggi come Mimmo Cuticchio e Franco Scaldati. Insomma, il preambolo che apre “Io sono Tony Scott, ovvero come l'Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz”, altro non è se non la messa a fuoco di un soggetto già provato e riprovato decine di volte; ecco che parte la macchina da presa, sorge l’immagine di burattini cadaverici (al posto dei ‘pupi’ di Cuticchio) a cui Scaldati dona il suo inconfondibile accento attoriale e quindi tutto scivola lentamente verso uno swing per niente rassicurante. Che spunti poi quell’idiota di Paolo Bonolis ad irridere un gigante della comunicazione artistica che ha abbracciato almeno 40 anni non solo della nostra esistenza ma anche le gaie e miserabili sorti dell’Occidente, marchiandone a fuoco vivo almeno un ventennio pieno, la dice lunga su cosa sia oggi il mercato dell’informazione e su quali aborti umani si fondi il ‘successo tel-evasivo’.

Maresco impiega anni in questa disperante ricerca di storie, immagini, dati e ‘ricordanze’; vola più volte negli States, passa a setaccio archivi e documenti, parla con chi Tony Scott lo ha conosciuto per davvero. “Abbiamo tolto alcune cose, è chiaro… Insomma, ci sono stati dei passaggi in alcune interviste che ci sono sembrati molto, troppo personali. Rischiavamo di portare alla luce fatti privati che poi nulla hanno da regalarci per capire chi era Tony, come uomo e come artista”, mi disse qualche mese prima della fine delle riprese. Tolto questo, ch’è davvero l’irrisorio, resta sul tavolo di montaggio una quantità enorme (‘ab.norme’) di cose da rimontare, mettere in fila, cucire con il filo dorato dell’affabulazione filmica. Ed è qui che entra in gioco Morabito. Alla sua totale dedizione e alla sua genuina devozione, dobbiamo questo film-documentario (che è forse ‘meno’ di un film ma molto ‘più’ di un documentario) che, ultimato e distribuito, ha potuto essere apprezzato in giro per il mondo. Segnalato a Locarno ed osannato al Tribeca, tanto per citare qualcosa. Un lavoro che a molti comunque non è piaciuto; forse non entrando in sintonia con quel modo tutto ‘cinico’ che ha Maresco di lavare, di mondare la realtà attraverso le setole metalliche dei suoi controluce, dei chiaroscuri, degli stacchi e degli infiniti ritorni allo scavo della maceria. La maceria umana che ci circonda, il vassallaggio culturale verso cui tutti (ripeto ‘tutti’) i maggiorenti della grande comunicazione italiana hanno abdicato. Così come fa Rosi in “Cadaveri eccellenti”, quando Charles Vanel all’inizio di tutto ‘sente’ l’urlo muto della morte (nella spettrale Cripta dei Cappuccini, uno dei più rabbrividenti dentro/fuori/la vita/ed/il cinema mai girati da un regista!), allo stesso modo lo spettatore del nostro Maresco ‘sente’ l’armonia attraversare la decomposizione; gli viene dato subito l’elemento decriptante 128 minuti di immagini e suoni e parole che si accavalleranno come la più grande installazione artistica mai concepita dall’autore palermitano. Tony Scott è morto, il jazz è morto, forse il cinema stesso come forma/sostanza raggelante la carne della vita e sua incommensurabile lampada magica, capace di riscaldarne per sempre l’effige (kine-natron!) non dico che è morto, ma versa sul letto d’agonia. Dunque tutto ciò è vero e devastante. Ma non toglie un grammo al peso emozionale di questo lavoro, che ha – paradossalmente – un solo grande difetto; sembra si interrompa troppo presto, quasi una infinita jam di Tony su cui s’abbatte un improvviso blackout, in quella parte finale girata nel ‘provinciale’ cimitero del paesino salemitano dove, a cinque e passa anni dalla morte, l’artista non ha ancora trovato una degna sepoltura. “Ci sono molti demoni dentro di me; qualche volta li devo lasciare risalire, accarezzare loro la testa e qualche volta devo baciare loro il culo!”. Ciao, Tony!  

 

 

2. Le interviste immaginarie

 /// Intervista immaginaria, ma con molte parole dal vero, all’artista Anthony “Tony” Joseph Sciacca “Scott” o “Xaca” ///

 - Non posso che chiederti del clarinetto, del tuo strumento, di ciò che suoni e di cosa senti mentre lo suoni…

Non suono il clarinetto come uno strumento… questo devi capire, no?... Io suono il clarinetto come parte del mio corpo e del mio spirito. Ed io così non cerco di suonare il clarinetto, io faccio come se lui non c’è, non provo mai… io faccio su e giù su una scala toodle-oodle-oodle (nota: mima con la bocca il suono dello strumento). Faccio così per essere sicuro che funziona, questo è tutto…

- Allora…

- Allora il clarinetto suona o non suona, io non gli do una seconda possibilità!

- Sì ma questo non toglie che tu sarai sempre considerato uno dei più grandi, se non il più grande innovatore dello strumento…

- Ok… va bene, per me… ma lasciami dire questo: ogni strumento, ogni suono ha il suo tempo, ma come un giorno disse Monk, questo è tutto quello che posso fare!... Il modo in cui suono il clarinetto è il mio stile, è personale. Tutto qui…

- Un modo molto semplice di liquidare la faccenda del bebop, mi pare…

- Quando ero in Giappone chiesi ad un clarinettista cosa pensasse dello stile di Tony Scott. “Buono”, disse lui, “ma è troppo difficile da copiare!”. Ecco, questo per me vuol dire che faccio la mia musica, no… Cioè, mai potrei porre me stesso in un mondo così piccolo come normalmente è considerato il mondo del jazz. Per me la parola ‘jazz’ significa ‘improvvisazione con un beat’. Questo è tutto…

- Per chiudere… ma chi è davvero, come uomo dico, l’artista Tony Scott? 

- Uhmm… scrivi questo, solo questo… Sono un viaggiatore. Molti dei miei vecchi amici non lo capiscono. Non sanno quanti sacrifici faccio – ed ho fatto – per rimanere così, puro come posso, suonare jazz come lo sento… loro desiderano che io sia un prospero cittadino pensionato. Ho avuto opportunità per essere un famoso band leader, fare una varietà di cose che mi avrebbero potuto rendere ricco… Scelsi di essere un girovago e mantenere il mio senso di giovinezza e di libertà… Sono un ebreo-siciliano-vikingo-africano…

- Un ebreo-siciliano-vikingo-africano? 

- Già…

  

/// Intervista immaginaria, ma con molte parole dal vero, al regista Franco Maresco ///

 - Un film ‘infinito’, Franco, di quelli che diventano vuoi o non vuoi l’impresa di una vita. Com’è andata esattamente?

Per molti versi hai proprio ragione. Abbiamo iniziato a lavorarci compiutamente nell’estate del 2007, anche se eravamo già operativi da subito dopo la morte di Tony Scott. E poi una serie infinita di contrattempi, di lungaggini, di imprevisti. Ma è il ‘corpus’ stesso del film che è davvero immane; alla fine abbiamo escluso tantissimo materiale, molto davvero interessante ma non si poteva portare sugli schermi una storia di più di tre ore!...

- Fatica che è valsa la pena fare, no? Mi pare che in molti passaggi il tuo lavoro davvero mette a nudo il ‘personaggio Tony Scott’ e, contemporaneamente, parla anche di altro; sublima un cinema che ‘vede’ tra le cose e oltre le cose…

Se ci siamo riusciti vuol dire che abbiamo lavorato bene e la pena, come dici tu, l’è valsa pienamente! Con Tony non è stato solo ‘fare un film’; per me è stato approfondire la conoscenza di un mondo che mi ha sempre affascinato, il jazz, e grazie al jazz prendere coscienza di tutta una serie di situazioni che attorno al jazz giravano e a cui il jazz ha dato ma a cui deve anche tanto…

- Intendi gli Stati Uniti della prima metà del secolo scorso?

E non solo. Abbiamo ricostruito molte cose oramai dimenticate, in buonafede come in malafede dico, anche sulla Sicilia dell’inizio del ‘900, sull’impatto dei nostri emigrati in molte realtà sociali americane, su cos’era il mondo dello spettacolo negli anni del dopoguerra… e non per ultimo, abbiamo ancora una volta se ce ne era bisogno, chiarito il totale imbarbarimento di questo paese dagli anni ’50 in qua… Una caduta senza fine di cultura, di gusto, di priorità, di umanità se vuoi… Ecco, e Tony è l’inquieta figura che attraversa questi mondi illuminandoli con la sua musica meravigliosa e la sua vita irredenta…

 

/// Intervista immaginaria, ma con molte parole dal vero, allo spettatore Lostraniero ///

 - Visto finalmente il film che cosa ne trai, come spettatore intendo?

- Mah… consideriamo le difficoltà oggettive che il regista ed i suoi collaboratori hanno incontrato, non appena hanno deciso di affrontare quella che sostanzialmente era un’impresa… cioè, raccontare in immagini una storia che è la storia di una persona, che è un artista, un uomo che forma la sua grande sensibilità, la 'vittima' se vuoi di grandi sconvolgimenti epocali ed infine il simbolo quasi di una disfatta collettiva... Una sconfitta che poi nessuno vuole ammettere... Ed anche il film, magari anche il film è un po' irrisolto...

- Cosa vuoi dire?

- Che infondo era anche logico sospettare che ‘qualche Tony Scott’ sarebbe sfuggito alla scatola fantasmatica di Maresco. Era prevedibile. Ad esempio non ho trovato ben sviluppato il personaggio che tutti noi che abbiamo avuto in sorte di incontrarlo, nelle vesti di artista che veniva spesso a visitare la sua città d’origine, ricordiamo con piacere e con una punta di commozione. Nel film manca totalmente il Tony Scott che dialoga con tutti e di tutto; il gigante buono vestito di nero che potevi magari incontrare dal barbiere, e che lì improvvisava con un bravissimo mandolinista del luogo, infinite jam sessions di musica folklorica mischiata ad ombre jazz, a tripudi ed echi di musica mondiale… Manca il Tony Scott che ogni volta che tornava a Salemi si chinava per baciare la terra dei suoi padri, e lo faceva con una ‘pietas’ che davvero prendeva tutti i presenti… Manca il Tony Scott che veniva portato in giro sulla costa tra Castelvetrano e Mazara su una vecchia Fiat 500 da un suo giovane parente, alla ricerca di un posto dove a suo dire la radiotrasmittente potesse trovare un ponte radio buono per parlare gratis con gli amici lasciati oltreoceano… Il Tony Scott che impazziva per i semi di zucca salati; mi giurano che ne mangiava chili interi e riusciva ogni volta a non accusare mal di pancia!... Manca anche la parte più intima ed inquieta del Tony Scott che noi ricordiamo; quando, nella sua casa in campagna, non riusciva a prendere sonno e saliva col fedele clarinetto sulla cima più alta del tetto. Si sedeva lì, pensoso e dopo qualche minuto iniziava a ricamare nell’aria melodie ora struggenti ora feroci, feline. Ci passava notti intere così, e a chi gli chiedeva il perché lui non rispondeva; non era per nostalgia, credo, ma per un senso intollerabile di inquietudine… Ecco, magari queste poche immagini che si conservano di lui sono già un film nel film, o meglio sono un altro film, un film che Maresco comprensibilmente non ha potuto girare o se ha girato del materiale anche su queste sfumature, non le ha sapute poi organicare meglio nel suo film… Ma, lo ripeto, quello che ha fatto resta un interessante atto d’amore ad un grande interprete del nostro tempo, oltre che un film-documentario godibilissimo...

 

3. La ‘mia’ videostoria

La sua musica parte dai fermenti jazzistici della seconda metà degli anni ’40. Tony è un giovane diplomato alla Juilliard School of New York che apprende e sospende nella volontà di ricerca molti dei ‘dogmi sincopati’. Prova ne sia che segue con fervore, proprio in quegli anni, i corsi del compositore Stefan Wolpe (uno spirito irrequieto ed un attento scopritore di scale diatoniche!) presso la Contemporany School.
L’incontro che cambia la sua vita di uomo prima e di riflesso anche di musicista, è quello con Charlie “The Bird” Parker. Le ossa le ha già temprate con Ben Webster (ripeterà spesso negli anni “Frog è il mio padrino spirituale!”) ma è con Parker che Tony diventa ben presto il re incontrastato dei clubs. Harlem, Greenwich Village, la 52nd Strada… questo è il mondo da conquistare e le tappe di questa conquista hanno i nomi di Down Beat, Onyx Club, Village Vanguard, Showplace. Negli anni ruggenti del jazz, la Sesta e la Quinta Avenue sono davvero un tappeto di bocche luminose, aperte ad ingoiare il genio e l’ambizione di nuovi talenti che possano scrivere pagine luminose. “Una notte un visitatore di fuori città, camminando per ‘The Street’ cominciò a preoccuparsi di cosa gli stesse procurando la sua ubriacatura. Mentre passava da un club all’altro, vedeva sempre lo stesso clarinettista. No, il fatto era che l’alcool non c’entrava nulla… era solamente Tony Scott che si spostava per suonare!”. Così, in maniera anche abbastanza divertente, il critico musicale del ‘New York Times’, John Wilson descrive ciò che poteva capitare ogni sera da quelle parti. Sera dopo sera, club dopo club, jam dopo jam, Scott riesce a limare la sua personale ricerca; dare evoluzione allo stile del clarinetto rompendo i ponti con Benny Goodman e, seguendo la via maestra di Parker, giungere ad un ‘luogo musicale’ totalmente nuovo. Un posto illuminato da una verve che riesce a mischiare con passione e tecnica, sia la leggerezza che l’intensità emotiva. Inizia a dirigere le ‘sue’ band; prima una ‘big’ e poi un famoso ‘septet’ che sbanca letteralmente la ribalta newyorchese. Ma non c’è solo questo in quegli anni tumultuosi. Arrangia e dirige Billie Holiday (a cui forse lo legherà anche un breve ed intenso rapporto affettivo), intesse celebri collaborazioni con Harry Belafonte (l’Onyx Club era famoso in quegli anni per dare spazio anche alle misture caraibiche) che portano alla luce autentici capolavori senza tempo (“Matilda” e la celeberrima “Day-O”), mentre non disdegna di essere diretto da gente del calibro di Gunther Shuller e John Lewis. Praticamente domina lo strumento e la scena. Una scena che, ma ancora lui non lo sa, sarà magmatica e tellurica tanto quanto fragile, piena di dolorosissime sorprese.

 

 

E’ la fine del ’59. E’ la fine di un’era. Da poco più di cinque mesi, sotto una lapide del St. Raymond’s Cemetery di New York (“Lontana da tutti” come aveva lei stessa deciso nelle sue ultime volontà) riposa in pace la sua amata Elinore, ‘Billie-Holiday’ per il resto del mondo. Bird, l’amico di infinite notti passate ad ammattire sulla musica, era già morto nel marzo di qualche anno prima. Ma è il jazz intero che sta cambiando, mutando pelle. Tony sente che quell’universo si sta velocemente contraendo e che la sua anima non potrà sopportare altre restrizioni, altri lutti terribili, nuove privazioni. Incide con una furia sistemica e sistematica davvero raggelante, le ultime opere con i suoi quartetti: “Sung heroes” è la dedica che lascia alla memoria di chi lo ha accompagnato per le vie della vita ed ora è solo un’ombra al suo fianco. “Misery”, espressamente per Lady Day, “Remembrance of Art Tatum”, e poi ancora un requiem per delle ‘calde labbra’, un ‘amico africano’ cullato da un maestoso blues, il maestro Wolpe ricordato in musica, un tributo al padre ed uno al grande Manolete, infilzatore di tori e di cuori femminili. Tutto è stipato lì, in quel tondo vinile che il maestro condivide con i fidati moschettieri di allora; il freddo, austero Evans al piano, Paul Motian alla batteria e il ‘gregario di lusso’ LaFaro alle corde del basso acustico. Un cocktail mesmerico e portentoso di talenti che il prestigio e la forza di Scott, hanno il merito di aver messo insieme per la prima volta. Infine, registra allo Showplace i brani che daranno vita a “Golden moments”, vero e proprio breviario di quindici anni di carriera e di ricerca espressiva. Non si cura nemmeno che il lavoro esca sul mercato (uscirà solo negli anni ’80 grazie all’interessamento della Muse), ed investito del titolo di “ambasciatore della musica” (alcuni anni dopo, al rientro negli States, l’allora vicepresidente Nixon lo ringraziò a nome suo e dell’intero paese per aver stabilito “solide fondamenta per il benessere degli esseri umani”!), parte per conoscere il mondo. E le musiche del mondo. Gira l’Europa, l’Africa meridionale, si spinge fino in Sud Africa; qui, in pieno apartheid, suona per un pubblico misto sia a Johannesburg che a Durbans e registra per la RCA africana un disco con un gruppo di giovani suonatori di flauti e con delle voci femminili. E’ il globetrotter del jazz mondiale. L’instancabile ‘Taras Bulba del bebop’ come lo definirà decenni dopo Brian Case su un numero, poi diventato leggendario, del “Melody Maker”.
Nel filmato che ho scelto è a Praga – piazza europea dove tornerà altre volte – in una portentosa interpretazione di un suo classico ‘minore’, dedicato alla memoria della madre.

 

 

“Eravamo tutti relitti… nessuno stava più facendo jazz!”. Tony torna negli States nel 1965. Viene richiamato da George Wein, il più grande impresario del jazz e mecenate illuminato, per un concerto al Newport Festival ed è quella l’occasione per tentare di riannodare i fili, per ricucire tutto quello che sembrava liso per sempre. Con McCoy Tyner apre in un locale presso St. Mark Place (il “Dom Club”), una sorta di ritrovo per gli spiriti vaganti che non trovano più pace in un mondo dove, lentamente ma inesorabilmente, i gusti musicali cambiano (alla beat generation e ai club si sostituiscono la hippie generation e gli happening, e quindi il jazz cede il posto allo sgomitante rock). Chiudono gli jazz show ed aprono pizzerie e spettacoli di striptease e softcore. L’America sta cambiando, chissà se in meglio. L’incredibile spinta auto assolutoria dopo i terribili anni della guerra vinta ma che ha lasciato ferite profondissime (Hiroshima, la Guerra Fredda, un boom economico che però segna anche lo scontro finale tra la città, la cultura urbana e cosmopolita, e la campagna, la cultura periferica da sempre affascinata dal mito della frontiera), si muta in un nuovo mostro a più teste (Cuba, la Corea, da lì a poco il Vietnam, la contestazione). Dura poco la sua permanenza in terra yankee; viaggia di nuovo in Oriente ed incide due lavori colossali, antesignani di molta world music e new age music a venire. 

 

 

Nel ’67 suona a Berlino in occasione del Festival Jazz facendosi accompagnare dagli Indonesian All Stars e destando scalpore tra i puristi; torna in Africa e l’anno seguente è in Italia, lo invita infatti Adriano Mazzoletti per un concerto alla Radio Italiana e lo mette al fianco di D’Andrea, Giovanni Tommaso e Daniel Humair. Qualche mese dopo succede una cosa, che di certo non avrà gli onori della cronaca giornalistica ma che voglio raccontare, al fine di far capire quali erano i lati più semplici ed umani dell’artista Tony Scott…
E’ una tiepida serata di primavera del ’68, e nella piazza principale di Salemi c’è poca gente. I due bar ancora aperti, distanti tra di loro un tiro di schioppo, si guardano in cagnesco come al solito. Uno è il ritrovo della media ed alta borghesia del paese, luogo dedicato a sopraffini discorsi sulla politica, sulle cose della vita, sulle donne, mentre l’altro è il chiassoso luogo dove si danno appuntamento contadini e muratori per un veloce schiamazzo, una tumultuosa partita a carte, un caffè preso ridendo a crepapelle con gli amici e magari mugugnando sulla crudeltà irredenta dell’esistenza. Qualche mese prima la terra ha tremato di brutto sotto ai loro piedi, ma l’afflato e la reciproca voglia di rinascita hanno già lasciato il posto all’atavico regime sociale, al pregiudizio così come alla più sfrenata e goliardica ‘presa per il culo’. Chissà quali burle stanno tramando, gli uni contro gli altri, quando si sentono stridere i freni di un’auto nera presa a noleggio. Dall’auto scende una figura maestosa, nera come l’auto che l’ha partorita, che nemmeno si guarda intorno; si dirige verso il centro della piazza e si inginocchia. Bacia più volte la terra. I presenti sono increduli. Dai due bar escono a frotte, chiedendosi chi sia quella sorta di cavaliere innominato che porta con se una semplice valigia ed uno strano astuccio oblungo. Si racconta che un vecchio ubriacone, da tutti ritenuto un po’ tonto e quindi vittima sacrificale opportuna per quel dio umano imprescrutabile appena atterrato tra di loro, viene sospinto in avanscoperta. Ecco, ora è davanti alla montagna scura che ha rimesso un cappello a larghe falde e sprigiona uno strano miscuglio di emozione e nervosismo. Cosa succederà adesso? Quale fine toccherà al povero vegliardo? Ma è la sorpresa generale quando il vecchio si scioglie in un sorriso incredulo e commosso. Quell’uomo è Antonio, il figlio di Nina Ganci! “Sì, sono Ninuzzu bidduzzu…”. “Ninuzzu bidduzzu’, come lo chiamava teneramente una sua zia, è tornato a casa alla fine. Verrà a Salemi ciclicamente, e non ci sarà una sola volta che non suonerà per il salemitani; con concerti sfinenti dove tutto (jazz, etnica, improvvisazione pura, folklore, frizzi e lazzi) viene mischiato per diventare bevanda utopica e calda da far girare e condividere tra gli astanti. Ma non si tira indietro nemmeno per qualche veglione carnevalesco, per una festa popolare, per un’improvvisazione solo-scat-e-ritmo-delle-suole in qualsiasi posto l’ispirazione lo sorprenda. Per il resto ha messo radici nel vecchio continente, vive a Roma e per tutti gli anni ’70 le sue ipnotiche delizie sonore si spargono da Helsinki a Parigi, da Budapest a Barcellona, da Praga a Bruxelles…   
Il filmato lo riprende in una delle numerose jam fatte in quel periodo per la televisione italiana.

 

 

E’ la fase finale dell’esperienza artistica di Tony Scott. Un lungo ventennio nel quale a doverose ‘rimpatriate’, spesso in festival jazz di secondo richiamo ma comunque di livello più che buono, ad una produzione musicale che, escludendo le ‘meditations’ che coprono il quadriennio ’84-’88, davvero poco aggiunge al contributo già più che ragguardevole dato alla musica mondiale, si contrappongono nuovi ‘esperimenti’, nuovi tentativi di fusione con arti e fascinazioni di diversa matrice. La pittura innanzitutto. Tanto che nel 1994 inizia una sua carriera ‘parallela’ di pittore o, come lui stesso si proclama, di ‘jazzpainter’; un musicista jazz che dipinge pittura jazz. “Gli piace dipingere grandi dimensioni, inspirato dal suo senso musicale e totalmente fuso con esso”, ricordava allora Cinzia Bastianon, aggiungendo “I suoi dipinti sorgono allo stesso modo in cui le sue foto o i suoi assoli jazz sono creati. Come un vento inaspettato che esplode durante uno spazio di rilassata concentrazione”. “Io apro il rubinetto… ho bisogno solamente di lasciar fluire l’acqua. Le mie pitture sono da udire, non da vedere!”, dice del suo lavoro lo stesso Scott.

 

 

Altra testimonianza di attività live negli anni ’90...

 

 

Esempio di video danza con la coreografa, e sua futura seconda moglie, Cinzia Bastianon.

 

 

Quando il vecchio leone ha oramai perso quasi tutti i denti, ecco che è anche buono per il circo impietoso del vaudeville italiota. Peggio di un Elvis a Las Vegas, che manteneva ancora pur nella sua grossolana meta-deificazione un accenno di ‘artisticità’. Molto peggio di un Buster Keaton in giro per il mondo in cerca di particine ‘alimentari’, di sfondi alieni dove il suo viso (quasi un fermo/immagine vivente) sfalsava la banalità della cinetica che lo circondava sul set. Tony diventa, nell’ultimo periodo della sua vita, un ‘fenomeno’ nel senso kantiano del termine; una mera apparenza tanto diversa dalla vera realtà. Un artista che, ad 80 e passa anni di vita stravissuta e sopravissuta sulle spalle, ha ovviamente dei seri problemi di ‘governo’ sulla musica e sullo strumento musicale. Un uomo invece che cerca di realizzare ancora delle cose; vorrebbe che tutto il suo lavoro immane (come musicista, come fotografo, come pittore, come viaggiatore), potesse essere non solo conservato ma messo a disposizione degli altri, della sensibilità e della curiosità degli altri. Un uomo che vuole riannodare qualche filo spezzato nei rapporti con le persone care. Un uomo che meriterebbe più che i palchi dove la band lo fa spazientire o lo mette a disagio (guardatevi come ‘giocano’ stupidamente con lui i solisti dell’orchestra nel programma di Paolo Bonolis!), un serio lavoro di esegesi e di riordino filologico oltre che un rispetto sincero e la più totale ammirazione. Ma tant’è…  

 

 

Sigillo questo mio intervento con un documento unico, eccezionale per il suo valore umano. Estate del ’71, Tony Scott è a Salemi in casa di amici. Attorno ad un tavolo si decide di dar vita ad un blues; nasce così “Bagnitelli blues” estemporanea dichiarazione d’amore per la campagna salemitana che è stato il luogo di partenza dei suoi genitori. Dopo quarant’anni, quelle foto sgranate e quella malferma registrazione audio ci regalano nuovamente ‘l’ambasciatore della musica’ per eccellenza, colui che seppe unire e svolgere magistralmente le trame dello swing e del bebop, forse il clarinettista più completo nella storia del jazz. Insomma, il più grande suono del mondo!

 

 

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Si ringraziano Cinzia Bastianon Scott e Ginni Angelo, senza il cui contributo ed aiuto non mi sarebbe stato possibile vergare quanto da me vergato…

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