Su “Buongiorno, Elefante”, 1952, incombe senza dubbio una gravosa spada di Damocle: l’essere uscito lo stesso anno di “Umberto D”, opera forse mai eguagliata dalla ditta De Sica - Zavattini per lirismo e maturità espressiva, ha infatti enormemente contribuito a decretarne anzitempo il semioblio, inducendo critici e analisti della settima arte a catalogare il film di Gianni Franciolini come una delle (innumerevoli) opere minori della nostra selva neorealista, prodotte in sordina e destinate allo sparuto recupero di un’isolata nicchia ipercinefila. Il film, che in origine doveva essere interpretato da Totò e diretto da Luigi Comencini, segue le vicende di Garetti, maestro elementare sposato e con quattro figli a carico, che si ritrova a far da Cicerone a un fantomatico principe indiano in visita a Roma. A complicare non poco la vicenda, la violenta irruzione sulla scena di un elefante, dono del sultano ai bambini del maestro. Opera curiosa, “Buongiorno, elefante!”. Pienamente conforme, verrebbe da dire, al calco stilistico di Zavattini, la cui scrittura, autentica spina dorsale di tutta la filmografia di De Sica, si contraddistingue come sempre per quella curiosa e inconfondibile vena “fumettistica”, trasognata, intrisa di elementi surreali. Lontano dal lirismo del finale di “Miracolo a Milano” e più vicino alle sfumature “rosa” del Neorealismo, Zavattini cuce addosso a De Sica un copione da mattatore, che gli consente di spaziare, gesticolare liberamente e capitalizzare con alterni risultati il suo ammiccante magnetismo. Ne viene fuori l’ennesima storia, tutt’altro che sgradevole, del e sul nostro dopoguerra, sempre in bilico tra realtà (appena pennellata) e snodi narrativi mirabili, giocosi, fantasiosi, funambolici. “Evasione” vera e propria, in un’epoca in cui gli echi e le scorie radioattive del secondo conflitto mondiale erano ancora tutt’altro che rarefatti, e spunti visivi che però restano puramente zavattiniani, vacui, secondo molti. Involuti, perfino. Ma “Buongiorno, elefante!”, al di là di ogni giudizio sulla qualità artistica complessiva (che in effetti stenta a decollare), è un’opera a suo modo interessante, specie se inserita in un percorso storico-evolutivo di stilemi e tematiche che, con un po’ di ardore, si potrebbero definire “prefelleniane”. Zavattini coglie infatti pienamente il gusto di quegli anni, indiscutibilmente proteso verso delle ambientazioni nebulose ed esotiche, e ricrea un’ atmosfera affine alla fascinazione da fotoromanzo de “Lo sceicco bianco”, opera prima di Fellini e guarda caso anch’essa del ’52. Se dunque “Buongiorno, elefante!” da un lato anticipa quegli elementi estremizzati ed involuti che saranno alla base del precoce declino della bonaria utopia neorealista a vantaggio di una commedia all’italiana più cinica e “materialista” (sei anni dopo sarà l’ora de “I soliti ignoti”), dall’altro si pone, in maniera quasi involontaria, come autentico film precursore di quei percorsi onirici "leggerini" sviluppati in seguito, a pieni polmoni e con più ambizioni. Da non sottovalutare infine il particolare occhio di riguardo di Zavattini per l’infanzia: un topos e una prospettiva ricorrente, sublimata ne “I bambini ci guardano” e ancor più in “Ladri in biciclette”. D’altro canto non potrebbe essere altrimenti per uno dei più grandi sceneggiatori-autori del nostro cinema quale Cesare Zavattini, nella cui vastissima galleria immaginifica trovano posto quasi esclusivamente personaggi fatti della stessa sostanza dei sogni. A patto che siano puri, s’intende, ed incontaminati.
Buon giorno, elefante! (1952)
di Gianni Franciolini con Vittorio De Sica, Maria Mercader, Sabù, Nando Bruno
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