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Attualità di Dino Risi

 

Parlando di Dino Risi oggi, con la crisi che il nostro Paese sta attraversando, si finisce spesso per parlare del presente, più che del passato, tale è l’attualità del suo cinema e indovinata l’analisi che egli faceva degli italiani. Scrittori e giornalisti come Longanesi, Montanelli e Prezzolini hanno espresso molto efficacemente per iscritto quello che Risi ha magistralmente mostrato per immagini. Non c’è bisogno di scomodare ponderosi trattati di sociologia, acute analisi di politologi, politici e sociologi. Forse è sufficiente analizzare la produzione cinematografica di Dino Risi (soprattutto quella che va fino alla metà degli anni ’60  e che personalmente ritengo la migliore) per capire di che pasta sono fatti gli italiani. 

 

La dote straordinaria di Risi è quella di raccontare vizi, virtù e difetti dell’italiano medio utilizzando l’arma sottile dell’ironia, il registro popolare, l’apparente analisi di grana grossa per esprimere opinioni che potrebbero suonare come superficiali, ma che rischiano invece, seriamente, di essere molto vicine al vero.

Il difetto maggiore e il rischio, in tanti registi della commedia all’italiana, è di semplificare troppo le cose, riducendo le analisi a pura farsa e quindi a una sostanziale mistificazione della realtà. Spesso si assiste al gusto per la comicità di bassa lega, per la banalizzazione dei veri problemi sociali. I protagonisti rappresentano tipologie eccessivamente caratterizzate e tendenti al grottesco. Questo mortifica l’acutezza e la serietà dell’analisi ma, probabilmente, risponde alla logica di mercato per cui certi messaggi “sociali” vengono digeriti meglio se propinati con il trucco della comicità crassa, di bassa lega, capace di dilettare le masse ignoranti, bacino formidabile per il botteghino.

Risi riesce a situarsi efficacemente in una zona di precario equilibrio fra il serio e il faceto, fra dramma e avanspettacolo, fra satira graffiante e farsa pecoreccia, fra ritratto psicologico e trite chiacchiere da bar sport.

Equilibrio precario perché anch’egli, a volte, e soprattutto a partire dagli anni’70, sembra aver smarrito la vena e il talento ed essersi arreso al disimpegno e al “mestiere”.

Errore grave sarebbe quello di studiare Risi come severo e austero analista sociale e politico. Risi resta, essenzialmente, regista di temi importanti ma trattati in modo “leggero”. Il tema dell’adulterio diventa quello delle “corna”, l’ambizione nobile diventa misero sotterfugio, la rispettabilità è troppo spesso ipocrisia, i valori spesso sono contenitori vuoti sostituiti da vanità, spirito truffaldino, miseria morale ecc.

L’attualità di Risi sta nel mettere a nudo i difetti di sempre dell’italiano e nel costruire ritratti psicologici plausibili, verosimili (anche spesso sbilanciati verso il tratto grottesco).

Rifuggendo dalla seriosità paludata (che lascia volentieri ai “professori”), trova il suo ambiente congeniale nella satira popolare e “cattiva”, dove si sottolineano volentieri i tic, le manchevolezze, le debolezze degli italiani. Quello che la carità cristiana imporrebbe di nascondere o sottacere, egli te lo sbatte in faccia, quasi oscenamente, condendolo con la fine ironia o l’acre sapore della verità nuda e cruda.

Davanti alla processione quotidiana di squallidi personaggi corruttori, corrotti, truffatori, che oggi affollano le nostre tv, capaci di mentire spudoratamente davanti all’evidenza, viene spontaneo pensare ai ritratti di Risi e domandarsi quale possa essere una base più adeguata di questa per un soggetto dei suoi.

 

 

Risi, come si è detto, non fa critica sociale e men che meno politica, almeno in modo diretto. Però i suoi personaggi sono inseriti in un contesto sociale ben definito con cui interagiscono continuamente (pensiamo a IL SORPASSO). A volte, tale contesto sembra apparentemente e/o volutamente sfuocato, ma i comportamenti dei personaggi rimandano a una società di cui tali comportamenti sono netta conseguenza, chiara derivazione (è il caso, tra gli altri, di L’OMBRELLONE). Il film che intendo trattare qui è forse quello più lontano da digressioni o accenni sociali, tanto è caratterizzato il suo protagonista, Walter Chiari.

Il fatto che soggetto e sceneggiatura siano opera di Castellano e Pipolo, notoriamente avulsi da un cinema d’impegno, potrebbe essere una risposta. Ma credo che a Risi interessasse il personaggio in sé, senza altre implicazioni che quelle propriamente legate alla sua sfera di relazioni.

La scelta di Walter Chiari, attore debordante, logorroico e vitalmente esplosivo, risponde ad un desiderio di tratteggiare un personaggio che non fa parte di un universo sociale preciso, ma è presente sotto ogni latitudine o periodo temporale. E’ un uomo psicologicamente immaturo, incapace di assumere impegni duraturi e responsabilità di qualsiasi genere. E’ insomma un “bambino” mai cresciuto. Ma, al tempo stesso, è dotato di grande generosità, di forte umanità e simpatia contagiosa. E’ uomo che seduce all’inizio per poi deludere immancabilmente.

Risi lo ricorda con parole di grande affetto: “Un caro ragazzo, anche quando era quasi vecchio. Amico di tutti, e amico veramente. Sempre innamorato di donne bellissime, le seduceva (uno dei segreti dei grandi seduttori) facendole ridere. Capace di lasciare un film per raggiungere la donna amata all’altro capo del mondo. Generoso (morì povero). Voleva che fosse scritto sulla sua tomba “Non preoccupatevi. E’ solo sonno arretrato”.Caro Walter. Parlava, parlava, parlava. Nella vita e sulla scena. E, a differenza di tanti che parlano, parlano, parlano, diceva anche delle cose intelligenti. Adesso sta lassù (o laggiù) nel girone dei comici (…).

 

Le caratteristiche dell’uomo Chiari si combinano alla perfezione con il suo personaggio. Forse per questo motivo, questa è la sua migliore interpretazione cinematografica (assieme a quella del simpatico truffaldino in BELLISSIMA).

 

UNA STORIA SEMPLICE E TRISTE

Il titolo è dato dalla giornata in cui Dino Versini (Walter Chari)potrà trascorrere col suo figlioletto Robertino, nato dall’unione con Elsa (Michèle Mercier) da cui è separato.

Da anni Dino e Robertino non si vedono. La madre ora vive più all’estero che in Italia e si è assicurata una posizione agiata. E’ fredda, scostante con il suo ex-marito e il modo in cui educa Robertino, affidandolo ad un’istitutrice oltremodo glaciale e severa, fa pensare che si tratti di donna calcolatrice, poco espansiva e amorevole.

Dino, nel frattempo, vive la sua vita nel solito modo, attraverso espedienti, impicci vari, senza mai decidersi a cercare un posto fisso né a stabilire una relazione affettiva seria con la sua ragazza.

L’entusiasmo però con cui si prepara a trascorrere con suo figlio la giornata fa intendere che il suo sentimento filiale è quanto mai autentico. Egli però affronta questo avvenimento come sempre ha fatto, atteggiandosi a ciò che non è, facendo credere di essere un’altra persona, millantando una posizione agiata, conoscenze in alto loco, un passato bellico eroico. Al tempo stesso, non riesce a contenere la sua irrefrenabile voglia di sentirsi protagonista, anche a dispetto delle regole impostegli riguardo agli orari e alla dieta che Robertino deve seguire.

Dopo una prima fase di diffidenza, Robertino è conquistato, sedotto (non è questa la dote principale di Dino/Walter?) dalla prorompente vitalità del padre che gli apre terreni inesplorati di vita quotidiana spensierata, di gioia di vivere, di entusiasmo ed energia vitali.

Poco a poco, avviene che Dino, cosciente di avere raccontato un sacco di bugie al figlio e consapevole dell’amore filiale sincero verso di lui, comprende che, anche a rischio di deluderlo, deve confessargli la verità e cioè quella, triste, della propria precarietà economica e psicologica. Questo passo è un primo gradino verso la maturità. D’altro canto, l’abitudine a vivere una vita grigia, fatta di divieti, regole e studio viene in qualche modo squarciata dall’esperienza breve ma intensa vissuta col padre. Da ragazzino divenuto anzitempo uomo, compie qualche passo all’indietro ( o avanti?), scoprendo un mondo diverso, fino ad allora sconosciuto ma e pieno di colori e forse più autentico.

Mentre la giornata volge alla fine, Dino si intristisce comprendendo che quei momenti gioiosi stanno per volgere al termine, che sta per perdere ancora una volta il suo figlioletto, che deve affrontare per l’ennesima volta la dura realtà, fatta di umiliazioni e fallimenti.

La serata però si conclude anche con una piccola (o grande) vittoria: è riuscito a conquistare, malgrado tutto, l’affetto del figlio. Il fischio con cui Robertino risponde a quello del padre è segnale che oggi suo padre, per una volta, ha vinto.

Il finale è quanto mai struggente: Elsa, la sua ragazza, con cui ha avuto in giornata, un alterco (dovuto all’indecisione sua di accettare un posto fisso e di conseguenza risposarsi)lo invita a cena a casa, disposta a perdonarlo. Mentre cala la sera, Dino si avvia verso la casa di Elsa salendo per una lunga scalinata, non disdegnando di far scoppiare dei mortaretti che ha comprato per giocarci col figlio. Le tristi note di SE LE COSE STANNO COSI’ cantate da Sergio Endrigo fanno da contrappunto alla scena. Dino, forse, comincia solo ora la dura scalata della vita (resa simbolicamente dalla gradinata), ma non rinuncia del tutto al suo animo ludico-infantile (il lancio dei mortaretti). Tutto però è reso un pochino meno insopportabile dal fatto che, questa sera, anch’egli qualcosa ha vinto.

 

UN FILM MINORE?

Questo film è considerato, in genere, un film minore, per il fatto forse di trattare in modo leggero un tema, per quei tempi, non molto sentito (Non esisteva ancora il divorzio e il fatto che per stare insieme, Dino ed Elsa si riferiscano all’annullamento del precedente matrimonio è elemento forzato). La relazione tra padre e figlio rifugge poi da qualsiasi compiacimento emotivo strappalacrime e la rende invece più vera e meno costruita. Ricordo che, un film tematicamente vicino, e cioè INCOMPRESO, di Luigi Comencini, uscito tre anni dopo, non riscosse un grande successo, mentre LOVE STORY, uscito sette anni più tardi, fu un record d’incassi. Il pubblico dimostrò di gradire le sensazioni forti (spinto anche dal battage pubblicitario) e di restare tiepido di fronte a film nostrani, diretti bene, ma privi di richiami divistici e scene “forti” (Chiari e la Mercier non erano stelle di prima grandezza).

In realtà credo che IL GIOVEDI’ non sia affatto un film minore, ma che si inserisca a pieno diritto nel novero dei migliori film di Risi per diversi motivi, del resto già segnalati.

Il primo è senza dubbio il taglio volutamente dimesso e sommesso, lontano tanto dalla roboante chiassosità spesso volgare della commedia italiana, quanto dalla moralistica descrizione di relazioni improprie, italianamente infarcita di luoghi comuni ed emozioni scontate.

Il secondo è la capacità di Risi, aiutato dalla prestazione tanto sopra le righe quanto indovinata di Walter, di trarre da una sceneggiatura non particolarmente brillante, un prodotto degno, decoroso e intelligente.

Il film è pervaso infine da un’aria malinconica  che dà il giusto spessore emotivo a una storia semplice e triste.

 

 

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