Arriva come una ventata di piacevolissima brezza autunnale l’annuncio che il film selezionato dall’Italia per concorrere agli Oscar 2013 è “Cesare deve morire” di Paolo e Vittorio Taviani, già vincitore dell’Orso d’Oro all’ultimo festival di Berlino e con all’attivo una serie di passaggi ai più importanti festival cinematografici del mondo, ultimo tra i quali, proprio in queste ore, il New York Film Festival. I fratelli, in volo proprio per la Grande Mela, hanno così commentato il bel risultato ottenuto, coronamento di un progetto sentitissimo e portato a termine con passione e coraggio: "Ci stiamo imbarcando per il festival di New York e la notizia che ci ha raggiunto è davvero un bel buon viaggio. I film che concorrevano erano film di autori importanti per il cinema italiano e non solo italiano. Comunque il gioco è appena cominciato."
Frasi che giustamente cavalcano un entusiasmo più che legittimo e suggeriscono un moto non indifferente di speranza per un cinema italiano che può sognare la nomination e ambire a quell’ingresso nella cinquina finale che manca dal 2003, quando l’impresa riuscì addirittura a “La bestia nel cuore” di Cristina Comencini. E la cosa positiva e coinvolgente è che quest’anno non stona crederci molto più del solito e che il tifo per il film scelto a rappresentare la nostra cinematografia nella notte delle stelle suona accorato e sentito come non avveniva da molti anni. Perché il film dei Taviani, parlando a chiare lettere, oltre ad essere un’opera di rara pregevolezza artistica è anche uno dei pochissimi capolavori cristallini gettati nella mischia a concorrere come miglior film straniero nelle fila dell’Italia da molto a tempo a questa parte. Gli altri due erano stati “Le chiavi di casa” (2005) di Gianni Amelio e il film dall’importanza più colossale nel cinema italiano contemporaneo per estetica, sostanza e radicalità del linguaggio e della sintassi: stiamo parlando, naturalmente, di “Gomorra” (2008). Ragion per cui la scelta effettuata dall’apposita commissione di selezione dell'Anica (composta da Angelo Barbagallo, Nicola Borrelli, Francesco Bruni, Martha Capello, Fulvio Lucisano, Paolo Mereghetti, Piera Detassis, Valerio De Paolis e Nicola Giuliano) è anzitutto un graditissimo ritorno a degli standard qualitativi elevati, a un’idea di cinema come ricerca stimolante e ardimentosa e non come statica accomodatura su modalità espressive più che stantie (vedi un film come “Terraferma” di Crialese, opzionato l’anno scorso). Perché, diciamocelo, non è che nelle passate stagioni sia stato selezionato sempre il meglio del meglio in senso assoluto. Spesso e volentieri si è scelto, o si è tentato di scegliere, magari anche con le più nobili intenzioni, il film che avesse un numero maggiore e più oggettivo di speranze sul mercato internazionale finendo con l’operare non di rado delle scelte miopi quando non obnubilanti e col lasciare a casa non di rado opere ben più meritevoli. Due sole nomination in oltre quindici anni, anche se una delle due coronata con tre Oscar e una pioggia spropositata di consensi internazionali, sono in fondo un bottino abbastanza povero. Ma è ovviamente una forzatura abbastanza pretestuosa tentare di estrapolare dalla lista di film selezionati di anno in anno un quadro estremamente riassuntivo di ciò che il nostro cinema ha espresso da “La vita è bella” in poi. Ai limiti estremi del retorico, a volerci andare morbidi. Lasciando pertanto da parte ogni rancoroso sguardo al passato, quest’anno il vento sembra essere fortunatamente cambiato. E allora, in barba a quella sciatteria critica che considera il film dei Taviani una specie di "non film" (...), questa scelta raggiunta alla pressochè totale unanimità (8 a 1 il confronto col concorrente più accreditato, "Reality" di Matteo Garrone, in uscita in sala dopodomani) è un primo tributo per ora esclusivamente provinciale (per usare un termine che di questi tempi va moltissimo di moda) a un’opera eccezionale, che mischia arte e vita in un bianco e nero vivido e livido al contempo, a una straziante ricollocazione del dramma classico shakespiriano in un contesto carcerario estremo e saturo di passioni forti. Ci sono Cesare, Bruto, Cassio e comprimari tutt’altro che irrilevanti, ci sono i corpi dei detenuti dell’ala di massima sicurezza e le loro inequivocabili esperienze di vite dilapidate scolpite in ogni prostrazione attoriale (non professionista, ricordiamolo) del gesto e della fisicità, in ogni ruga o crepa dello sguardo. Un cinema neoespressista che riscopre il chiarore a suo modo luminoso e catartico del dramma consumato prima in penombra e poi a colori, in un cortocircuito di possente bellezza. Metacinema d’ascendenza teatrale, lezione naturalistica di recitazione, incessante battito emozionale e, soprattutto, universale. Appuntamento pertanto al 10 Gennaio, data in cui, quest'anno in considerevole anticipo rispetto alla cerimonia di consegna delle statuette al Kodak Theatre (24 Febbraio), verrano annunciate le nomination. Per i fratelli di San Miniato tanti "agguerriti" avversari (Haneke che dopo la delusione de "Il nastro bianco" è di nuovo alla caccia di quell'Oscar che ancora gli manca, "Sister" di Ursula Meier, l'israeliano "Fill the Void" e poi Mungiu, Kim Ki-duk, il fenomeno francese "Quasi amici"), ma anche delle splendide premesse e i migliori auspici (la promozione americana di "Caesar must die" d'altronde è già iniziata...). Sperando che bastino.
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