Nonostante per la prima proiezione internazionale di Pietà di Kim Ki-duk si debba attendere il Festival di Venezia, nei giorni scorsi il regista in compagnia degli attori Lee Jeong-jin e Jo Min-soo ha parlato del film con la stampa coreana. Atteso in patria il 29 agosto e in uscita (miracolosa, quasi) in Italia il 14 settembre con la distribuzione di Good Films, Pietà rappresenta il ritorno di Kim Ki-duk al cinema mainstream dopo il doloroso documentario Arirang e l'esperimento Amen, ritirato dal mercato per sua precisa volontà.
Presentato nella sede del santuario della cattedrale anglicana di Seoul, il film si preannuncia fonte di discussioni e polemiche per come nella storia vengono intrecciate religione e sessualità (qualche giorno fa, un sito di quelli "apprezzabili" - non conoscendo a fondo la trama del film e, soprattutto, lo spiazzante finale - parlava di un'opera incentrata sulla crisi economica... macché, quello è il punto di partenza ma non quello di arrivo).
Pietà, il cui titolo è un omaggio espliciti alla scultura di Michelangelo (come si evince anche dalla locandina originale), rappresenta per il regista «un'occasione per aprirsi di più al pubblico e cominciare a vivere in maniera più dolce rispetto al passato», dopo che l'anno scorso a Cannes [dove presentava Arirang] ha trascorso il tempo evitando i giornalisti e declinando le interviste.
«Sotto il titolo del film, una scritta recita "Abbi pietà di noi". Ho scelto "Pietà" nella speranza di vedere un po' di pietà per gli esseri umani, compreso me stesso. Cose come i soldi e la fama sono causa dell'ostilità nei rapporti umani. In piccola scala, si traducono in una lotta con il prossimo. In larga scala, invece, diventano sinonimo di guerra. In un certo senso, tutti noi che stiamo vivendo questo momento abbiamo bisogno di cercare la misericordia di Dio».
L'attore Lee Jeong-jin interpreta il disturbante Kan-do, rapinatore e scagnozzo al libro paga di un usuraio ma dal passato familiare che lo rende infatile e debole. Kan-do incontra una donna che sostiene di essere sua madre. Dopo che lei si scusa per averlo abbandonato, tra i due nasce un anomalo rapporto che porta ad una conclusione inaspettata quando lei sparisce misteriosamente, lasciando presagire di essere vittima di un rapimento e aprendo un finale in cui si intrecciano i concetti di vendetta, grazia e perdono. Non vi svelo come continua la trama per non rovinare la sorpresa a nessuno ma ci attende un finale pieno di sangue in cui l'istinto materno predomina su ogni altro aspetto. Com'è facile intuire, Min-su non è affatto la madre di Kan-do ma è arrivata da lui con ben altri propositi.
Sul suo ruolo, Lee ha dichiarato: «Chiunque venga al mondo è amato dai genitori e dai fratelli e vive una vita confortevole. Kan-do, invece, nei suoi trent'anni di vita non ha mai conosciuto l'amore e, il giorno in cui la presunta madre si presenta in scena, sperimenta in una forma distorta il riemergere dei ricordi dolorosi legati alla sua crescita».
La pellicola, a quanto pare, include tanti di quei riferimenti simbolici cristiani e di elementi dal contenuto altamente sessuale da essersi beccata in Corea il divieto ai minori di 19 anni. Su questo rischioso mix di sacro e profano, Kim Ki-duk così si esprime: «religione, sesso, politica, filosofia e scienza sono tutti elementi della natura umana ed io non ho voluto porre alcun limite nel trattarli.
La religione è strettamente connessa agli umani e penso che debba essere espressa attraverso l'amore. Il sesso, in un certo senso, è una sorta di preghiera».
La stessa Jo Min-soo non ha fatto mistero di essersi trovata più volte a disagio nel vedere i film passati di Kim Ki-duk e di aver accettato la parte dopo aver incontrato il regista e aver il giorno dopo letto tutta d'un fiato la sceneggiatura.
A Venezia sapremo se ha fatto bene o meno.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta