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Roberta Torre - Intervista Esclusiva per CineRepublic
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Roberta Torre, milanese di nascita e palermitana d’adozione, al cinema internazionale deve essere proprio abituata. Dopo esser stata presente negli anni scorsi nei festival di mezzo mondo (da Venezia a Cannes), il suo ultimo filmI baci mai dati sarà presentato in concorso al prossimo Sundance Film Festival (il 21 gennaio la prima proiezione) nella sezione competitiva “Film drammatici da tutto il mondo” (World Cinema Dramatic Competition). 

 

“Lost Kisses” (titolo internazionale dell’opera) è l’unica produzione italiana nel cartellone del festival, che si svolgerà nella consueta sede di Park City, nello Utah, dal 20 al 31 gennaio 2011. Applaudito a Venezia 2010, il film si prepara così ad esser mostrato anche oltreoceano, aprendosi la strada a un mercato sempre più grande: un’occasione più unica che rara per un film a basso budget, che sarà nelle nostre sale a partire dal prossimo 25 marzo.

 

Ed è grazie a questa notizia e ad una serie di fattori casuali (che potete leggere qui) che nasce quest’intervista, frutto del lavoro collettivo degli utenti di “Film Tv” e arricchita da contributi personali nati da uno scambio di messaggi privati con altre piattaforme, come la pagina Facebook di “Film Tv”.

 

La regista non si è risparmiata nelle risposte, ha spaziato dall’ultimo film ai precedenti, anticipando anche i suoi prossimi impegni sia cinematografici che teatrali, senza tralasciare le sue opinioni sull’attuale situazione cinematografica italiana e prestandosi anche alle domande più ironiche o non strettamente connesse alla sua sfera lavorativa.

 

 

 

 INTERVISTA:

 

 

 Il tema del suo ultimo film, “I baci mai dati” è inerente al bisogno disperato di credere in qualcosa nella società attuale ma anche alla facile speculazione dell’inganno sulle debolezze e sull’ingenuità altrui. C’è un’eco in questo film dell’ “Ora di religione” di Bellocchio o c’è un’altra idea di fondo che ha dato lo spunto alla nascita di questa storia?

 

In realtà ho molto apprezzato il film di Bellocchio, “L’ora di religione”, è un autore che amo profondamente, ma non ho pensato al suo film quando ho iniziato a lavorare ai “Baci mai dati”. L’idea è nata da un mio racconto , la storia di questa ragazzina che si inventa di parlare con la Madonna, una sorta di reminiscenza di  “Bernadette” versione truffaldina. Bernadette, la ragazza che vede la Madonna, è uno dei personaggi che  fin da bambina mi ha colpito di più.

 

 

Ha già spiegato in più occasioni la scelta di Librino [periferia catanese, sfondo della storia de “I baci mai dati”] con parole molto evocative. Come persona, attenta alle persone, le chiedo il perché secondo lei nel sud la religione e la superstizione hanno tanto peso? Perché c'è l'attesa del miracolo, dell'apparizione, più che in altre realtà del paese? ? in qualche modo in questo che si può ravvisare "il segreto di una città”?

 

Il Sud è da sempre ricco di religione e religiosità, e dunque il rapporto con il miracolo e il miracoloso più ricco che altrove. Faccia parte di una propensione fatalista o invece di un reale sentimento religioso questo è difficile dirlo. Nelle richieste di miracoli che ho raccolto però era evidenziato soprattutto il rapporto con il reale. Ho fatto una lunga preparazione per il film in cui ho voluto far parlare dei veri miracoli che avrebbero potuto chiedere gli abitanti di Librino e la maggior parte di loro mi chiedeva una cosa sola: un lavoro.

 

 

 

Quanto facilita il lavoro del regista lavorare più volte con gli stessi attori (nel suo caso ci sono Lo Cascio e la Finocchiaro con la quale ha già girato due film) e quanto spazio lascia alla libertà interpretativa degli attori? 

 

In genere io non lavoro con gli stessi attori. Lo Cascio ha fatto con me solo un film, “Mare Nero”. Lavoro spesso con Donatella Finocchiaro, da “Angela” in poi, perché mi trovo molto bene con lei e tra noi c’è una sorta di comprensione irrazionale che rende tutto più facile. È molto faticoso spiegare le cose, razionalizzare toglie spesso alla creatività la sua energia primaria. Con lei invece questa energia si mantiene intatta e possiamo lavorare su altre strade. Lei dà molto ai personaggi che inventiamo , diciamo che è un lavoro davvero fatto in due.

 

 

Ne “I baci mai dati” ha lavorato con Piera degli Esposti: collaborare con un’attrice esperta e affermata quali possibilità di crescita personale, oltre che lavorativa, le ha dato? 

 

Piera viene da un percorso molto diverso dal mio, ma è un’attrice di grande istinto e intuito oltre che di grande tecnica. Ci siamo reciprocamente trovate e come in ogni bell’incontro ci siamo date entrambe qualcosa. Lei ha assecondato la mia immaginazione facendo suo un personaggio particolare e difficile, Viola, questa parrucchiera/fattucchiera che predice il futuro e pontifica sulle sorti della nazione, mentre io l’ho seguita disegnandole addosso un ruolo che lei sentisse il più suo possibile. Devo dire che Piera ha però una sorta di magia che non avevo mai incontrato, una capacità di ipnotizzarti qualsiasi cosa dica.

 

 

 

Il cast è ricco di nomi e volti nuovi, molti della realtà catanese. Sembrano tutti promettenti ma se dovesse fare una scommessa, su chi la farebbe? Chi l'ha colpita particolarmente e perché? 

 

In questo film c’è un cast ricco di attori giovani che ho trovato facendo centinaia di provini, come piace a me nei posti più disparati. Ho voluto dare a Donatella Finocchiaro la possibilità di esordire in un ruolo comico perché dopo “Angela” non ce la facevo più a vederla interpretare ruoli di donna siciliana vestita di nero, così conoscendo la sua attitudine al comico abbiamo pensato di costruire un personaggio esuberante come Rita, la madre della giovane visionaria che dice di parlare con la Madonna.

La giovane protagonista, Carla Marchese, è senz’altro una bella promessa per il cinema. Ha un viso e uno sguardo particolarissimo e in questo film ha davvero imparato molto, pur partendo da zero. Se avrà le occasioni giuste e saprà sceglierle, potrebbe essere un nome che si sentirà spesso. Ma potrebbe anche decidere di fare altro. È così giovane, difficile dirlo.

Tra i più giovani attori interessanti sono il giovane Alessio Vassallo e Martina Galletta mentre tra i nomi già noti ma in una veste totalmente inedita spicca la comica Lucia Sardo, davvero una forza dirompente che a Venezia e nelle successive proiezioni si è conquistata applausi a scena aperta.

 

 

 

So che ha cambiato in corsa parte del cast tecnico-artistico: montatore e musicista, se non mi sbaglio. Ci può spiegare questa scelta? Cosa significa inoltre rimettere mano a un lavoro in corso d'opera? Che difficoltà comporta?

 

Capita spesso, nel corso di una lavorazione lunga com’è quella di un film, di trovarsi a sperimentare strade diverse, anche con i collaboratori. La storia del cinema è piena di questi esempi. Io ho avuto la fortuna di lavorare con personalità molto forti e con bravissimi artisti in vari settori, in particolare nella scelta dei musicisti sono molto esigente ed è anche stato facile perché ho avuto accanto a me nomi come Andrea Guerra, Shigeru Umebayashj, Pacifico, etc etc. Nel caso dell’ultimo film sono stata poi premiata nel trovare dopo molte ricerche  i musicisti che hanno fatto la colonna sonora, Federico di Giambattista e Andrea Fabiani, che erano all’inizio della loro esperienza come musicisti per il cinema ma hanno fatto un ottimo lavoro. Certo è sempre più complicato cambiare i collaboratori in corsa, ma è anche vero che non riesco ad  accontentarmi di un risultato se non ne sono è pienamente convinta.

 

 

Come mai dopo aver fatto due commedie musicali e aver aperto un nuovo genere in Italia (non ricordo nulla di simile prima di “Tano da morire”) si è diretta verso territori più drammatici? 

 

Dopo “Tano Da Morire” e “Sud Side Stori” c’è stato “Angela”, era una storia che ho voluto raccontare ed è stato uno dei miei film che ho amato di più. Non credo che si possano sempre fare film dello stesso genere. Ma, nonostante questo, il mio film in uscita a marzo, “I baci mai dati”, è una commedia , anche se non musicale. Il musical resta la mia grande passione e credo che primo o poi, quando troverò la storia giusta, ci tornerò. È un genere che mi spinge a giocare con il linguaggio cinematografico, a invenzioni fuori dal comune e unisce le mie due grandi passioni, la musica e il cinema. Oltre a questo mi dà la possibilità di fare una cosa che rappresenta il massimo: unire la spettacolarità a una storia importante.

 

 

Quanto è difficile ora in Italia fare un film che non abbia l’assillo dell’incasso? 

 

Io credo che chiunque faccia un film desideri che sia visto. Sono dell’idea che il cinema non sia un’arte d’élite. Mentre altre forme d’arte hanno costi minimi o comunque limitati, il cinema non li può avere, il cinema costa, è la sua natura. Dunque è naturale che debba incassare e sarebbe sbagliato credere il contrario. Detto questo, oggi si possono anche fare film a costi molto più bassi di un tempo, le nuove tecnologie ci hanno portato a forme di cinema a costi molto più limitati. Però è vero che anche a me è capitato di recente, con il mio ultimo film, di trovarmi a scegliere tra pellicola 35mm e digitale e quando ho visto i provini in proiezione la differenza visiva e quindi estetica e quindi emotiva era tanta, da indurmi a scegliere sempre la pellicola. E quindi a dover spendere di più.

Io, in verità, ho fatto film a costi molto limitati, fin dal mio primo “Tano da Morire”, che era in fondo un film “di cartone”, fatto con attori non professionisti e con scenografie inventate. Non può essere sempre così però. Ci sono film che nascono come film a basso costo e storie che hanno necessariamente la necessità di grandi budget, altrimenti non le puoi raccontare. Tornatore potrebbe spiegarlo meglio di me.

In generale, quindi, quello dell’incasso non è un assillo ma in primis un desiderio e una necessità. Ora ci sono anche molte altre strade oltre la sala per recuperare i costi, cioè i passaggi televisivi, l’homevideo e altre ancora. Quello che però resta un mistero è come mai in Italia ci sono autori che spendono sempre una quantità spropositata, non incassano nulla che rappresenti se non la metà del budget di produzione e continuano comunque tranquillamente a fare film con budget ultramilionari, non ponendosi minimamente il dubbio che delle due l’una: o abbassano le pretese o fanno film che incassano. 

 

 

Qual è secondo lei la più grossa difficoltà nel fare film oggi?  

 

La più grossa difficoltà del fare cinema oggi in Italia e mi ricollego alla domanda precedente è che l’ Italia  è il Paese dell’ “A chi appartieni”, un gioco molto in voga. Questo gioco consiste nel fatto che “se tu appartieni a Questo o a Quello avrai quello che chiedi”, viceversa ti verranno concessi pochi spiccioli. Questo vale in ogni campo, nel cinema non è differente. Solo che qui c’è un fattore importante, che altrove si chiama Merito, Professionalità, Competenza e nell’arte si definisce meglio come Talento, Creatività, Genio, talvolta. Ebbene oggi poco importa se tu scrivi Guerra e Pace o le Pagine Gialle, perché tutto dipende dalla variabile dell’ “A chi appartieni”.  A parte questo va tutto bene.

 

 

 

Di che salute gode la Rosettafilm, la società di produzione da lei fondata? Considerando il successo internazionale dei suoi lavori ha mai pensato di guardare oltre i confini nazionali? 

 

La mia società, la Rosettafilm, gode di buona salute, compatibilmente con la difficoltà di gestire in autonomia tutto quello che significa produrre oggi in Italia. Quando ho iniziato questa attività, l’ho fatto pensando di voler produrre principalmente giovani autori e poter dare il mio contributo a chi vuole fare cinema in modo nuovo, diverso, creativo.

In futuro credo che mi assocerò con altri su progetti che abbiano queste caratteristiche. I miei film hanno sempre avuto poi molta attenzione internazionale. Credo molto in questa possibilità di finanziamento, cercando fondi fuori dall’Italia, anche se non riuscirei ad andarmene per lavorare visto che le mie radici sono totalmente italiane. Credo però che all’estero ci sia molta più attenzione al talento, al merito e alla professionalità.

 

 

 

Con Monicelli se ne è andato l’ultimo padre della commedia all’italiana. In un panorama cinematografico italiano come quello odierno quanto è rintracciabile l’insegnamento dei grandi maestri? 

 

Io credo che la generazione degli autori tra i 40 e i 50 anni in Italia si sia trovata a saltare un giro. Nel tentativo di non dipendere da padri ingombranti, che erano stati dei Maestri riconosciuti in tutto il mondo e che il mondo ci aveva riconosciuto come tali, i Fellini, Pasolini, Antonioni, Rossellini, De Sica e molti altri che hanno davvero fatto grande il nostro cinema, quelli della generazione successiva sono rimasti sempre figli senza diventare mai padri. E questo vuol dire non poter indicare poi una strada a quelli che verranno. E difatti uno dei problemi del nostro cinema è anche quello che, tranne rari casi spesso felici, è un cinema vecchio, per età, per sistemi produttivi, per tematiche e soprattutto per linguaggio, dove, come in molti altri settori dell’industria italiana, c’è poco spazio per i giovani in tutti i sensi. Soprattutto non c’è nessuna preoccupazione di ascoltare quello che hanno da dire.

In Italia un cosiddetto giovane regista ha dai 40 ai 50 anni, e questo è evidentemente impossibile da tollerare. Federico Fellini aveva 40 anni quando fece “La Dolce Vita” ed era al massimo del suo successo, precedentemente però aveva già sfornato dei capolavori  come “La strada”, “Il bidone”, “Le notti di Cabiria”, “I vitelloni”, co-firmato due o tre sceneggiature da Oscar come “Roma Città Aperta” e insomma, mi fermo qui. Mi pare che i fatti si commentino da soli. Certo, erano altri anni, era un’altra Italia. Ma la vita di un uomo, di un artista, deve giungere alla maturità negli anni in cui la maturità è effettiva, non definirsi giovane a 50 anni perché questo vuol dire che c’è qualcosa che non va. Invece da noi ci sono autori che a sessanta/settant’anni pretendono di avere ancora i sostegni dello Stato e impazziscono se non gli vengono attribuiti o piangono se i Festival non li selezionano, come se fosse doveroso farlo. D’altra parte, se poi i nostri film non riescono perlopiù a varcare le frontiere di casa nostra, si grida allo scandalo, al complotto. La verità è che ci vorrebbe una lucidità maggiore da parte di chi opera in questo settore e meno autoreferenzialità. E ci vorrebbe attenzione per  una legge sul cinema  che favorisse davvero autori e produttori giovani.

 

 

Chi tra i registi esordienti di oggi vorrebbe tenere sott’occhio? 

 

L’altra sera ho visto il film di Valerio Mieli, “Dieci Inverni”, che ho trovato delizioso, ho visto un regista con una bella capacità di raccontare, delicatezza, sensibilità, intelligenza. Mi è piaciuto il film di Michelangelo Frammartino, “Le quattro volte”, particolare. Mi piacciono molto anche Pippo Mezzapesa e Pietro Marcello. Ma guardo con interesse tutti i giovani film-maker, cercando di capire con chi mi piacerebbe lavorare e chi mi piacerebbe produrre.

 

 

 

 

Il film che l'ha rivelata (mi riferisco a “Tano da morire”), seppure accattivante anche cinematograficamente parlando, aveva un'impronta e un approccio più di stampo "teatrale" (mi riferisco allo stile della messa in scena). Il suo linguaggio cinematografico si è comunque lentamente affinato, diventando autonomo ed ha trovato in "Angela" il suo prodotto più maturo e importante. Nonostante le qualità di contenuto e di forma però il film non ha fatto centro, commercialmente parlando. Come si spiega l'immatura reazione di un pubblico che lo ha praticamente (e ingiustamente)  snobbato? ? per questo e per le negative accoglienze critiche riservate al successivo “Mare Nero” che sta tentando di rientrare con un film che mi sembra più vicino alle tematiche degli esordi che non alla densa drammaticità di quella sua matura opera [“Angela”] che a me, francamente, aveva fatto sperare in un percorso di tutt'altra natura?  

 

In realtà, a differenza di quanto lei afferma, “Angela” è stato un film che mi ha dato grandi soddisfazioni ed è innegabilmente un film che ha avuto un bel successo, sicuramente di critica, poi di pubblico, anche se in modo più lento e diluito nel tempo, e infine un grande riconoscimento all’estero, dopo essere stato accolto molto bene al Festival di  Cannes  e avere avuto un percorso internazionale molto ricco: vincitore di molti premi in vari Festival, tra cui Tokyo, ha partecipato al Sundance Festival ed è stato distribuito in Inghilterra, in Spagna e in America. Quindi io lo trovo un film che ha fatto il suo percorso in modo più che felice.

I baci mai dati” è una commedia, non saprei dire quanto ci sia stilisticamente dei miei passati film… certamente come tutti i miei film nasce dal desiderio di raccontare una storia . Spesso si tende a catalogare i registi in base a un cliché o a una propria aspettativa di genere, mentre credo che si dovrebbero vedere i film per quello che sono e semplicemente dire: “mi piace, non mi piace”. Ogni spettatore porta con sé al cinema la propria cultura, la propria sensibilità e quindi è portato a giudicare secondo parametri diversi.

 

 

 

Nel suo lavoro quali sono i giudizi che teme di più? Pubblico o critica? 

 

Il pubblico sicuramente mi interessa moltissimo, mi dà gioia sentire gli applausi e viceversa quando è capitato di sentire che un mio film non fosse accolto bene dal pubblico ne ho sofferto. Ho avuto la fortuna di vivere  entrambe le esperienze e in modo eclatante, perché con “Tano da Morire” e “Angela” è stato bellissimo vedere l’entusiasmo del pubblico dopo le proiezioni al Festival di Venezia e a Cannes, ricordo emozioni fortissime.

Con “Mare Nero” ho vissuto invece l’emozione opposta: una platea sterminata a Locarno perlopiù fischi, pochissimi applausi. Devo dire che è stata una forte emozione anche quella. Con “I baci mai dati” a Venezia quest’anno sono tornati gli applausi in Sala Grande e ho rivissuto la gioia ma con un’altra consapevolezza.

I critici italiani mi interessano meno, hanno spesso preso il vizio di demolire o osannare per una sorta di  partito preso. Ce ne  sono due o tre che leggo e che trovo intellettualmente interessanti, gli altri perlopiù ideologici e perciò noiosi.

 

 

 

In “Sud Side Stori” recita amichevolmente Gregorio Napoli, uno dei pionieri della critica cinematografica italiana, scomparso proprio l’aprile di quest’anno. Può darci un suo ricordo di lui? 

 

Gregorio Napoli: animo da signore e uomo con una  sterminata passione per il cinema senza riserve. Amava il cinema quasi quanto le donne, mi piace ricordarlo così e so che anche a lui piacerebbe.

 

 

 

 

A chi sostiene che Roberta Torre è femminista cosa risponde?  

 

Non sono femminista, mi ritrovo invece pienamente nel femminile, cioè  in tutto quello che è della donna, sia esteticamente che interiormente. Mi piace raccontare le donne perché lo faccio in modo naturale istintivo, non dall’esterno ma dall’interno, come donna appunto. In questo decisamente preferisco le donne.

 

 

Quali registe ammira di più e che cosa ne pensa di Alina Marazzi, una regista non marginale ma “emarginata”? 

 

Sicuramente Jane Campion mi piace molto per la sua capacità di raccontare storie di donne estreme con una grande sensibilità cinematografica.

Un’autrice italiana che ammiro è Antonietta De Lillo, anche in questo caso una sensibilità particolare, originale, mai scontata.

Mi piacciono tra le donne, come tra gli uomini, quegli autori che rischiano, per temi e per linguaggio, che mi fanno capire che nel loro lavoro c’è una ricerca, un desiderio di non appiattirsi su strade già viste.

Conosco bene il lavoro e i film di Alina Marazzi e mi piace, in lei ritrovo una sorta di rigore milanese elegante , un pudore nell’affrontare temi delicatissimi che trovo straordinario. Non credo che sia davvero “emarginata” come la definisce. Io credo che sia per molti una scelta quella di rimanere lontani dal guazzabuglio di certo cinema che si fa in Italia.

Un artista, un autore ha la necessità spesso di nutrire la sua creatività assecondando tempi e metodi che gli sono propri senza cadere nelle sgrinfie di produttori e sistemi troppo standardizzati. In Italia la cosa che si sente dire spesso, e io l’ho sentita a tal punto da scegliere di produrre autonomamente i miei film , è “si fa così”, come se ci fosse un modo unico e assodato di fare cinema, un'unica possibilità di lavorare, sempre gli stessi attori da scegliere perché a detta di Rai o di altri “funzionano” quando in realtà nessun attore in Italia è davvero in grado di garantire un successo economico al botteghino, se si escludono i comici, che rappresentano una categoria a parte.

Alcuni, quindi, preferiscono lavorare assecondando il loro metodo e non sottomettendosi a priori a regole imposte da chi ha un potere forte. Certo questo comporta anche notevoli rinunce e in qualche modo una non riconoscibilità da parte di chi conduce i giochi che non ammetterà mai il valore delle opere e dei film fatti al di fuori del loro “imprimatur”. Ma non dirà neppure il contrario. L’ipocrisia regna sovrana.

 

 

 

 

 

Ho letto che sta lavorando al prossimo film, “Rose e matematica”, un progetto su Pier Luigi Torre, inventore della Lambretta. Mi piacerebbe saperne di più. 

 

Rose e matematica” assolve soprattutto un debito con la mia memoria e con quella della mia famiglia. Ogni volta che sentivo ripetere il nome di mio nonno, Pier Luigi Torre, il papà della Lambretta, il progettista dei primi aerei da trasvolata atlantica, l’inventore della scatola nera, la sua figura si allontanava da me e si rintanava in un piccolo mondo fiabesco. Non era più reale e lui diventava un gigante altissimo inarrivabile o un puntino lontanissimo, inafferrabile. Mi son chiesta tante volte come raccontare questa storia: attraverso un documentario o un film di montaggio, ho pensato in un primo momento. Ho raccolto materiali, documenti, progetti, foto. Ma alla fine sono arrivata alla soluzione che cercavo. La chiave stava proprio nella favola. Un film di finzione che restituisse l’aura di eccezionalità che la sua vita ha avuto, dall’inizio alla fine.

 

Rose e matematica” racchiude un altro elemento di racconto importante. Quella di Pier Luigi Torre è, al contempo, la storia d’Italia dal fascismo smanioso di grandi imprese, agli anni Sessanta e al boom di una nazione che ha archiviato la guerra e si lascia adesso guidare dai capitani d’industria. Fino ad arrivare alla vigilia degli anni Settanta e della contestazione nelle Università (Torre ha insegnato, negli ultimi anni di attività, al Politecnico di Milano). Il ragazzo che emigra dal Gargano a Milano per studiare Ingegneria, che consegna il suo nome alla storia dell’Aeronautica e poi a quello dell’industria italiana della ripresa disegnando una motoretta che è un simbolo (anche nell’eterna rivalità con la Vespa), è un personaggio imponente da scoprire, passo dopo passo, decennio dopo decennio.

Perché è portatore di un sogno che nelle sue mani si moltiplica e si fa straordinario. La favola bella che noi tutti abbiamo almeno una volta pensato per le nostre vite.

Al momento il film è in fase di scrittura della sceneggiatura e sarà una co-produzione tra la Rosettafilm e altre due società di produzione italiane, l’idea è quella di farne una miniserie in due puntate e successivamente un film per cinema.

 

 

 

 

Lei si appresta anche a mettere in scena sulle assi di un palcoscenico una riduzione teatrale da "La Ciociara"[debutterà il prossimo 15 gennaio al Teatro Bellini di Napoli]. Non le nascondo al riguardo una mia certa perplessità, sono sempre un po’ scettico di fronte a operazioni di questo genere, che mi sembra più un'occasione per valorizzare un’ attrice che per riuscire a dare una adeguata interpretazione di un romanzo composito come quello di Moravia già fortemente “edulcorato" con la riduzione cinematografica di De Sica/Loren. A che cosa si è riferita principalmente? Alla sceneggiatura del film o al romanzo vero e proprio? E, se come spero vivamente è al secondo che fa riferimento, oltre allo stupro, che immagino sarà in ogni caso elemento centrale della rappresentazione, quali sono le altre tematiche fra le tante messe a fuoco da Moravia che ha inteso privilegiare?

 

Lo spettacolo teatrale di cui sto curando la regia, “La Ciociara”, non parte dal testo di Moravia, bensì da quello di Annibale Ruccello, drammaturgo napoletano prematuramente scomparso all’età di 30 anni, grande talento teatrale, scrittore direi quasi profetico, più vicino per la lucida analisi dei suoi testi a un Pasolini che a un Moravia. Il racconto, dunque, non prende vita durante la guerra ma ha un antefatto che lo stravolge totalmente. Cesira e Rosetta sono già nel dopoguerra, in particolare negli anni 60. Madre e figlia, dopo la violenza traumatica che ha stravolto le loro vite, non solo sono sopravvissute ma hanno operato una forma di rimozione totale di quanto successo e si sono tramutate in piccole borghesi legate perlopiù alle piccole cose della realtà quotidiana. La guerra e la violenza riaffiorano in loro come un ricordo, come fantasmi. Questo, direi, è un testo sui fantasmi della guerra e su quello che resta delle due donne, Cesira e Rosetta, anch’esse piuttosto evanescenti. È uno spettacolo sulla rimozione e sull’annullamento di un trauma e sulle conseguenze di questo. Lo trovo molto attuale e molto contemporaneo.  Chi lo vedrà lo affronterà partendo dalla visione di quanto c’è realmente rappresentato e non facendo raffronti con il film né con il romanzo, anche se il prologo che contestualizzerà il dopo sarà piuttosto esplicito.

 

IN ESCLUSIVA UNA PROVA DI SCENA DE "LA CIOCIARA" CHE LA REGISTA STA PREPARANDO IN TEATRO


 

 

 

La Sicilia come scelta di vita e d’arte. Da Milano lei si trasferiva vent’anni fa a Palermo e la Sicilia è rimasta il mondo privilegiato dei suoi film. Ce ne restituisce un’immagine intensa, importante per capire quella realtà. Vorrei sentire direttamente da lei le prime suggestioni, ciò che ricorda dell’impatto con quella terra che inevitabilmente (parlo per esperienza personale) costringe a tornare e tornare e non finisce mai di dire quello che ha da dire. Cosa l’ha convinta a rimanere? 

 

La Sicilia. Difficile definirla per me. Lei mi chiede le prime impressioni. Io sono arrivata a Palermo la sera del 24 dicembre del 1990 e poi ci sono rimasta ininterrottamente o quasi per tredici anni. A Milano non ci sono più tornata fisicamente per almeno quattro o cinque anni. Mia madre al telefono mi chiedeva: “ Allora quando torni?”… e io le dicevo “Vieni qui tu”.

Insomma la cosa che posso dire senza esagerazioni è che per me dal 1990 al 2000 sono stati anni di felicità pura. Intanto perché potevo stare sempre in mezzo alla strada ed io ero cresciuta in una città dove per otto mesi all’anno faceva troppo freddo, almeno per me.

E poi la luce. La luce che mi stordiva. I rumori, i mercati, le facce della gente. Volevo tutto e tutto insieme. Ero famelica. Ero Alice nel paese delle meraviglie. Uscivo la mattina e giravo camminavo per ore, riprendevo tutto, immaginavo i film più belli che avrei fatto. Ascoltavo tutte le storie che mi raccontavano, e quante me ne raccontavano. Giocavo tutto il giorno. Ero esattamente dove volevo essere. Credo che questo in “Tano da Morire” si capisca.

La gioia, lo stupore, e anche un po’ l’orrore in certi casi mi hanno tenuto legata alla Sicilia per tanto tempo. Sono rimasta perché quando sono arrivata ho sentito quello che si prova quando ci si innamora. Senti che la tua vita cambia e nulla sarà più come prima. Sono rimasta perché le storie da raccontare non finivano mai e ce n’erano sempre di nuove. Ho amato ed amo la Sicilia.

Poi mi ha fatto soffrire vederla violentata e violenta come solo lei sa essere, tanta bellezza deturpata e abbandonata, tanta ricchezza sprecata. Per me inconcepibile. Così ogni volta me ne sono dovuta andare, anzi fuggire.

Siamo andate avanti così per vent’anni e l’altro giorno di fronte al golfo di Mondello, che d’inverno sembra i Caraibi, mi dicevo: “Smettila di pensare “ora me ne vado”, tanto ormai qui ci hai passato metà della tua vita”. Qualcosa vorrà dire.

 

 

Ha fatto il primo musical siciliano toccando le problematiche congenite dell’isola in modo personalissimo. Cosa ne pensa del film musicale di Turturro sulla canzone napoletana? Come mai in Italia nessuno riesce ad assorbire in modo personale questo genere cinematografico come ha fatto lei? 

 

Ho visto il film di Turturro e mi è piaciuto, ma credo che si debba vivere davvero in Italia per poter raccontare certe realtà. È una visione divertente di un mondo, quello della canzone napoletana, che ben conosco .

 

 

 

 

 

Roberta, perché non ha mai lavorato con Harvey Keitel? È un attore che ha girato il mondo, lo conosce come le sue tasche e non disdegna di partecipare a film bizzarri e originali come i suoi, indipendenti e a basso costo. Io lo vedrei bene in un suo film intitolato “Napoli e cozze”, con Keitel nella parte di un turista belga che ammira il Vesuvio. Naturalmente scherzo ma se fossi in lei ci farei un pensierino: meglio un Keitel oggi di un Salemme… 

 

Mi piace molto Harvey Keitel. Colgo il suo suggerimento, chissà se in futuro…

 

 

 

Uno degli strumenti più apprezzati dagli utenti del sito “FilmTv” è la playlist, attraverso le quali spesso si ricordano i film più amati. Ci dia una sua personale playlist con 7 titoli di film da lei amati e le ragioni per cui sarebbero imperdibili. 

 

Sette sono pochi, troppo pochi.

  1. La passione di Giovanna D’Arco di Dreyer:  fotografa una donna splendida, poche parole, grandi volti e luci. Cinema puro.
  2. 8 ½” di Fellini: il viaggio di un artista, la confusione creativa magistralmente rappresentata, fantasia illimitata, creatività ininterrotta, linguaggio dei sogni. Grande Cinema.
  3. Il padrino” di Coppola: respiro  da tragedia shakespeariana, racconto magistrale in ogni dettaglio. La paura e l’ombra come elemento imprescindibile della grande narrazione cinematografica.
  4. C’era una volta in America” di Leone: epico viaggio attraverso le epoche, la dimensione del ricordo che trasfigura ogni evento. Robert De Niro-Noodles indimenticabile nella suo malinconico cupio dissolvi a base di oppio.
  5. Il cattivo tenente” di Abel Ferrara: ritratto sanguinante al limite del dolore fisico del Cattivo alla ricerca di redenzione. L’unico film che non sono riuscita mai a vedere tutto fino alla fine in una sola volta.
  6. Quei bravi ragazzi” di Martin Scorsese: uso della  voice over preziosissimo, ritratto  della giovane mafia dall’interno, senza ideologia. Spettacolo e antropologia allo stato puro. 


E poi almeno altri 5 senza spiegazione, ma anche così sono davvero troppo pochi:

  1. eXistenZ” di Cronenberg;
  2. Rosetta” dei fratelli Dardenne;
  3. Elephant” di Gus Van Sant;
  4. Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci;
  5. Il mestiere delle armi” di Ermanno Olmi.

 

 

 

Oltre a ringraziarla per la disponibilità alle domande e augurarle di poterla incontrare a breve con in mano il premio più importante del Sundance consegnatole direttamente da Robert Redford, vogliamo chiudere con una battuta.

Regista, fotografa, installatrice e disegnatrice. Cinema impegnato, documentari-intervista e opere teatrali anche complesse. Cosa risponderebbe a chi le propone di darsi all’ippica? 

 

Darmi all’ippica? Sì, ci potrei pensare… il problema è che non saprei dove mettere il cavallo. Ho una casa con un giardino troppo piccolo!

 

 

 

 

Note: per le foto e i video presenti nel post si ringrazia la regista Roberta Torre e la "REGGI&SPIZZICHINO Communication"

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