Non sono un feticista, neanche per i libri, ma conservo ancora e conserverò un biglietto azzurrino, di quelli della comodissima posta pneumatica di cui godono i parigini, che m’inviò Buñuel per convocarmi un pomeriggio nell’alberghetto in cui da decenni alloggiava quando stava a Parigi. Dovevo discutere con lui la scelta e i modi di pubblicazione delle sue sceneggiature, che avevo proposto a Einaudi e che effettivamente uscirono molti mesi dopo in un volume dei Saggi, e gli avevo scritto fidando sull’importanza della casa editrice (sbagliavo: pensava si trattasse di una piccola casa di libri di cinema, e diffidava dei libri di cinema) e sul fatto di essere allora membro della redazione di “Positif”, di cui facevano parte suoi sostenitori ed esegeti abituali, appartenenti all’ultima leva del gruppo surrealista (Breton era ancora vivo e vegeto) quali Benayoun Kyrou (che cadde poi in disgrazia quando accettò di fare per la televisione francese un mini-serial su un poliziotto), Legrand, Goldfayn.
Era, credo, la primavera o l’autunno del ‘66. L’albergo era a Montparnasse, non distante dalla Pagode e dalla casa in cui abitava Sartre, che incrociavo talvolta andando a trovare degli amici italiani che abitavano un piano sopra il suo; ma quel che più doveva piacere a Buñuel era che l’edificio facesse angolo tra il cimitero di Montparnasse, luogo di duelli e di misteri e nefandezze privilegiato da molti feuilleton dell’Ottocento. L’albergo era piccolo, a conduzione famigliare e, disse Buñuel, con una cucina semplice, di poche salse.
Fu nel salottino dai mobili vecchiotti e senza stile che Buñuel mi raggiunse (aveva appena fatto un sonnellino pomeridiano), gentile e distante. Giocò a fare il sordo. La sua sordità - reale - gli serviva, ne sono sicuro, per difendersi dagli scocciatori. Così il colloquio iniziò con molti “Quoi?” quasi urlati da parte sua, a ogni mia frase, aumentando il mio reverente disagio. Ma pian piano i ‘Quoi?” diradarono e sparirono del tutto, e la conversazione prese piede.
Di che si parlò? Del libro, ovviamente, e della scelta di sceneggiature che avevo fatto, del modo di procurarsele e di controllarle e revisionarle. Del cinema italiano e della sua antipatia per il neorealismo, ma del suo interesse per De Sica e per Fellini (di La strada disse però di detestare il dialogo tra Gelsomina e il Matto, che secondo lui rovinava tutto il film, e di De Sica apprezzava soprattutto due scene di Umberto D.: un po’ quella della monaca che dà il rosario al malati, e a chi lo rifiuta niente assistenza, moltissimo quella della servetta che stermina le formiche nel lavandino con indifferente efficienza).
Poi di Los olvidados. Era, tra i suoi, il film che preferivo, non tanto per ragioni estetiche quanto perché ero vissuto a Palermo in un quartiere di baracche, lavorando con i bambini, non troppi anni prima (1956-57), e quando avevo visto il film per la prima volta, una delle prime in cui ero venuto a trovare i miei nella banlieu parigina dove erano tornati a emigrare per sopravvivere, ero scoppiato in un pianto quasi isterico, tanto Buñuel aveva capito e saputo rendere la realtà del sottosviluppo, della miseria, della tragedia dell’infanzia nelle città del “terzo mondo” (e allora Palermo era tale). Gli dissi però che la realtà che aveva narrato era molto meno impressionante che non quella del mio quartiere palermitano, Cortile Cascino, e se ne sorprese, come una decina di anni dopo si sorpresero certi compagni dell’Olp quando, visitando Tall-al-Zaatar a Beirut, dissi loro che in Italia, prima del boom, avevo visto di peggio.
Cosi, insensibilmente, la chiacchierata con Buñuel si trasformò in una specie di intérvista di Buñuel a me. La mia famiglia, i miei studi, e perfino i miei sogni. Non scherzo: mi chiese davvero di raccontargli un mio sogno recente, e io, conquistato nel mio narcisismo, glielo raccontai. Non ricordo il sogno, ma ricordo che era stato originato da un incontro a una fermata di autobus, pochi giorni prima, davanti al Luxembourg: una donna mi aveva improvvisamente aggredito urlando come un’invasata: “c’est la faute à vous, c’est la faute à vous”, e questo mi aveva letteralmente sconvolto.
Vivevo allora di sensi di colpa; per aver abbandonato Palermo, per una storia d’amore che avevo fortemente contribuito a far degenerare per tante cose oggettive o nascoste. La sua curiosità (ormai ci sentiva benissimo, avevo trovato il giusto volume di voce) mi lusingava, ma la mia timidezza mi salvò, credo, da ogni insincerità.
Poi si parlò di preti. Essendo italiano, avevo avuto un’educazione cattolica? Avevo servito messa? Quando gli dissi che si, che fino a dodici anni avevo servito messa ma che a quell’epoca capii che mio padre, socialista e semianalfabeta, aveva forse ragione quando diceva che Dio o “non c’era o era un fascista”, si mise a ridere, e mi recitò la frase d’apertura della messa in latino, aspettandosi che io proseguissi: “Introibo ad altarem Dei”, e io: “ad Deum qui laetificat juventutem meam”. Sembrava divertirsi un mondo, e mi disse qualcosa come: “non se ne vergogni, di aver servito la messa, quelli che non l’hanno servita, per esempio i critici francesi, certe cose non potranno mai capirle”.
Perché racconto queste cose? Un po’ per vanità, certamente, I due registi che ho più amato, Buñuel e Lang, ho avuto modo di conoscerli, sia pure superficialmente, entrambi, e questo mi inorgoglisce molto.
(Quando, dopo aver intervistato Lang assieme agli amici di Positif a Venezia, lui a letto in una stanza dell’Excelsior, spiritosissimo e divagante e un po’ ripetitivo, scendemmo nella hall con lui, c’era al bar Buñuel, e qualcuno, credo Coment, propose un incontro; Lang fu subito d’accordo, ma Buñuel rispose al nostro emissario con un “no” secco e deciso, che mi spiego solo con certe sue durezze da vecchio surrealista per il quale “la necessità di mangiare non scusa la prostituzione dell’arte’’ e per il quale Hollywood era un modo di prostituirsi: è nota la sua antipatia per Renoir da quando accettò di venire nell’Italia di Mussolini per girarvi la Tosca, o la sua critica alla scena dell’omicidio di Janet Leìgh in Psyco di Hitchcock, ecc.)
C’è forse una ragione nascosta nel fatto di aver conosciuto loro e non altri miei “idoli” di gioventù: Gadda lo vidi solo da lontano, alla libreria Einaudi a Roma, ma non osai avvicinarlo; Breton ai Deux Magots; Totò una notte che girava a corso Vittorio con la Magnani Risate di gioia; ma con Breton avevo un appuntamento per intervistarlo su Crevel, strappato attraverso i soliti amici, e morì pochi giorni prima della data fissata; con Totò avevo un appuntamento a Roma, ma mi fermai a Firenze proprio quel giorno per una delle primissime manifestazioni sul Vietnam, e il giorno dopo a Roma mi dissero che era partito per Lugano dove, se volevo, avrei potuto raggiungerlo, e io non avevo una lira: la notizia della sua morte mi giunse nel ‘67 da una copia di “Paese Sera” che girava tra gli astanti in un’infuocata assemblea all’università di Roma, mentre parlava Natoli e dopo che Grazia Cherchi aveva concluso un durissimo intervento anti Pci a nome dei “Piacentini”.
Forse ho rievocato l’incontro con Buñuel solo per “distinguermi”: dai necrologi che ho letto, dall’elogio che tutta la meglio borghesia intellettuale ha fatto della sua opera (ma la notizia sui giornali era quasi sempre in fondo, nessuno ha osato metterla al posto, diciamo, delle ennesime trattative di Craxi, ovviamente meno importanti). In una delle ultime interviste Breton raccontava sfiduciato di aver immaginato da giovane per i suoi funerali qualcosa di simile a quelli che il popolo francese, in massa, aveva decretato a Victor Hugo, e di prevedere ormai solo qualche vegliardo un po’ andato, molti professorini universitari, qualche giovane surrealista in ritardo. E così è stato. Aveva anche detto, anni prima, che il surrealismo era ormai diventato un’“arte per vetrinisti”.
Oggi tutti apprezzano Buñuel, anche coloro che consideravano Los olvidados una brutta copia di Sciuscià, e compresi i cultori di Castellano e Pipolo e di John Carpenter.
La miseria dell’immaginario contemporaneo può tranquillamente recuperare il maestro dell’immaginario, ma senza più avvertire la sfida che dalle sue opere continua a venire: prendendole per varianti geniali di uno spiritoso eclettismo.
Rivoluzionario, reazionario, o reazionario rivoluzionario, Buñuel appare invece, oggi più che mai, inconciliabile con i turiferari dei nostri sistemi, di tutti i sistemi. Diceva nelle sue memorie di vedere quattro cavalieri dell’Apocalisse già ampiamente in azione nel nostro tempo: la tecnologia e, last but not least, l’informazione. E non c’è nessuno che si domandi seriamente se, per caso, non avesse ragione.
Di Goffredo Fofi, tratto dalla rivista Linea D'Ombra n°3- ottobre 1983
NB: Vista la pessima qualità del video precedentemente inserito e cancellato vi rimando al seguente indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=oJexaTmCVfI
Un Chien Andalau (1929)
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