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Qualche nuvola: Intervista esclusiva al regista Saverio Di Biagio
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Il 27 giugno arriva in sala distribuito da Fandango Qualche nuvola. Il film di Saverio Di Biagio è stato presentato nella sezione Controcampo del Festival di Venezia 2011 ed è l'ultimo film italiano della stagione a presentarsi all'appuntamento con il pubblico. Ci racconta del mondo delle borgate romane con i toni della commedia italiana, quella che ha nobili origini nei film di Dino Risi o Luciano Emmer. Il cast coniuga giovani attori con nomi consolidati del panorama cinematografico italiano: Michele Alhaique, Greta Scarano, Aylin Prandi, Primo Reggiani, Michele Riondino, Pietro Sermonti, Giorgio Colangeli ed Elio Germano. Per capirne genesi, temi e modelli di riferimento, ne abbiamo parlato direttamente con il regista. Saverio Biagio si è concesso senza remore ad una lunga intervista in cui, oltre a parlare del suo lavoro, ci parla di sé e non manca di guardare al cinema italiano attuale.

 

TRAMA E TRAILER:

Il giovane operaio Diego (Michele Alhaique) vive nella periferia romana e sta per sposare Cinzia (Greta Scarano), la sua fidanzata di sempre. Tutte le sue certezze sui sentimenti che prova, però, sono messe a dura prova quando, alla vigilia del matrimonio, mentre è impegnato nei lavori di ristrutturazione di una casa nel quartiere di Trastevere, si imbatte in Viola (Aylin Prandi), la nipote del suo capo, rimanendo fortemente affascinato dallo stile di vita della ragazza, distante anni luce dalle sue abitudini. Intorno a loro, la routine della vita di borgata e il mondo del lavoro, con le sue luci e le sue ombre.

 

INTERVISTA A SAVERIO DI BIAGIO

 

Saverio, raccontaci prima di tutto di cosa parla il tuo film e quali sono state le fonti di ispirazione e i modelli di riferimento per il tuo esordio da regista.

Ho dei modelli di riferimento alti che nascono dall’idea di fornire un contraltare al racconto che otto anni fa, quando ho scritto il film, si faceva al cinema sui giovani borghesi. Mi son detto: “Cavolo, le persone del mio ceto sociale, della mia borgata, chi le racconta?”. A ben guardare, i borgatari venivano, e vengono tuttora, usati come elemento di colore in tante storie di ambiente borghese. Oppure sono raccontati come quelli più permeabili dai modelli negativi imperanti, dal razzismo e dall’intolleranza, dalla smania di apparire a tutti i costi o di diventare ricchi senza troppi scrupoli. I miei amici e le persone intorno a me non erano e non sono così. Nella borgata da dove provengo, così come in tante altre borgate romane, c’è una vitalità che meritava e merita di essere raccontata.

 

 

Uno dei grandi pregi di Qualche nuvola è che non necessariamente borgata sia sinonimo di criminalità. Se ne accenna en passant con il personaggio di Ivan, interpretato da Primo Reggiani, una sorta di piccolo ricettatore, ma non diventa il leit motiv del racconto.

Sì. E, soprattutto, non emetto giudizi. Così come non li emetto sui personaggi borghesi. Certo, se consideriamo come li ho rappresentati, è evidente che le mie simpatie tendano più al ceto dal quale provengo. Capita così che il piccolo spacciatore – che poi lo fa più per sopravvivere, perché nessuno gli ha mai prospettato qualcos’altro – sia il più simpatico di tutti, senza però che questo diventi un escamotage per una riflessione sociologica. Primo Reggiani mi è stato dietro e ha affrontato questo ruolo con grande entusiasmo. Ne è venuta fuori una prova interpretativa di grande spessore.

 

 

I contrasti tra il mondo della borgata e quello della borghesia in Qualche nuvola emergono nel  momento in cui Diego, il protagonista, incontra Viola e rimane affascinato da una realtà che non conosce.

Si tratta di uno dei conflitti principali del film. Diego si ritrova a scegliere tra il matrimonio e una bellissima ragazza della borghesia intellettuale, che ha il volto della cultura superiore, quella che ti dice “prendi tempo e dedicati alle tue passioni”. Diego, invece, non sa neanche di avere delle passioni e il suo conflitto sta nel dover prendere una posizione tra chi si può godere la vita e chi si spezza la schiena per sopravvivere. Poi, andando avanti, capirà che lavorare e accettare le proprie radici è altrettanto dignitoso, se non di più. Tutto ciò anima anche le storie di contorno, ma, ripeto, senza pretese sociologiche. Chi, in questo campo, le ha avute, ha finito per fare dei film, che sono scorretti nei confronti dei borgatari, dei proletari, degli operai che alla fine ne escono tutti come “brutti, sporchi e cattivi”. Non è vero: mio padre non è così, mio cugino non è così, nessuno di quelli che conosco è così.

 

 

Anche se non è ambientato in borgata, Poveri ma belli è uno dei film della tradizione della commedia italiana che per certi versi si avvicina a Qualche nuvola. Anche in quel caso, i protagonisti, pur essendo popolani, non erano imbruttiti da un ambiente in cui, per cliché, convivono criminalità e degrado.

Certo. Io ti posso aggiungere che, ad esempio, ai Parioli c’è chi fa le speculazioni immobiliari, chi le speculazioni finanziarie, chi porta i soldi alle Bahamas, chi evade le tasse pur avendo lo yatch. Francamente, provo maggiore empatia per chi non paga le tasse perché non ce la fa, che non per chi lo fa per arricchirsi. A me, lo spacciatore che è vittima collaterale dell’ambiente che vive – permettimi la frase – fa tenerezza, al contrario di chi lo spinge a spacciare. La delinquenza dei quartieri più “evoluti e colti” è anche più condannabile perché le persone avrebbero gli strumenti idonei per capire cosa è giusto fare e cosa no.

 

 

Una delle critiche mosse al tuo film è che i personaggi siano forse un po’ stereotipati.

Per la verità, tanti recensori hanno apprezzato sia i dialoghi, brillanti e allo stesso tempo molto naturali, che la recitazione e la messa in scena, parlando di Qualche nuvola come di una ventata di aria fresca. Voglio poi far notare che al festival di Venezia, dove c’è un pubblico molto difficile, tutte le proiezioni sono state punteggiate da risate spontanee e da diversi scrosci di applausi, più una decina di minuti di applausi alla fine. Forse questi personaggi non sono stereotipati affatto, bensì troppo veri per certi palati.

 

 

La sceneggiatura di Qualche nuvola è del 2004, menzione speciale al Premio Solinas. Il film, invece, viene realizzato nel 2011. Sette anni di tempo fanno pensare che ci siano stati di mezzo problemi di natura produttiva.

Mi sono rivolto da subito a produttori amici. Pensavo che questo film andasse trattato con amore e di conseguenza ho coinvolto la Minollo film, la Bartleby e la Relief, cui in seguito si è aggiunto il contributo della DAP. Ho messo insieme dei produttori che volevano solo il bene del film. Poi, bisogna pure riconoscere i propri limiti. Evidentemente il film non era di facile lettura: è una commedia che fa sorridere, ma non punta alla risata a tutti i costi. Sulla carta era più un film d’autore: parlava tra le altre cose della crisi dell’edilizia e della perdita del lavoro. Parla in assoluto di un ceto poco rappresentato al cinema e di conseguenza non è stato facile mettere insieme i pezzi. Con grande caparbietà siamo riusciti a ottenere il finanziamento Mibac e un piccolo contributo dalla Rai. Vorrei sottolineare che il vero contributo Rai è arrivato in forma di consigli, in fase di scrittura prima, e di montaggio poi.

 

 

Sei stato per certi versi profetico nel trattare già nel 2004 il problema della precarietà del lavoro. Il film arriva in sala in un momento in cui la tematica è diventata attualissima e coinvolge tutti e non soltanto una certa sfera sociale.

La destra che ci ha governato fino a qualche mese fa, e che in parte ci governa ancora sotto altre sembianze, ha fatto di tutto per nascondere la crisi. Io, che ero un precario di lusso, la crisi però la sentivo sulla pelle. Mi piacerebbe, in un prossimo film, riuscire ad avere toni ancora più duri per trattare direttamente la questione. Anche quando si gira una commedia bisogna raccontare come si vede la vita: il lavoro per me è un valore assoluto. Ci hanno insegnato che si è quello che si fa. Per questo, i miei operai difendono il loro lavoro a tutti i costi. Ci sono delle scene bellissime, non montate e che spero di mettere tra gli extra del dvd, in cui questi operai parlano di quello che sarà di loro. Nel 2004 le avvisaglie della crisi c’erano tutte, bisognava solo volerle vedere.

 

 

Uno dei pregi di Qualche nuvola è proprio il fatto di condurre verso la riflessione pur senza appesantire il racconto. Perché di solito c’è sempre l’impressione che per riflettere occorre inserire momenti drammatici, un incidente o roba simile.

In una delle varie stesure della sceneggiatura, era anche previsto l’incidente sul cantiere. Poi, però, ho pensato che sarebbe stato troppo scontato. Come ha notato un critico uruguayano (il film è stato presentato al festival di Punta del Este e successivamente in sala a Montevideo) la commedia sentimentale è il luogo per eccellenza degli stereotipi, ma io, a detta sua, ho avuto l’abilità di evitare i cliché, descrivendo con sottigliezza i contrasti tra le varie realtà e delineando una riflessione sulla famiglia, sulla lealtà e la dignità del lavoro.

 

 

Nel tuo film ci sono pochissimi primi piani. Hai preferito usare invece i piani sequenza. A cosa si deve questa scelta?

I primi piani sono anche troppi. Qualcuno è stato fatto per tranquillizzare i produttori. Io credo che il cinema nasca con i piani sequenza e che mostrare, battuta per battuta, il volto del protagonista sia un espediente prettamente televisivo. Di conseguenza, ho fatto ricorso al primo piano quando un personaggio dice una cosa che ha senso sottolineare. Per me, il personaggio deve vivere tutta la scena, non “accendersi” soltanto nel momento in cui dice la battuta. Qualche primo piano è stato montato, ad esempio, sui piani di ascolto: una reazione può raccontare la percezione di un momento meglio di mille parole. Devo vedere la luce negli occhi degli attori. Avevo addirittura chiesto di non  avere i monitor sul set, per non essere tentato di guardare l’operato degli interpreti attraverso uno schermo piccolo, ma servivano alla segretaria di edizione, per accertarsi che tutto andasse per il verso giusto. Io però sono stato attaccato alla macchina da presa tutto il tempo perché volevo vedere per primo cosa stesse succedendo, senza altri filtri.

 

 

Hai girato in maniera cronologica? 

Forse due persone in Italia girano in maniera cronologica.  Certo se un giorno dovessi girare tre scene consecutive, allora preferirei girarle nel giusto ordine, ma non ho avuto questa fortuna durante il film. Abbiamo girato in cinque settimane e per l’80% del tempo pioveva. Era novembre e a Roma a novembre piove. Giacché io desideravo realizzare un film solare, il mio direttore della fotografia si è dannato l’anima per ottenere l’effetto da me voluto. Uno degli elementi di pregio è stata la coesione della troupe, tutti quanti volevamo fare questo film e tutti ci siamo prodigati per dare il meglio di noi stessi.

 

 

Nonostante si dica che tu sia un esordiente, hai alle spalle già diverse esperienze come aiuto regista. Quando hai iniziato a lavorare nel mondo dello spettacolo?

Agli inizi degli anni Novanta, a 22-23 anni, dovevo decidere cosa fare nella vita e un mio amico mi disse: “Ti va di venire a fare un po’ di tutto ad uno spettacolo teatrale con la compagnia di Giancarlo Cobelli?” – un regista teatrale pazzesco, scomparso di recente. Chiesi se si guadagnassero soldi. Ovviamente pochi, ma da quel giorno mi sono riscattato dalla borgata. È stato un modo per allontanarmene e andare tutte le sere al teatro Colosseo per montare le scenografie, spazzare il palco, chiamare gli attori, preparare i camerini. Ho capito allora qual era la mia passione. Pochi anni, e tantissimi spettacoli, dopo, conobbi Gianfranco Mingozzi. Era grosso modo il 1995-96 e Gianfranco, che avevo conosciuto in teatro, mi propose di fargli da aiuto regista per un film che aveva in mente. Non sapevo neanche cosa volesse dire far da aiuto regia, ma ricordo che Mingozzi mi disse che ero come il prezzemolo. Cominciai nel cinema con lui, un autore che, anche come documentarista, ha lasciato dei lavori incredibili.

 

 

Da quel che mi dici si evince che hai imparato tutto sul campo.

All’inizio ho carpito quello che c’era da sapere, guardando il lavoro di altri registi. Poi, in un secondo tempo, nei 15 anni successivi, qualche corso e qualche approfondimento mi hanno aiutato a perfezionare la tecnica. Quando sono stato in Australia, ad esempio, ho avuto la possibilità di seguire quel cinema e qualche grandissimo interprete della scuola australiana che reputo, in fatto di attori, il gotha dei gotha. Il mio esordio da regista invece è stato con qualche cortometraggio e videoclip musicale. Ho fatto due videoclip in 35 mm della Banda Bassotti, di cui vado fiero. Poi ho realizzato anche un documentario piccolo, di 5 minuti, a cui sono molto legato (Il nostro domani) e che parla della storia atroce di due bambini a cui vorrei essere d’aiuto. A giorni esce anche il videoclip di Amore sporco – uno dei pezzi portanti della colonna sonora di Qualche nuvola – di cui ho curato anche la regia.

 

 

 

In che proporzione la musica aiuta a veicolare il messaggio del tuo film?

Francesco Cerasi, l’autore delle musiche, conosce il progetto dal 2005 e, man mano che apportavamo delle modifiche, cambiava anche il suo approccio, così come quello di Francesco Di Giacomo, il direttore della fotografia. Eravamo sempre pronti per girare, anche se poi il tutto si è concretizzato solo nel 2011. Ho scelto che si facessero solo le musiche indispensabili. Il pubblico deve provare certe emozioni per l’efficacia della regia. Trovo un po’ scorretto supplire con la musica. Francesco poi è stato bravo a rendere le diverse sfumature con il suo commento. Come per me, anche per lui questo lavoro è stato un’occasione di riscatto.

 

 

Riscatto sociale nei confronti dell’ambiente in cui sei cresciuto?

Io sono cresciuto in una periferia fuori dal raccordo, dove quando si andava in centro si diceva “andiamo a Roma”. Era un posto in cui mancavano tutta una serie di strutture e non c’era neanche l’asfalto. Una periferia un po’ pasoliniana che adesso invece è diventata un posto chic dove andare a vivere. Questo perché l’abusivismo fatto dall’individuo che costruisce casa per sé non è mai volgare. Ora è un quartiere ambito perché mio padre, i vicini, i calabresi, i siciliani, i napoletani e tutta la gente che ci viveva si sono costruiti case a misura d’uomo, senza le storie di speculazione edilizia che vedi in altre zone. Ai tempi, però, eri tagliato fuori dalla vita culturale e dal divertimento. A Roma si andava di nascosto con il motorino.

 

 

Qualche nuvola è ambientato al Quadraro, uno dei quartieri popolari di Roma.

Si, anche se nel film non è mai detto esplicitamente. Il cosiddetto “Boomerang”, il palazzo dove vivono i protagonisti, è quello famoso di Un borghese piccolo piccolo. Mi è sembrato il quartiere adatto per quel tipo di ambientazione, anche se, sociologicamente parlando, sarebbe stato più giusto girarlo in qualche quartiere ancora più periferico.

 

Nel film grande spazio ha la famiglia che circonda il protagonista e quasi ne indirizza le scelte.

Pur non raccontando episodi autobiografici, ho scelto di mettere in scena personaggi che ricordano persone a me familiari. È la garanzia che non si tratta di stereotipi. In loro c’è tanto di mio padre, di mio cugino e delle mie sorelle, di mia madre e delle mie zie che mi hanno prestato, a loro insaputa, tantissimi spunti.

 

 

Pur non avendo pretese sociologiche, attraverso i personaggi di Cinzia e Viola metti in netta contrapposizione due mondi sociali differenti tra loro. Cinzia rappresenta la borgata che Diego conosce bene mentre Viola è colei che gli mostra un mondo a cui non è abituato. Non hai paura che le scelte di Diego lascino presagire una volontà di tenere separati i due mondi senza neanche provare a contaminarli?

Diego è un personaggio molto fragile, orfano di padre e senza voglia di studiare, preso e messo nel cantiere fin da giovanissimo. Da sempre è convinto che Cinzia, la sua bellissima dirimpettaia, sia la sua donna. Alla fine non sceglie niente, lascia che siano gli altri a farlo per lui. Vive la vita che gli è capitata. Per un momento, qualcuno gli spalanca una porta e lui si illude di poter evadere dalla sua quotidianità, ma poi deve accettare l’ineluttabilità della sua vita. Più che arrendersi, prende coscienza del proprio mondo.

 

 

Hai lavorato con un cast che coniuga attori emergenti ad altri con alle spalle esperienze consolidate.

In realtà, sono tutti attori con molta esperienza. Lo stesso Michele Alhaique, il protagonista, lavora nel cinema e in televisione da oltre dieci anni. È un ragazzo molto generoso e sul set non si risparmia: pur essendo anagraficamente giovane ha un talento straordinario. Per il film ha fatto tre provini uno meglio dell’altro e si è letteralmente mangiato gli altri pretendenti. La maggior parte degli attori di Qualche nuvola ha una formazione teatrale e cinematografica. Mi dispiace non averne potuto usare tantissimi altri, ma il numero di personaggi era quello. Ci sono molti bravi attori che andrebbero valorizzati. Purtroppo, nel cinema italiano, c’è un modo di operare, per i casting, che ricorda le collezioni di figurine. Si ha la tendenza a pensare sempre ai soliti noti. Mi sono battuto per non farlo anch’io. Il nostro cinema è seduto anche perché nessuno si prende carico di dire “Ok, adesso ti lancio questo esordiente”. Una delle poche eccezioni è Daniele Vicari, che è uno dei miei maestri. In Velocità massima ha tirato fuori Cristiano Morroni, in Il passato è una terra straniera ha fatto scoprire a tutti Michele Riondino, in Diaz ha puntato su Davide Iacopini. Attori bravissimi che dovevano solo essere scoperti. Se chi decide non la smette di lanciare i bellocci di turno, il cinema italiano non sarà mai competitivo fuori dai nostri confini. I premi ai giovani interpreti sono una cosa seria e almeno quelli dovrebbero essere gestiti da giurie al di sopra delle parti.

 

 

Ad Elio Germano hai affidato, per la partecipazione straordinaria,  il ruolo di un venditore di mobili particolarmente eccessivo e sopra le righe. Come mai questa scelta?

Può sembrare eccessivo, però sfido chiunque ad entrare in certe grandi catene di mobili o in una qualsiasi agenzia immobiliare dove si cerca di persuadere i clienti usando le parole a casaccio. Il venditore di Elio, ad esempio, dice “vintage” usando un termine che viene dai tormentoni mediatici, che parte dalle televisioni e arriva al quotidiano passando anche per la stampa, e che rivela questa tendenza a vendere qualsiasi cosa senza una passione specifica. Potrebbero vendere carne, auto, mobili e case con la stessa passione. È un po’ come il Nathan Arizona dei fratelli Coen. Quello che mi ha venduto la casa dove vivo adesso, per esempio, un giorno mi fece vedere una casa su una strada a doppio senso, esaltando la possibilità di arrivare da tutte e due le direzioni. Tempo dopo, invece, mi ha chiamato per dirmi che la strada era diventata a senso unico e anche quella volta ha trovato il lato positivo: passano meno macchine. Se fosse stata chiusa, avrebbe esaltato la riservatezza, mentre se l’abitazione fosse stata un seminterrato avrebbe di sicuro giocato sulla poca luce e sui benefici per il sonno. Viviamo in una società aggressiva al servizio del consumismo. I miei personaggi non hanno gli strumenti per reagire e subiscono. Il borghese, invece, non ci casca: si compra un maglione l’anno ma di cachemire, non dieci con i loghi enormi stampati sopra.

 

 

A Michele Riondino, invece, hai dato il ruolo di un prete, don Franco, molto naif e lontano dalla visione classica che uno ha del religioso. Ovviamente don Franco invita i protagonisti a sposarsi.

Certo, è uno che crede in quello che fa. Benché, nello specifico, non si accorga del tradimento in atto, don Franco, come Diego e Ivan, è cresciuto per la strada e non ha mai perso il contatto con il territorio. Se avessimo più preti come lui (o politici) sentiremmo meno cose aberranti sulla Chiesa e sulla politica.

 

Contrariamente ad ogni stereotipo hai preso due attrici bellissime per i ruoli di Cinzia e Viola, le due donne del protagonista.

La bellezza di Greta Scarano va oltre la fisicità. Greta ha una grinta senza eguali, una forza che “sposta i palazzi”. Aylin Prandi, invece, sui palazzi vola. Quando si scrivono i personaggi, non si sa chi li interpreterà, ma quando ho conosciuto Aylin, con la sua innata spontaneità – è cresciuta in tre differenti città (Roma, Parigi e Buenos Aires) – ho visto subito Viola: entrambe assecondano le loro passioni. Aylin ha un registro interpretativo differente dagli altri attori per via di una diversa formazione e ho dovuto lavorare su cose molto lontane da quelle usate per gli altri personaggi. Con lei devi motivare ogni tua richiesta: non basta dire “fai così” – cosa che a me comunque non piace – devi anche spiegarle perché. La sfida è stata metterla in scena con mondi lontani da lei e avere a che fare con modi diversi di intendere il lavoro di interprete. Fortunatamente sono stato aiutato da una troupe che aveva il massimo rispetto per gli attori. Spesso, dopo aver provato varie volte, gli attori aggiungevano qualcosa di proprio. Se ne andavano a casa con il personaggio addosso e la mattina dopo tornavano con delle suggestioni nuove, senza mai tradire lo spirito di ciò che era stato scritto. Sul set c’era un rapporto di ascolto reciproco che ha contribuito a creare un grado di fiducia i cui frutti, credo, si vedono nel risultato finale. Stare in piedi sul set e non seduto davanti al monitor ha fatto sì che tra regista e attori vi fosse un rapporto simbiotico: sono convinto che gli attori gradiscano lo sguardo del regista, che lo cerchino. Quando ti chiedono “com’è?”, significa che sono stati lì ad ascoltarti e aspettano un tuo giudizio. Chi invece non ti chiede nulla, si è già giudicato da solo.

 

 

Umberto, il personaggio interpretato da Giorgio Colangeli, è forse l’unico ad essere connotato da toni drammatici.

Si, quel personaggio è malinconico, è un disilluso che ha fatto l’Autunno caldo da operaio, ha esperienze di militanza politica, di sindacato, e si ritrova con un pugno di mosche in mano.

 

Un po’ il contraltare del personaggio di Pietro Sermonti, Carlo, il classico imprenditore moderno che senza fatica si è ritrovato lì a ricoprire un lavoro che altri si sono sudati e che, con Viola, è il motore della vicenda.

Abbiamo costruito questo personaggio che dice una cosa e subito dopo, con la grande abilità di chi fa il gioco delle tre carte, se la rimangia, seminando dubbi e zizzania. È il personaggio che rappresenta meglio il conflitto generazionale; gestisce l’impresa di famiglia come gestirebbe un negozio di fiori. Per Umberto, invece, costruire case è una sorta di religione e il modo di operare di Carlo è una bestemmia. Questo è il motivo per cui il personaggio è drammatico e disilluso. Nonostante abbia le mani piene di calli, non riesce ad afferrare la vita e il lavoro che gli stanno scivolando via. Giorgio è bravissimo, ha potenzialità infinite e un bagaglio umano senza eguali che, vuoi o non vuoi, mette in scena. Anche con lui ho dovuto lavorare. Così come ad Aylin ho raccontato storie di principesse per aiutarla ad entrare nel personaggio, a lui ho raccontato della mia famiglia, della passione che mio padre aveva per il cantiere e per i lavori manuali in generale. Da un attore così grande ti aspetti che non ti ascolti nemmeno e invece era uno dei più seri e concentrati. Non da meno Paolo De Vita, che fa un lavoro geniale da spalla. Ma tutti gli attori hanno dato il meglio di sé. Paola Tiziana Cruciani, Antonella Attili, Veronica Corsi e Rosa Sironi sono state eccezionali. Paola, poi, è un’attrice che per molto tempo ho creduto avesse una naturalezza estrema per poi accorgermi che invece era frutto di una tecnica spaziale… e, quando poi pensi che stia lavorando con la tecnica, ti arriva una nuova ventata di naturalezza, di vitalità.

 

 

Non pensi che uscire in estate, il 27 giugno, sia un limite?

Gli esperti del settore dicono che ormai non c’è quasi differenza tra l’uscire a fine giugno o nelle date più ambite della stagione cinematografica. Con Qualche nuvola, poi, oltre ad offrire una suggestione visiva, offriamo anche la suggestione climatica in forma di aria condizionata. Invece di stare per le strade, dove ci sono sempre più persone imbruttite da una crisi che pagano loro malgrado, gli spettatori potranno guardare un film che li farà sorridere e al tempo stesso riflettere

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