PRIVATO E PUBBLICO
A volte, capita che ricordando un film, ci colpisca una scena, un’immagine o una sequenza per motivi che esulano dal film stesso e che, invece, faccia riaffiorare ricordi di vita vissuta, esperienze personali. Questi ricordi, poi, si affacciano prepotentemente ogni volta che pensiamo a quel film al punto da diventare quasi parte integrante del film stesso, quasi una sorta di montaggio ulteriore a posteriori realizzato da noi stessi.
Uno di questi film è LA LUNGA NOTTE DEL’43 di Florestano Vancini. E’ nota la trama così come i fatti storici legati a quel periodo, uno dei più lugubri e tragici della nostra stori a recente.
Cambiano i nomi, ma la sostanza rimane la stessa. Il regista trae il suo racconto dal noto romanzo di Giorgio Bassani (Una notte del ’43)facendo sua una possibile interpretazione della strage di civili operata da una squadraccia fascista a Ferrara, proprio accanto al muretto che divide la strada dal fossato che circonda il Castello Estense.
Lasciando da parte la storia amorosa fra il protagonista, Gabriele Ferzetti e Belinda Lee, collante del racconto, il nodo centrale del film è la situazione politica all’interno del partito fascista a Ferrara. Da un lato, il federale, Bolognesi (in realtà era Igino Ghisellini), uomo del compromesso e del dialogo. Dall’altro, Aretusi (Gino Cervi), fascista fanatico e deciso a liquidare una volta per tutte l’ala moderata e ristabilire con forza il fascismo più duro e autoritario, fedele al Patto d’acciaio con i nazisti e contrario ad ogni politica di conciliazione o apertura.
Non sono state ancora definitivamente chiarite le modalità che portarono all’assassinio di Bolognesi (Ghisellini),(anche se ai più, secondo diverse testimonianze post-belliche, pare più probabile la pista partigiana) ma Vancini avanza l’ipotesi, avanzata da Bassani e non solo, della resa dei conti fra fascisti, con Aretusi che organizza il delitto del federale.
Aretusi, con questo gesto, ottiene due risultati: da un lato, l’eliminazione del suo principale avversario politico e di alcuni maggiorenti ferraresi, contrari al fascismo, dall’altro il suo ritorno alla guida del partito a Ferrara e la conseguente politica fatta di vendette, caccia spietata agli antifascisti e supina condiscendenza nei riguardi dell’alleato germanico.
Dando infatti la colpa del delitto del federale a elementi partigiani, scatena la violenta reazione di una squadraccia, proveniente da Verona (dov’è riunito un congresso fascista), che giunta a Ferrara, rastrella alcuni noti personaggi antifascisti e li fucila.
Questo film, forse il più riuscito del bravo regista ferrarese, che ho avuto l’onore di intervistare personalmente anni fa, è da apprezzare per diversi motivi: il felice inserimento di temi personali in vicende dal valore storico e pubblico, l’ambientazione (anche se, incredibilmente, gran parte delle scene vennero girate in studio a Roma, dove si ricostruì perfettamente il Castello), la tensione drammatica sempre più angosciante.
Ma la scena che più mi è rimasta impressa, parlo di diversi anni fa quando ero ancora studente, è stata quella finale.
E’ una domenica di maggio del 1959 (o 1960): sta arrivando un’automobile proprio in pieno centro città. Fa caldo. Molti avventori sono seduti sotto i portici ad ascoltare la radiocronaca di una partita di calcio (Inghilterra-Italia del 6 maggio 1959, finita 2 a 2). L’Italia sta perdendo dopo il primo tempo per 2 a 0. Un signore corpulento, di una certa età e in maniche di camicia, comincia a inveire contro i nostri calciatori colpevoli di scarsa combattività e di poco coraggio e fa riferimento ai tempi in cui i giovani erano di ben altra tempra. La macchina da presa si avvicina e scopriamo che si tratta di Aretusi. Intanto, dalla macchina scende il signore che è appena giunto in città. Non è solo: c’è una signora con lui, sua moglie. E’ Franco, il protagonista del film, venuto per cercare Anna (Belinda Lee) che non vede dal 1943. Si avvicina al muretto con la lapide che ricorda la strage in cui morì anche suo padre. Gli si avvicina Aretusi, il quale, dopo un momento di incertezza o imbarazzo, gli porge amichevolmente la mano. Gliela stringe. Poco dopo, quando sua moglie gli chiede chi sia, risponde dicendo che si tratta di un ex capoccia del fascismo locale, ma che non ha mai fatto nulla di male.
E’ un finale che mi ha sempre colpito e continua a colpirmi. Da un lato, la straordinaria ambientazione in esterni, che rappresenta a meraviglia la quotidianità di una città ormai più di 60 anni fa. Dall’altro lo stupore nel vedere come un autentico criminale continui ad agire indisturbato, con la spudoratezza di sorridere amichevole al figlio di colui che ha contribuito a far uccidere. Come chiamare questo gesto di Franco? Volontà di dimenticare? Spirito di conciliazione? Quieto vivere? Vigliaccheria? Non lo so. Quel che so e che mi ricordo perfettamente certi personaggi, nella mia prima giovinezza, seduti al bar a pontificare ed inveire contro un governo imbelle, la democrazia malata e una gioventù smidollata. E tutti zitti. Nessuno che si prendesse la briga di rispondere. E loro, incoraggiati da quel silenzio, continuavano a blaterare.
Li ricordo come se fosse ieri e qui entra in ballo la mia giovinezza. Io li conosco quei pomeriggi primaverili o estivi domenicali sotto i portici. Ancora non c’era la tv, ma la radio gracchiava e i tavolini della terrazza erano già quasi tutti occupati. Alcuni avventori giocavano a carte, altri ascoltavano la partita, altri spettegolavano, altri ancora sorseggiavano una bibita o il caffè. Alcuni, tra i più anziani, avevano il capo reclinato sul davanti e beatamente dormivano. L’aria mite, non ancora resa torrida dal sole estivo cocente, aiutava la gente a restare seduta e a trascorrere pigramente un paio d’ore, prima di fare qualche “vasca” su e giù per i portici, a guardare le vetrine e a salutare. E’ questo doppio aspetto che mi ha sempre fatto amare questo film. Da un lato, la tragedia umana di un intero Paese e dall’altro la quotidianità nei suoi aspetti più autentici, quasi minimali, quelli che Giorgio Bassani sa interpretare a meraviglia nelle sue storie ferraresi. L’odore del fieno che ti assale mentre sei a un funerale, il treno pieno di studenti che si prende ogni giorno per andare da Ferrara a Bologna, l’apparire improvviso di un airone nascosto dietro le sterpaglie del Po, il muro di cinta oltre il quale c’è il parco dei Finzi Contini. A volte, il quotidiano diventa storia (o intra-historia come scrive Unamuno), a volte diventa poesia. Altre ancora suscita nostalgia di un bellissimo tempo che fu e che vorremmo invano rivivere.
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