La scomparsa di Antonio Tabucchi si porta via un angolo della mia giovinezza. Lo scoprii quasi per caso, fermandomi a leggere il trafiletto di un quotidiano in cui si parlava di un premio con cui in Francia si nominava il miglior romanzo in lingua straniera. Era il 1987, Il libro di chiamava "Notturno indiano", l'autore appunto Tabucchi. Con la curiosità che nasce senza una vera ragione lo cercai e lo lessi. Fu un incontro magico: il fascino di un paesaggio lontano, un uomo alla ricerca di una persona che forse non esiste, l'India, evocativa e tragica. E poi Pessoa, nume tutelare dello scrittore toscano, ripreso nelle parole di chi aiuta il protagonista nel suo cammino di conoscenza."Abbiamo tutti due vite.." così iniziava quella frase, una specie di introduzione, al tema, quello del doppio, che avrebbe caratterizzato da lì in poi la produzione di Tabucchi, divisa impegno e introspezione, a sottolineare un’inquietudine coperta dai modi dolci, dalla voce gentile ma ravvisabile nella febbrile ricerca di un possibile altrove, geografico o temporale. Dopo qualche tempo anche il cinema si sarebbe accorto di lui, impossessandosi delle sue atmosfere dapprima con “Notturno indiano” diretto da Alain Corneau ed interpretato con magica immedesimazione da Jean Hugh Anglade, successivamente con “Sostiene Pereira” di Roberto Faenza e con Marcello Mastroianni nel ruolo dell’anziano giornalista. Film che con differenti risultati sono riusciti solo in parte a ricostruire il sentimento del mondo che le sue pagine riuscivano a comunicare. Questo ultimo passaggio, con la decisione di salutarci da Lisbona, la sua citta d’elezione, è l’inizio di un viaggio da sussurrare alla fantasia del prossimo cantore.
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