Alter ego per mestiere. Attori i cui nomi non compaiono sulle locandine e nei titoli di testa, e che dal loro ruolo traggono profitto, però non la serenità d’animo. Soprattutto quando il set è il mondo reale, ed il pericolo principale è quello di vedere smascherata la propria falsità. Come per le spie, il loro gioco può durare solo finché rimane segreto per volontà propria o di coloro di cui sono i surrogati. Inoltre, quando alla finzione cinematografica si sostituisce la vita vera, sorge un’ulteriore complicazione: copia e originale sono costretti a fronteggiarsi continuamente, e prima o poi finiscono per scoprirsi rivali. L’impostore si propone in partenza come un ladro di identità, che fa, dell’altrui fama, un uso prettamente parassitario. Il sosia, invece, smette di essere un’innocua immagine alternativa quando non sopporta più il fatto di specchiarsi in un individuo spregevole, di cui desidera fermare la mano. Esistono esempi concreti, appartenenti alla cronaca degli anni novanta, che qualcuno ha voluto portare sul grande schermo. Si tratta delle vicende di Alan Conway, che girava tra l’Inghilterra e la Francia facendosi passare per Stanley Kubrick, e di Latif Yahia, l’ufficiale reduce della guerra Iran-Iraq che racconta di essere stato il doppio ufficiale di Uday Hussein, il primogenito di Saddam noto per la sua ferocia. Sono i protagonisti dei film Colour Me Kubrick (2005) di Brian Cook e The Devil’s Double (2010) di Lee Tamahori. Per entrambi, la sfida quotidiana è essere costantemente all’altezza del compito, reprimendo a tutti i costi la propria individualità. Nel primo caso, una nullità deve impersonare un grande genio, nel secondo caso, un uomo dotato di coraggio e di coscienza è costretto a diventare l’ombra di un essere infinitamente malvagio. La lotta per la sopravvivenza si svolge sul piano della contraddizione: il negativo deve tramutarsi nel positivo e viceversa. Alan e Latif si guadagnano il pane cercando, faticosamente, di mantenere viva quella paradossale illusione. Entrambi sono nati poveri, ma possono attingere alla ricchezza forzando il proprio io nella sagoma di un personaggio celebre, il cui nome fa tremare tutti, di ammirazione o di terrore. A parole, devono trasmettere l’idea di essere ciò che un altro fa: la pratica di un’arte sublime oppure il disumano esercizio dell’autorità. Due opposte e leggendarie follie, che Alan e Latif imparano ad interpretare alla perfezione; l’uno appiccicando, alla figura del regista, eccentrici vezzi indossati con la nonchalance d’ordinanza, l’altro imitando alla perfezione la mimica grottesca e la gestualità nevrotica di un pazzo sanguinario. Invenzione fantasiosa e riproduzione fedele puntano, con uguale tenacia, alla creazione di un potente stereotipo che, nel bene o nel male, faccia colpo sulla gente comune. Per essere convincente, la recitazione deve porgere al pubblico non la versione reale del personaggio, bensì quella che meglio corrisponde al modo in cui la maggioranza è abituata a pensarlo. L’immaginazione, soprattutto quando vaga nella sfera dei sogni, insegue i propri miti andando a caccia di modelli. È l’azione semplificatrice del fantastico, il quale, per imporsi, deve sgomberare il campo dagli elementi dubbi, in cui le emozioni potrebbero inciampare e la ragione trovare un appiglio, un valido pretesto per frenare la loro corsa. Le icone sono prive di forme specifiche, perché sono concepite come passepartout per le menti. Devono potere entrare in tutte le teste, inserendo ovunque la stessa idea. La fede inizia con un disegno, meglio se stilizzato: il ritratto prêt-à-porter d’un concetto, l’impronta forzatamente concisa di un dato reale. Che è uno scherzo, se è soltanto un segno grafico stampato sulla carta. Ed invece provoca dolore, se deve essere un marchio impresso sulla carne.
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