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Grande festa alla corte di Francia ma non per Jacquot
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 Filmografia completa di un regista sottovalutato

 

Quando si parla di Novelle Vague francese i primi nomi che vengono subito in mente sono quelli di Alain Resnais per le sue sperimentazioni formali, di Jean-Luc Godard per il suo sguardo sulle agitazioni politico-sociali, di François Truffaut per la sua rivisitazione del cinema coerente e classico, di Claude Chabrol per la sua abilità nel coniugare cinema d’impegno e cinema commerciale, di Eric Rohmer per la sua poeticità intimista. Saremmo tutti capaci di elencare in pochissimi minuti almeno tre dei loro titoli famosi, tutta la loro produzione cinematografica ha attraversato i confini francesi per arrivare dapprima in Italia e poi nei Paesi anglofoni, dal Regno Unito agli States.

 

 

Ma c’è un nome che pur appartenendo alla stessa corrente viene spesso dimenticato, i suoi ultimi film spesso sono rimasti confinati nei circuiti d’essai o addirittura dimenticati. Viene ricordato per essere stato il marito di Agnés Varda. Sto parlando di Jacques Demy.

 

 

Demy nasce nel 1931 in Francia, a Pontchâteau, e muore all’età di 59 anni, lasciando una produzione cinematografica che conta tra documentari, produzioni televisive e lungometraggi 21 titoli differenti.

 

Gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza sono caratterizzati dai primi esperimenti sul fronte cinematografico. Infatti nei primi anni novanta la moglie, mentre preparava il documentario Jacquot de Nantes, ritrova nel piccolo garage-laboratorio in cui Demy era cresciuto delle pellicole in 9,5 mm, particolarmente danneggiate, che testimoniano le prime attività del regista.

 

Il periodo in cui vennero realizzate è presumibilmente databile nell’arco temporale tra il 1944 e il 1948. La regista li ha chiamati Le Pont du Mauves (una serie di disegni animati che ricordavano il bombardamento e la distruzione del ponte di Mauves durante la seconda guerra mondiale), Attaque Nocturne (si tratta di vere e proprie sagome di cartone animate che inscenano una rapina) e Le ballerine (un filmato sulla sagoma animata di una ballerina). L’amore per l’animazione nasceva dal suo lavoro con l’animatore Paul Grimault e con il regista Georges Rouquier.

 

 

Per la sua tesi di laurea nel 1951 realizza il suo primo cortometraggio nel quale è già possibile vedere i tratti distintivi del suo cinema, tenebre e speranza: Les Horizons morts, 9 minuti scanditi dal percorso interiore di un giovane durante una notte insonne, conclusasi con tentativo di suicidio.

 

 

Gli anni che precedono il suo esordio cinematografico ufficiale, dal 1955 al 1959, sono caratterizzati dalla produzione di una serie di cortometraggi con differenti tematiche: si va dal timore per l’avvicinarsi della morte per Jacquot, povero zoccolaio della Loira, in Le Sabotier du Val de Loire (1955), all’amore negato nella riproposizione del dramma Le bel indifférent (1957), che Cocteau aveva scritto per la Piaf, alle pulsioni dell’animo umano attraverso la storia del santo francese Jean-Marie Vianney in Ars del 1959. Poco si sa invece dei titoli Musée Grévin, del 1958, e La mére et l'enfant, del 1959.

 

 

Il primo film di Jacquot (così era soprannominato il regista sin da bambino) lo porta subito all’attenzione mondiale. Lola, un omaggio esplicito a Max Ophüls e alla sua Lola Montes a cui la pellicola è dedicata, rappresenta tutt’oggi uno dei suoi maggior successi cinematografici: un “musical senza musica” ambientato a Nantes, sua città natale, interpretato da Anouk Aimée e girato in bianco e nero per precisa scelta, il film era un sentito ringraziamento al mondo del cinema. Una storia apparentemente banale, quella tra una cantante di cabaret di infima categoria che nel prostituirsi incontra un marinaio che poco dopo riparte, lasciandola incinta. Ritornerà solo anni dopo, ormai ricco, a riprendersi la donna e il bambino. Un film sull’amore atteso caratterizzato però dalla bellezza della fotografia e dalla finezza ed eleganza del regista.

 

 

 

Grazie al successo del film, l’anno dopo partecipa all’opera collettiva I sette peccati capitali in cui a fianco di registi come de Broca, Chabrol, Godard, Vadim, Ionesco e Molinaro, realizza il segmento dedicato alla lussuria.

 

Nel 1963 invece dirigerà Jeanne Moreau in La baie des Anges (La grande peccatrice), un film sul gioco d’azzardo grazie al quale la Moreau verrà ricordata come la Bette Davis di Francia: “Grazie al collega Caron, Jean, giovane impiegato di banca a Parigi, scopre a Enghien il fascino della roulette. Al Casinò di Nizza conosce Jackie (Jean Moreau) che per la passione del gioco è disposta a tutto. Le porta fortuna, s'innamora di lei che lo ricambia e che per lui, infine, rinuncia al tavolo verde. Fino a quando? Un'indimenticabile Jeanne Moreau in biondo, vestita da Pierre Cardin, rappresenta la Morte oppure è Euridice che Jean-Orfeo cerca di salvare dall'inferno? Dostoevskiano nel tema, bressoniano nello stile di fertile secchezza, il film si vale del funzionale bianco e nero di Jean Rabier e delle asciutte musiche pianistiche di Michel Legrand”.

 

Gli anni d’oro della sua produzione arrivano però tra il 1964 e il 1970, caratterizzati da due titoli che lo avrebbero imposto definitivamente nell’Olimpo dei registi.

 

È infatti il 1964 quando Demy termina le riprese di Les parapluies de Cherbourg, straordinario musical interpretato da Catherine Deneuve e Nino Castelnuovo. La storia ricorda quella di “Lola”: Genevieve, 16 anni, vive con la madre, vedova, che gestisce un negozio di ombrelli a Cherbourg. È innamorata di Guy, un giovane meccanico col quale desidera sposarsi se solo la madre non pensasse che lei sia troppo giovane e lui un povero squattrinato, ostacolando così il loro amore. Guy decide di arruolarsi lasciando Genevieve che si scopre nel frattempo incinta. Non avendo notizie del giovane, la ragazza, seguendo l’imposizione della madre, sposa un ricco gioielliere che promette di prendersi cura del nascituro. Si tratta di un musical vero e proprio, tutti i dialoghi sono cantati: non sono vere e proprie canzoni ma è una continua melodia su cui viene modulato tutto il parlato. A differenza del musical americano non vi è né eccesso di gestualità né tantomeno vi sono momenti “ballati”. Il film vinse la Palma d’Oro a Cannes 1964.

 

 

Les parapluies getta le basi per il successivo film di Demy, Les demoiselles de Rochefort (Josephine). Siamo nel 1966 e il regista scardina e rivede il concetto di musical americano, con un omaggio ai film di Minnelli e Donen. Ai dialoghi cantati del precedente film si associano i dialoghi parlati e le scene di ballo. Un film decisamente esagerato, enfatico, per recitazione, musiche, fotografia e scenografia. Colori che esplodono ovunque, accostamenti cromatici forzati come in una continua danza di colori, forse antesignano del Moulin Rouge di Luhrmann. Una storia corale su quattro personaggi in cerca d’amore tra le vie di Rochefort: un’insegnate di danza, Delphine (una splendida Deneuve), un insegnate di pianoforte, Solange, un poeta/pittore militare, Maxence, e una proprietaria di un negozio di articoli musicali, Simon, alla ricerca disperata dell’anima gemella in una cittadina costantemente in danza. Un cast stellare (le sorelle Catherine Deneuve e François Dorleac, Michel Piccoli, Gene Kelly, George Chakiris, Danielle Darrieux) per un film candidato all’Oscar (ma battuto da un altro musical, Oliver!) e massacrato nell’edizione italiana (non si capisce ad esempio perché titolarlo Josephine, mutando anche il nome del personaggio della Deneuve, Dolphine).

 

 

In seguito al successo globale del film, il regista vola negli Stati Uniti dove realizza il suo film più formale, lontano dalla sua vena creativa: Model Shop (L’amante perduta), in cui ritrova la protagonista di Lola, Anouk Aimée, a cui affida il ruolo di Lola, donna matura che lavora come modella in set pornografici, che accetta di farsi fotografare per 12 dollari da un giovane architetto in crisi sia sul lavoro sia sul versante sentimentale, alle cui spalle aleggia l’ombra della chiamata alle armi per la guerra in Vietnam. Per il ruolo del giovane architetto fu scelto Gary Lockwood (che aveva appena terminato le riprese di 2001: Odissea nello spazio) ma la leggenda narra che il regista e la moglie avessero pensato al giovane Harrison Ford, scartato poi per il fatto di non essere ancora abbastanza famoso.

 

Deluso dall’esito dell’esperienza americana, in cui non venne lasciato libero di esprimersi, Demy ritorna in Francia e gira nel 1969 Peau d'âne (La favolosa storia di Pelle d’Asino), adattamento cinematografico della fiaba più discussa di Perrault per via del tema dell’incesto.  Un re, che alla moglie morente aveva promesso di risposarsi soltanto se avesse trovato una donna superiore a lei in bellezza e bontà, s'accorge che l'unica persona siffatta è la propria figlia. Pur amando il padre, però la principessa non vuole sposarlo, per cui chiede aiuto alla fata sua madrina. Costei, rivelatisi inutili alcuni stratagemmi per evitare le nozze, fa indossare alla figlioccia la pelle d'asino, le dà la propria bacchetta magica e la trasferisce con un incantesimo in un regno al di là del mare. Divenuta la sguattera di una vecchia megera, la principessa, chiamata Pelle d'Asino, da tutti tenuta in disparte per il suo sgradevole aspetto, viene scorta da un giovane principe mentre, all'interno di una capanna nel bosco, si rimira allo specchio, con indosso un abito meraviglioso. Innamoratosi di lei, incuriosito dal suo segreto e al tempo stesso attento a non parlarne coi propri genitori, il principe commissiona a Pelle d'Asino un dolce, in cui la fanciulla fa cadere un anello. Avendo i medici di corte decretato che soltanto il matrimonio potrà guarire il giovane dalla profonda malinconia che l'ha colto, il re, accogliendo il suo desiderio, annuncia che il figlio sposerà la donna cui andrà giusto l'anello trovato nel dolce. Avendolo invano provato tutte le donne del regno, ultima si presenta Pelle d'Asino, che appena infilato l'anello riacquista il suo vero aspetto. Si celebrano così le nozze fra il principe e Pelle d'Asino, alle quali partecipano il padre della principessa, risposatosi con la fata. Ancora un musical per la regia di Demy e l’interpretazione della Deneuve con toni dissacranti e l’introduzione, non forzata, di elementi moderni come ad esempio un telefono o un elicottero. Ancora una volta suoni e colori portati all’eccesso anche grazie alle scenografie e ai costumi.

 

 

Tre anni dopo, siamo nel 1972, Demy si cimenta con la trasposizione cinematografica della fiaba dei fratelli Grimm The Pied Piper (Il pifferaio di Hamelin). Il film segue la scia fiabesca di Pelle d’Asino ma riprende la via del musical scegliendo come protagonista un giovane cantante, Donovan. Il film è meno cupo della fiaba dei Grimm, il finale viene alterato: il pifferaio magico restituisce i bambini in cambio della sua ricompensa e non li porta invece a morire come l’originale prevede. Film quasi teatrale, sensazione acuita anche dall’uso di campi lunghi e medi (in 90 minuti si conta solo un primo piano) e senza particolari effetti speciali. Venne girato in Inghilterra pur non parlando prettamente dell’Inghilterra e fu l’ultima opera di Demy a fare il giro del mondo. Le restanti produzioni avrebbero faticato parecchio per essere distribuite fuori dalla Francia.

 

L’anno successivo il regista ritorna nella sua amata terra e richiama a sé la Deneuve per offrirgli il ruolo da protagonista in un film sul femminismo, affiancandola a Marcello Mastroianni. Racconta L'événement le plus important depuis que l'homme a marché sur la lune, Il più importante avvenimento dopo l’atterraggio dell’uomo sulla Luna (Niente di grave, suo marito è incinto!). Dai musical e dalle fiabe si arriva alla commedia grottesca, una sorta di critica precorritrice dei tempi: una giovane coppia è in attesa di un bambino ma a destare scalpore è il fatto che ad avere il pargolo in grembo sia lui e non lei. Il fatto scatena l’attenzione morbosa di società farmaceutiche e mass media, tutti si concentrano sul “caso umano” mentre l’equilibrio della coppia va in frantumi, con lui “casalingo” e lei “lavoratrice” per necessità. Satira pungente contro il consumismo dilagante e l’apparenza, che manifesta il proprio malessere a partire dal titolo stesso. Il film si rivela però un grosso flop commerciale e viene bersagliato dalla critica del tempo, costringendo Demy a sei lunghissimi anni di inattività.

 

 

È infatti il 1978 quando il produttore giapponese Mataichiro Yamamoto, soprannominato Mata-san, riesce ad accaparrarsi i diritti per l’adattamento di un fumetto di successo del 1972, Versailles no Bara (Le rose di Versailles), opera di Riyoko Ikeda. La Ikeda si era spesso rifiutata di cedere i diritti perché riteneva impossibile che si potesse girare un film nell’ambientazione originale del fumetto, la Francia della seconda metà del Settecento con la reggia di Versailles come set principale. Mata-san è l’unico che riesce ad ottenere, grazie anche al supporto della casa cosmetica Shiseido, la possibilità di poter girare a Parigi e sceglie quello che ritiene il regista francese più esperto di fiabe e rappresentazioni in costume, Jacques Demy.

La storia di Versailles no bara sarà esplosa universalmente l’anno dopo, grazie ad una serie animata, arrivata anche in Italia con il nome di Lady Oscar. La storia narra le vicende di Oscar François de Jarjayes, ufficiale di guardia alla corte di Versailles, nata donna ma cresciuta come un uomo da un padre che desiderava un figlio maschio ad ogni costo. Le vicende si sviluppano durante il regno di Luigi XVI: scandali a corte, intrighi, complotti, guerre, amori infelici, eventi reali che portano allo scoppio della Rivoluzione Francese del 1789 con le sue inevitabili conseguenze. Per il ruolo di Oscar, dopo aver avallato le ipotesi Jane Birkin e Dominique Sanda, Mata-san sceglie un’attrice esordiente, Catriona MacColl, presentata da un assistente di Demy, mentre per il ruolo di Maria Antonietta il regista impone l’austriaca Christine Böhm e per quello del conte di Fersen lo svedese Jonas Bergström.

Il Ministero della Cultura francese concede la possibilità negata a moltissime altre produzioni di girare all’interno della reggia di Versailles nel giugno del 1978 e già nel marzo successivo il film, girato totalmente in inglese con sottotitoli, ha la sua premiere a Tokyo. Fu un colossale disastro al botteghino. I fan del manga lamentano il fatto che i personaggi sono stati totalmente sconvolti: Oscar è debole e priva di fascino, Girodel è un bisessuale crudele e perverso, Fersen un vero libertino, Maria Antonietta una donna leggera; il finale della storia è completamente stravolto. La colpa di ciò viene imputata al regista per l’interpretazione data al soggetto della Ikeda, accusato di non avere un retaggio culturale e una sensibilità adeguata e di non aver saputo tirar fuori le qualità interpretative degli attori. Il regista esce dilaniato dal progetto, il film non viene quasi mai elencato nelle sue filmografie, le tv di mezzo mondo rifiutano di trasmetterlo, nonostante il girato presenti alcuni tratti tipici del suo cinema: scenografie e costumi sono all’altezza di quelli di Josephine, esplodono colori e suoni per tutto il film.

 

 

 

Gli anni successivi della sua produzione saranno caratterizzati da produzioni televisive (La naissance du jour, nel 1980, e Louisiana, nel 1984) e altre quattro produzioni cinematografiche:

 

  • Une chambre en ville (Una camera in città, 1982). Demy ritorna nella sua Nantes, la stessa città in cui aveva ambientato il suo primo film d’esordio (Lola) e racconta in un’opera cupa in cui il dramma viene soventemente interrotto dal musical la storia delle rivolte dei lavoratori del 1955 contro la CRS, la forza di polizia anti-rivolta, per ottenere e salvaguardare i loro diritti. Un film di denuncia sociale sul cui sfondo si costruiscono amori destinati ad una fine tragica. Viene scelte come protagonista Dominique Sanda, rifiutata anni prima proprio per quell’infelice trasposizione di Lady Oscar.

 

 

  • Parking (1985). Demy rende omaggio al regista francese Jean Cocteau e al suo capolavoro, Orfeo (1948), riadattando la storia di Orfeo ed Euridice in chiave postmoderna: si riprende un tema classico e lo si stravolge in chiave pop (praticamente il Romeo + Juliet di Luhrmann deve molto ai film di Demy). Orfeo è un cantante rock mentre Euridice è una scultrice. Il resto della storia è quella classica ma la chiave di lettura è meno buia.

 

 

 

  • Trois places pour le 26 (1988). Demy riesce a convincere Yves Montand a interpretare il ruolo di un vecchio cantante che per concludere la sua carriera ritorna al proprio paese d’origine per un ultimo concerto. Un film quasi biografico, dominato dagli inserti musicali.

 

 

 

  • La Table tournante (1988) è invece un film d’animazione scritto e diretto con uno dei suoi maestri, Paul Grimault. Si tratta di un excursus tra 10 opere animate di Grimault accompagnate da sottofondo musicale. Tra le voci narranti, si ritrova quella di Anouk Aimée.

 

 

Curioso notare come tutta la filmografia di Demy sia caratterizzata dal cosiddetto “ritorno del già noto”: oltre ai temi spesso già conosciuti, il regista cerca affidabilità in volti, dalla Aimee alla Deneuve alla Sanda, e in collaboratori a lui cari, primo tra tutti l’autore della sue colonne sonore, Michel Legrand. È come se si fosse ricreato un universo filmico o una casa di produzione personale

 

Il regista morì di Aids nel 1990 ma quello che si ricorda di lui lo si deve alla scrupolosa moglie che realizzò un documentario sulla vita del marito Garage Demy – Jacquot de Nantes, di cui ci da un’ottima descrizione Umberto Mosca nel Cineforum n. 316 del 7-8/1992, ripercorrendo anche l'infanzia stessa del regista:

"Dei dintorni di quel garage di Nantes si è nutrito tutto il cinema di Jacques Demy, l'intero suo universo poetico. La vicina di casa incinta è la Catherine Deneuve di Les parapluies di Cherbourg, la cantante incontrata a cena con la zia ricca venuta dal Brasile è la Ainouk Aimée di Lola. Così come appartengono ai colori e alle sensazioni dell'infanzia i personaggi de I saltimbanchi e di Pelle d asino, mutuati dall'operetta e dallo spettacolo dei burattini del Theatre Guignol. Il Nino Castelnuovo che lavora in officina e la Deneuve che prepara la pasta per fare il dolce sono il padre Raymond e la madre Marilou.

 

Nei film di Demy la famiglia è sempre qualcosa di particolare: non ci sono mai soltanto delle coppie, c'è sempre un nucleo più ampio, non si trovano mai cose come padri assenti e irresponsabili o madri e figli che si affrontano. La Varda non ha potuto prescindere da questi dati per creare la sua casa Demy. E lo spettatore resta francamente stupito quando si accorge che è riuscita a comunicare tutto questo facendo a meno del colore per la maggior parte delle immagini del film, di come il mondo del piccolo Jacquot ricreato attraverso le interpretazioni di tre differenti attori, brilli tutto delle tinte che si colgono di tanto in tanto dagli spezzoni dei film di Demy. È sufficiente farle precedere dalla figura del dito disegnato vicino al garage, per esprimere la contiguità tra Arte e Vita; contiguità che è disponibile a diventare identità nel momento in cui prescinde dalle tradizionali coordinate spazio-temporali.

 

Tuttavia l'uso del colore non si limita alle sole immagini girate da Demy, e interviene ogni qual volta il piccolo Jacquot è investito, o anche solo sfiorato, dalla visione artistica. Allora ogni cosa subito prende colore, attraverso la soggettività del ragazzino. I suoi sensi tinteggiano il mondo circostante e il cinema è più colorato del resto, come accade con le locandine di Biancaneve affisse al cinematografo di quartiere.

 

Film che racconta la scoperta dell'amore per il cinema, le tappe di una vocazione, Garage Demy parla oltre che per immagini, anche di immagini, di come queste possono essere costruite, conservate e addirittura riscritte, riutilizzate. Da un lato, infatti, alcune situazioni simboliche, come il baratto tra la figura colorata del transatlantico Normandie con il pezzo di pellicola, rimandano alla formazione dell'immaginario di Jacquot, al passaggio dall 'immagine fissa a quella in movimento. Le tappe progressive che vanno dal collezionismo - la passione per gli oggetti del cinema, vecchi proiettori, piccole cineprese scambiate con un meccano, fino alla prima Eresam che Demy mostra ancora con l'attenzione di un ragazzino - al dilettantismo - le attualità a disegni animati! - e al professionismo dei film realizzati dopo i corsi di cinematografia all'Ecole de Vaugirard a Parigi.

 

D'altro lato, come si può notare, Garage Demy è un film sul fare il cinema, sul costruire artigianalmente e in modo epidermico la propria pellicola, sulle emozioni del bricoleur. Sulla pazienza smisurata che permette di costruire un rudimentale carrello montato su un pattino a rotelle, per filmare Attacco notturno. Il cinema fatto in soffitta si avvale di una struttura teatrale, palcoscenico e scenografia finta, ma ripresa con l'occhio del cinema, mobilitando il punto di vista. “Ora che ho finito il mio film non so più cosa fare”, confessa Jacquot: ritorna quell'urgenza di lavorare che lo aveva portato, senza alcuna esitazione sentimentaleggiante, a cancellare nell'acqua calda il filmino di Charlot e a sostituirlo con la sua primissima fatica, Le Pont de Mauves, attualità a disegni animati sugli aerei che se ne vanno dai cieli della Francia. Jacquot compra il manuale “On tourne” e gira Le avventure di Solange, sperimentando la direzione degli attori, travestendoli e trascinandoli come pesi morti sul set, alla ricerca dei loro personaggi. La sua esperienza della vita procede di pari passo con quella del cinema.

 

Il mondo è per Jacquot una grande occasione di scoperta, a patto che sia sostenuto dalla curiosità e dallo stupore che sono insiti nell'atto del riprodurlo, del fissarlo attraverso un lavoro artigianale che metta in gioco tutti i sensi dell'individuo: mentre impara ad intagliare il legno dallo zoccolaio, egli lascia capire che il suo lavoro artigianale (che è immediato sinonimo di passione) sarà quello di fare le sceneggiature per il teatro, il cinema, le marionette. Anche la temporalità attraverso cui Jacquot cresce è quella del cinema: egli diventa più grande nel lungo periodo di tempo impiegato a realizzare Attacco notturno e Jacquot 2 è sostituito da Jacquot 3.

 

Il piccolo Demy cresce anche per mezzo della musica, cantata dal padre in qualsiasi momento della giornata, ascoltata al fedele grammofono, che si porta in soffitta ogni volta che vi lavora. I suoni della canzone francese d'autore, da Trenet a Edith Piaf, mescolati a motivetti fischiati come la Cucaracha, sono colore allo stato puro; prevale in essi una ritmicità risolta, fluente, dove ogni spigolo è sempre soltanto un breve episodio, quasi un pretesto per ritornare in un batter d'occhio ad una armonia mai scomposta, che bene esprime una disposizione d'animo coerente e priva di incertezze. Da qui Jacquot approda alla musica classica, scelta come accompagnamento per il suo lavoro e vissuta proprio nella funzione che può apparire più banale, quella di veicolo di equilibrio e concentrazione, garante di una situazione di mistica adesione alle cose.

 

Dicevamo che se un polo del cinema di Agnès Varda è quello della scrittura filmica, l'altro investe senz'altro il problema della comunicazione. La scommessa di Garage Demy era quella di scrivere gli affetti di una donna per il proprio compagno scomparso, tentando di restare coerente con il proprio lavoro, e rispettando quindi pienamente l'Altro, il suo segreto più profondo, lasciando che fosse soltanto lui a spiegare, con la scrittura del proprio passato. I frammenti di immagine che mostrano Demy scavato dalla malattia esemplificano bene quel modo di avvicinarsi agli altri con l'approccio documentaristico di chi nutre grande rispetto per le cose che filma, partendo dal presupposto che mai esse si conoscono completamente. La mdp deve limitarsi a rievocare nel modo più discreto possibile, a mettere in scena senza tanti clamori, e poi deve soltanto stare a guar-dare cosa succede. Il punto di vista dell'Autore-donna-Agnès Varda lo si può registrare sempre e mai, vive della lievità della camera quando è alle prese con la rapprentazione dell' assenza e del desiderio,quando scorre sull'acqua senza più trovare il corpo che ha sempre cercato.

 

Eppure è soltanto lì che può ancora cercarlo, sulle rive di quell'Oceano che, poiché è un non-posto, non esi-ste e non ha bisogno di adattamen-to, pone la regista in una sorta di stabilità nei confronti di se stessa, come il personaggio di Emilie che lavora davanti al mare in Documenteur (1981). È l'esilio dal peso di ogni affetto. “Una rievocazione scrit-ta da Agnès Varda dai ricordi di Jacques Demy”, dice una scritta sui titoli di testa. Torna alla mente Elsa la Rose, dove la gioventù di Elsa Triolet era raccontata dal suo amante-poeta Louis Aragon, con le memo-rie della stessa Elsa.
 

 

Garage Demy è un grande atto d'affetto, un cinema del cuore che disintossica da quello dei buoni sentimenti”.

 

 

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