FILMS DA RISCOPRIRE
C’E’ SEMPRE UN DOMANI (1945) di Delmer Daves
La Warner Bros., come le altre Majors hollywoodiane, si dette da fare per sostenere, con la potenza del mezzo espressivo cinematografico, gli sforzi dell’amministrazione Roosevelt e Truman nella campagna bellica. Si trattava,tra l’altro, di produrre film che esaltassero il comportamento dei propri connazionali in armi e, per il fronte interno, delle famiglie incrollabilmente fiduciose nel buon esito finale e nobilmente disposte a rinunciare a piccoli agi quotidiani (burro, zucchero ecc.) a vantaggio degli enormi costi di guerra.
Alcuni di questi film della Warner travalicano di molto la soglia del prodotto propagandistico per diventare veri e propri capolavori, valga per tutti CASABLANCA (di Michael Curtiz). In altri casi, la grande professionalità dello Studio rese pregevoli films che, altrimenti, sarebbero stati considerati come di puro sostegno all’impegno armato.
Il film in questione è diretto da Delmer Daves che aveva esordito alla regia con DESTINAZIONE TOKYO (1943). Si tratta di un regista capace di realizzare opere veramente notevoli (LA FUGA, QUEL TRENO PER YUMA, L’AMANTE INDIANA, SCANDALO AL SOLE ecc.) ed altre di medio livello. E’ un regista che ha una certa inclinazione verso il melodramma ; non ci ha lasciato uno stile suo, personale, infine, mi pare di poter dire che il suo approccio al film è rilassato, senza quella particolare tensione che diventa spesso necessaria per ottenere il giusto climax drammatico. Il copione diventa importante quanto la stessa regia e gli attori vengono lasciati recitare senza forzare.
E’ importante notare questo fatto perché sia l’attore protagonista, John Garfield, sia gli sceneggiatori, A.I.Bezzerides (LA STRADA MAESTRA, NEVE ROSSA, UN BACIO E UNA PISTOLA), Alvah Bessie (Obiettivo Burma) e Albert Maltz (IL FUORILEGGE, MASCHERE E PUGNALI, LA TUNICA) sono tra le migliori intelligenze di quel periodo, autori di sceneggiature di film passati alla storia del cinema. Garfield, poi, è attore di grande sensibilità e di notevole impegno, professionale e civile. Insomma, C’E’ SEMPRE UN DOMANI merita un’analisi non superficiale, come forse è successo in passato. Accade infatti che dietro a alle apparenze, a volte, sia possibile rilevare elementi che concorrono a rivalutare certi giudizi.
Tutto parte da una storia vera. Un operaio saldatore di Filadelfia, Al Schmid, si arruola nei Marines e viene spedito nel Pacifico dove, a Guadalcanal, si batte da eroe ma alla fine viene colpito da una granata e perde la vista. Tornato in America, dopo un periodo di riabilitazione in un ospedale militare, torna a Filadelfia e si ricongiunge con la sua fidanzata che lo ha atteso e accolto pur nella sua menomazione.
Storie come questa vennero pubblicate su giornali e riviste come esempi di eroismo e, in certi casi, furono adattate per il cinema.
Nel caso in esame, uno scrittore, Roger Butterfield, colpito dalla storia, scrisse un libro dal titolo AL SCHMID MARINE. Bezzerides e Bessie ne trassero un soggetto di 26 pagine. Questo fu poi adattato per il cinema da Martin Borowski. Albert Maltz poi lo riscrisse e la sua fu la sceneggiatura finale. Nel frattempo, John Garfield, ancora prima di sapere del progetto della WB, si recò in ospedale per conoscere Schmid. Quando poi seppe che la WB aveva deciso di produrre il film, andò a Filadelfia e rimase qualche settimana presso la coppia (Schmid e la moglie) allo scopo di immedesimarsi il più possibile con il personaggio. Si era in precedenza recato presso alcuni ospedali militari americani in Italia per familiarizzarsi con i problemi e le situazioni di tali ambienti.
Il film si inserisce nel filone del ritorno a casa dei reduci dalla seconda guerra mondiale. Hollywood ha sfornato, per questo genere, prodotti di qualità, alcuni dei quali veramente straordinari, come I MIGLIORI ANNI DELLA NOSTRA VITA di William Wyler (1946) o ANIME FERITE di Edward Dmytryk (1946). Più che sulle vicende belliche, i film segnalavano le difficoltà di reinserimento di militari, amareggiati per l’indifferenza con cui venivano accolti e la scarsa riconoscenza di un Paese per il quale avevano rischiato più volte la vita e che ora non sembrava voler agevolarli.
In C’E SEMPRE UN DOMANI, il tema del ritorno a casa non è però quello principale. La questione è molto più complessa. La critica ha notato che questo film raffigura il percorso civile e morale di un cittadino medio americano rispetto all’atteggiamento che il Paese si aspetta in un momento drammatico come una guerra. Il percorso di presa di coscienza civile che Schmid compie ricorda quello di altri protagonisti di film significativi come Rick in CASABLANCA (1942) del citato Curtiz o Harry Morgan in ACQUE DEL SUD (1945) o il meccanico d’aereo Winocki in ARCIPELAGO IN FIAMME (1943)entrambi di Howard Hawks. Il punto di partenza è l’idiosincrasia verso il dovere civile da parte dei protagonisti. Si tratta di personaggi, apparentemente avulsi da ciò che accade attorno a loro, interessati solo alle loro attività, ai benefici economici, alla loro quotidianità. Nulla sembra scuoterli e addirittura mostrano un certo fastidio per le tirate retoriche, per i richiami all’impegno civile. Il loro è un piccolo mondo quotidiano marcato da un notevole menefreghismo sociale e da un sostanziale egoismo.
Qualcosa poi succede. Nel caso in esame, è l’annuncio di un collega di lavoro di Schmid di essersi arruolato nel corpo dei Marines per andare a combattere. E’ un fatto che appare incomprensibile per uno come Schmid. Il film lo dipinge all’inizio come un personaggio renitente ad ogni tipo di impegno che non sia il suo lavoro quotidiano. Lo dimostra il suo comportamento nei confronti della ragazza che una coppia di amici gli presenta, nella speranza di fargli mettere la testa a posto. Egli si comporta in modo maleducato con lei e sembra non interessato ad un rapporto serio. L’atteggiamento dignitoso e fermo della ragazza comincia a sgretolare poco a poco la sua scorza di donnaiolo impenitente. C’è quindi una doppia presa di coscienza da parte di Schmid: una di tipo civile e un’altra di tipo morale. Questo mutato atteggiamento diventa poi terreno fertile per maturare la scelta di arruolarsi e quella di iniziare una relazione seria con la ragazza.
I films citati sono quindi la storia di un percorso che parte da una posizione egoistica e finisce poi con la scelta dell’impegno. Hollywood, su invito del Pentagono e della Casa Bianca, costruisce così la base narrativa su cui elaborare una trama. In queste storie appare chiaro il messaggio. Esso è rivolto ad una Nazione ancora non del tutto convinta della necessità dell’impegno bellico, nonostante Pearl Harbor (7 dicembre 1941) e la conseguente dichiarazione di guerra contro il Giappone.
L’altro elemento base in questo film è il ritorno a casa del reduce. Non è solo una questione di inserimento sociale. Qui il problema è molto più grave. La cecità diventa una barriera che Schmid non ha intenzione di superare. Non è tanto la menomazione in sé quanto la chiusura da parte di Schmid verso tutto e tutti. Questa chiusura nasconde in realtà due paure: quella di essere incapace di superare le prove che la vita, prima o poi, lo chiamerà ad affrontare e quella secondo la quale Ruth, la fidanzata, sceglie di restargli vicino solo per pietà. Ma non siamo ancora arrivati al nocciolo della questione. Tutti questi sono elementi importanti, certo; ma c’è ancora qualcosa da dire e che, forse, spiega la ragione ultima del film stesso.
Quando un attore come John Garfield si prende così a cuore la vicenda di Schmid e quando scrittori socialmente impegnati come quelli sopra ricordati accettano di scrivere una sceneggiatura per un film di “sostegno” alla Nazione in guerra, c’è qualcosa che va oltre il classico impegno verso il proprio Paese. Mi riferisco al sapiente uso della terminologia e ad alcune frasi che apparentemente sembrano filar via senza particolare peso nel corso del film. Mi riferisco ad esempio all’uso dell’aggettivo dimostrativo che viene spesso messo davanti alla parola guerra soprattutto dal compagno commilitone di Schmid (Garfield), Lee Diamond (e cioè Dane Clark). Sembra che ci tenga in modo particolare ad usare l’espressione “questa guerra”. Questo fa pensare che l’impegno profuso dai militari come Clark e come Garfield sia soprattutto rivolto verso questa guerra in particolare e non altre. Sembra che questa (la seconda guerra mondiale) abbia caratteristiche diverse dalle altre guerre. Il contesto in cui viene pronunciata è legato alla condizione di Clark, che manifesta ad un certo punto tutta la sua amarezza nel constatare quanto esistano ancora le discriminazione di tipo religioso e razzista in America. Come cioè sia discriminante che egli vada alla sinagoga e non in chiesa, e il fatto di essere ebreo e non cristiano. “Io e te – dirà ad un certo punto- abbiamo bisogno di una patria dove nessuno possa essere maltrattato per nessuna ragione”. Nel finale del film, poi, Ruth dirà a Garfield che questa guerra è combattuta per la causa della libertà. Una frase che suona strana se si pensa che gli americani sono scesi in guerra soprattutto per vendicare l’infamia dell’attacco proditorio a Pearl Harbor e sconfiggere un nemico che minacciava di diventare la prima potenza nell’area asiatica e del Pacifico. E’ una frase che suonerebbe meglio in bocca ad un europeo che prende le armi per combattere contro il nazismo o il fascismo, negatori della libertà.
Si tratta di espressioni che, inserite in un contesto classico e abbastanza convenzionale di prodotto di sostegno al Governo, aprono squarci di originalità e anticonvenzionalismo che vale la pena approfondire.
Nella vita reale, ad esempio, era Garfield ad essere ebreo e non Dane Clark. Ricordiamo, a tal proposito, la sua intensa “performance” in LA BARRIERA INVISIBILE”(1948) di Elia Kazan. La partecipazione, insomma, a questa guerra, da parte di tanti giovani progressisti e l’avallo da parte di maturi intellettuali “liberal” democratici e progressisti, non ha tanto lo scopo di vendicarsi dell’attacco a Pearl Harbor, quanto di preparare il Paese a una stagione nuova, a rilanciarlo su basi di equità di diritti e di opportunità, di giustizia sociale e di libertà “tout court”.
L’avvento al potere da parte di Hitler nel 1933, dopo la marcia su Roma e la presa del potere da parte di Mussolini nel 1922, la guerra civile di Spagna (1936-1939), a cui partecipò lo stesso Alvah Bessie, l’attacco nipponico alla Cina, avevano svegliato la coscienza civile di tanti americani. Tuttavia, nonostante la sempre più chiara politica dittatoriale, la persecuzione di ogni manifestazione di dissenso e l’inquietante corsa agli armamenti da parte dei Paesi coinvolti, l’opinione pubblica americana, assieme alla politica governativa di non intervento, restava sostanzialmente disinteressata a quanto accadeva oltre oceano.
Sorgevano così movimenti progressisti sempre più organizzati allo scopo di sensibilizzare gli americani non solo verso ciò che succedeva in Asia e in Europa, ma anche le ingiustizie e gli abusi che venivano commessi negli USA nei confronti delle minoranze razziali, religiose ed etniche. L’azione di questi movimenti ed associazioni cominciava a destare qualche preoccupazione in certi ambienti, come ad esempio l’FBI, il cui direttore Edgar G.Hoover, sembrava allarmato da possibili infiltrazioni di spie nemiche altrettanto (se non di più) quanto dall’operato di cellule interne potenzialmente sovversive. L’agenzia di Hoover non era certo estranea alla “caccia alle streghe” avviata dal senatore repubblicano McCarthy alla fine della guerra.
La presenza a Hollywood di decine di artisti ed intellettuali rifugiati o semplicemente espatriati dalla Mitteleuropa, contribuiva infine a dare un rilievo particolare alle vicende europee, oltre a lasciare un’impronta artistica estremamente importante sulla produzione cinematografica (vedi il trionfo dello stile “Noir”).
Tutti questi elementi sono estremamente importanti se si vuole analizzare compiutamente il film in esame. In effetti, poi, noteremo che, a differenza di altri film, non ci sono particolari tirate patriottiche (se si esclude qualche espressione di Diamond). L’annuncio alla radio dell’entrata in guerra non suscita particolari reazioni.
Ella : Venite [a tavola]!
John : Guerra… ma siamo in guerra!
Ella : Sì caro, ma adesso andiamo a tavola che si fredda
John : Siamo in guerra, [la radio] ha detto che siamo in guerra!
Ella : Sì, lo so, ma adesso andiamo a mangiare che è in tavola
Loretta (la bimba): E tu vai a fare il soldato, Al?
Schmid : Preferisco sparare ai fagiani
Il ruolo di Diamone (Dane Clark), il compagno d’armi di Schmid, è quello del motivatore. Il significato, il perché, la giustificazione della guerra devono essere manifestati o attraverso immagini che da sole la giustificano (come fa Howard Hawks, per esempio, così poco incline ai discorsi edificanti) oppure attraverso un personaggio che motivi il protagonista ad entrare in guerra. Nel film in questione, il cambiamento di Schmid da cittadino disinteressato alla guerra a volontario nei marines è un po’ troppo frettoloso (ma forse la copia di cui sono in possesso è incompleta) ed è questo un punto debole. Non c’è infatti la figura del motivatore e non ci sono ancora situazioni che giustifichino questo cambiamento quasi repentino. Addirittura nel corso della stessa serata, Schmid prima dice che si diverte di più a sparare ai fagiani dopo aver detto di aver conosciuto dei giapponesi che non gli sembravano poi così tremendi. Poi al momento di tornare a casa, si confida con Ruth e dice : “Sai, forse mi diverto di più a sparare ai giapponesi”. Come si è detto all’inizio, il passo decisivo per arruolarsi è causato da un compagno di lavoro di Schmid, il quale mostra orgoglioso il foglio dell’arruolamento nei Marines.
Il motivatore, curiosamente, viene utilizzato non per spingere Al Schmid ad arruolarsi, ma per convincerlo ad avere fiducia in se stesso e nella società. C’è insomma un rilievo maggiore dato non tanto all’arruolamento quanto al reinserimento.
A questo proposito, nella versione italiana era stata tagliata una sequenza girata nell’ospedale in cui Schmid si trova per riprendersi dalle ferite e tentare un intervento per recuperare la vista. Alcuni commilitoni manifestano rabbia ed amarezza perché si rendono conto che il loro reinserimento non sarà agevole e cominciano a prendersela un po’ con tutti.
Ad un certo punto, uno di loro accusa i messicani di prendere i loro posti e se la prendono con le istituzioni per non facilitare la ricerca di un lavoro.
Dane Clark, il motivatore, si lascia andare ad una tirata retorica ma usa una parola che è un po’ la chiave di tutta la situazione e cioè la solidarietà. “Perché non fare in modo che ci sia una medesima solidarietà sia in pace sia in guerra?”.
Non vengono usate parole come patria, dovere, sacrificio: viene usata la parola solidarietà che sta per fratellanza, equità, condivisione. Per agevolare il reinserimento, non serve predicare e pronunciare parole che suonano a presa in giro. Uno dei commilitoni all’ospedale dichiara di provare più paura ad inserirsi ora di quanta ne ha provata a Guadalcanal.
Se certe parole non convincono più, è perché dietro ad esse ci sono valori tradizionali che hanno perduto definitivamente la loro carica morale: suonano come vuote. Per costruire una società diversa serve ora solidarietà, condivisione, impegno sociale. Ma a smuovere definitivamente Al sarà l’accusa che Ruth gli rivolge e cioè quella di essere un egoista e di pensare solo al proprio orgoglio e al proprio autocompatimento.
Questa guerra va combattuta non solo per sconfiggere il fascismo, ma per rifondare una società diversa, non egoista, ma solidale.
Dietro a questo messaggio c’è una tensione sociale ed ideologica che vorrebbe sgretolare le fondamenta del sistema americano fondate sull’individualismo, sulla competizione sfrenata, sull’arricchimento come base per il successo.
Come si vede, si tratta di posizioni che presto avrebbero destato i sospetti dell’HUAAC e dell’FBI. Le avrebbero definite posizioni ed attività non americane. E sarebbero poi sfociate in uno dei periodi più bui della recente storia degli Stati Uniti.
Non esiste, almeno a tutt’oggi, una copia né in VHS né in DVD di questo film. Alla copia in mio possesso è stata reintegrata la parte originariamente tagliata in modo grossolano e stupido. E’ stata trasmessa anni fa da Telemontecarlo e da allora non mi pare di averla più vista in programmazione. La parte reintegrata non è però doppiata e neanche sottotitolata. Viene fatto un riassunto schematico e povero dei dialoghi tramite una voce fuori campo. Un vero delitto. Spero che presto si ponga rimedio.
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