Terz’ultimo film del maestro russo e da molti considerato l’apice della sua carriera, Stalker costituisce una svolta all’interno della cinematografia tarkovskiana. Un viaggio tanto simbolico quanto realistico, tanto psicologico quanto fisico all’interno della Zona, luogo di perdizione ma anche di raccoglimento in cui si spalanca per i protagonisti la possibilità di interfacciarsi con i propri desideri più autentici e profondi.
Se la costruzione teleologica del cinema classico implicava una chiusura, una meta, una morte, qui la fine è soltanto l’occasione per un ritorno all’inizio, per il rilancio di quella ripetizione a cui lo Stalker si sente incatenato. Ma non dobbiamo lasciarci ingannare: la narrazione diventa circolare e il movimento un falso movimento, un movimento sul posto, solo se si decide di evitare il contatto con l’esperienza che il film costruisce, solo se ci si distrae rispetto a quell’introspezione che il regista ci invita ad attuare.
Se ci si decentra, ci si genuflette e sottomette al mistero del mondo, l’egoismo dilegua e si acquisisce quell’umiltà in grado di spezzare l’incantesimo prodotto dalla circolarità e di far rifluire le acque del tempo.