I “pattern d’interazione tra i gufi e l’ambiente” che sono alla base della ricerca (atta a stilare, oltre a una tesi di dottorato, anche un piano strategico con precise linee guida per la creazione di una struttura protezionistica inter/sovra-nazionale atta a salvaguardare quelle vaste aree selvagge e le specie caratteristiche e peculiari che le abitano, non ultimi tigri dell’Amur - Panthera tigris altaica - e varie specie di orsi, leopardi dell’Amur - Panthera pardus orientalis - e moschi muschiferi) di Jonathan C. Slaght e soci in questo memoir/reportage naturalistico di divulgazione scientifica soft (ma comunque mai banale e interessantissima anche dal PdV scientifico anche per gli addetti ai lavori) scritto dal ricercatore, naturalista, conservazionista, biologo della fauna selvatica specializzato in ornitologia e coordinatore del ramo russo e nord-asiatico, ovvero della regione dell’Asia Temperata, del WCS (Wildlife Conservation Society) originario del Minnesota, classe 1976, condividono il racconto con quelli che si sono venuti a creare tra gli esseri umani (russi e statunitense: oltre agli scienziati e ai tecnici sul campo, anche boscaioli, taglialegna di frodo, eremiti, latitanti, pescatori/cacciatori, bracconieri, ispettori forestali, naufraghi ed ex agenti del KGB e dell’FSB, mediamente o più alcolizzati ed amanti delle fonti termali radioattive riscaldate dal radon) che negl’inverni ed inizio primavere tra la metà e la fine degli Anni Zero (ma il racconto si spinge sino all’alba degli Anni Venti, incrociando anche il devastante passaggio che il tifone Lionrock ebbe a compiere sulla Riserva della Biosfera dei Monti Sichote-Alin’, un po’ quello che avvenne - fatte le debite proporzioni... i due fenomeni sono equiparabili - con la tempesta mediterranea Vaia in Europa meridionale) passati nel Territorio del Litorale, l’estrema porzione orientale dell’enorme estensione geografica, coi suoi 17 milioni abbondanti di chilometri quadrati, ch’è la Federazione Russa, hanno prima individuato ascoltandone i richiami riecheggianti tra gli alberi spogli (betulle, salici e larici) e le macchie di sempreverdi (abeti) delle foreste riparie (fluviali e litoranee) miste (latifoglie e conifere) e cercandone le caratteristiche impronte…
…a forma di “k” lasciate sulla neve nelle zone di caccia, poi catturato (marcandoli/inanellandoli, pesandoli, misurandoli e prelevandogli campioni di sangue) ed infine dotato di triangolanti trasmettitori radio e satellitari e data logger (registratori/raccoglitori di dati digitali che sarebbero stati recuperati e scaricati in successive ricatture) i gufi pescatori di Blakiston (Bubo blakistoni, scoperto da Thomas Blakiston nel 1883 poco sopra la linea di confine faunistico che porta il suo nome e catalogato e descritto da Henry Seebohm nel 1884), tra i più rari (i 2.000 esemplari stimati esistenti, suddivisi tra 850 coppie più o meno stabili e i vari giovani nati che si susseguono di anno in anno, con una media di solo 1,5 pulcini x coppia, oltre che in quella russa porzione di mondo lunga e stretta in asse nord-sud vivono anche in Giappone, nella grande isola settentrionale di Hokkaido e nell’adiacente porzione meridionale dell’arcipelago delle isole Curili, sempre russe, e in Manciuria (Cina), spingendosi fino alla penisola coreana: nella lista rossa, l’elenco degli stati di conservazione, della IUCN, l’International Union for the Conservation of Nature, è classificato come EN, cioè EnDangered, vale a dire “Minacciato: In Pericolo”) e grandi rapaci notturni (strigiformi) del pianeta Terra.
Colophon. Jonathan C. Slaght - “Owls of the Eastern Ice: a Quest to Find and Save the World's Largest Owl” - FSG, New York, 2020 (Iperborea, Milano, 2024; traduzione di Luca Fusari; 352 pagine, 19.50 euro).
"Attorno a noi accadeva qualcosa di incredibile. Il vento infuriava con forza tale da strappare i rami e soffiarli via […]. Pini antichi ed enormi dondolavano come piantine dal tronco esile. E non vedevamo nulla: non le montagne, né il cielo, né la terra. La tormenta aveva ingoiato tutto […]. Ci rintanammo nelle tende, ridotti al silenzio." – Vladimir Arsen’ev, "Po Ussurijskomu Kraju", 1921.
Arsen’ev (1872-1930), esploratore e naturalista, descrisse in numerosi testi il paesaggio, la fauna, la flora e gli abitanti del Territorio del Litorale. Fu uno dei primi russi ad avventurarsi nelle foreste descritte in questo libro.
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«Tigri maledette», borbottò, e tornò in casa senza più pensare alla legna, a Tolja e ai gufi pescatori. Ne rispuntò qualche momento dopo, sempre in mutandoni e stivali, ma con in più una giacca e un cappello di pelo, e un fucile. Balzò sul suo trattore, un arnese vecchio e arrugginito, e avviò il motore gettando occhiate di disprezzo verso il confine della foresta. In molti, nell'Estremo Oriente russo, considerano le tigri animali ingordi e vagabondi che con il loro appetito insaziabile sterminano alci e cinghiali. Per una parte dei cacciatori la cui sopravvivenza dipende interamente dalla foresta sono una minaccia a cui sparare a vista. Recenti studi scientifici hanno dimostrato che di solito la tigre dell'Amur uccide un solo animale alla settimana, e che a causa del rapporto tra la sua popolazione e l'estensione del territorio che occupa (a ogni individuo corrisponde un'area tra i 400 e i 1400 chilometri quadrati) ha un impatto trascurabile sul numero di cervi o cinghiali. I veri colpevoli della drastica diminuzione di ungulati sono gli uomini, che li cacciano in eccesso e ne distruggono l'habitat. Purtroppo prendersela con le tigri è facile, tanto quanto è difficile far cambiare idea a persone dalla testa dura come la vita che fanno, anche con le statistiche alla mano.
Con Artem Bystrov, Natalya Surkova, Darya Moroz, Kirill Polukhin, Boris Nevzorov
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Russia, in generale.
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Dopo pranzo Sergej e io facemmo scorta di caramelle e salsicce e partimmo per il fiume. Sergej rallentò e fermò la motoslitta al confine di Agzu, davanti a una baita che non riconoscevo. Dentro, di fronte alla finestrella della porta d'ingresso, un uomo si sbracciava. Sembrava nel panico, aveva gli occhi sgranati e ci chiedeva di avvicinarci. «Resta qui», mi disse Sergej. Scese di sella, varcò il cancello del giardino e percorse una passerella d'assi di legno fino alla veranda. L'uomo, da dentro casa, indicava qualcosa e strillava, e solo a quel punto notai che all'esterno della porta dondolava un lucchetto, sbloccato ma infilato negli occhielli e perciò sufficiente a tenerla chiusa. Sergej si fermò a guardare l'uomo intrappolato che continuava a implorare e indicare. Nei suoi gesti c'era qualcosa che non gli tornava, perché prima di togliere il lucchetto e tornare alla motoslitta ebbe un attimo di esitazione. L'uomo schizzò fuori come un animale da una gabbia. Il modo frenetico e maldestro in cui superò di corsa Sergej e il cortile e uscì in strada era il segno di una mente troppo isterica per coordinare il corpo. Guardai la porta spalancata e nella penombra, all'interno, vidi un bambino. Avrà avuto sei anni. Lo indicai a Sergej, che si voltò di scatto e imprecò. «La sua signora l'ha chiuso dentro per non farlo andare a bere», spiegò Sergej. «Lui però non mi ha detto che c'era un bambino...» Il bambino sbirciò al freddo nella direzione in cui il padre era ormai scomparso, poi chiuse la porta in silenzio.
Čepelev era ancora irritabile e lo fu anche a cena. Forse cominciava già a stancarsi della nostra compagnia; per chi è abituato alla solitudine, avere intorno quattro sconosciuti per tre giorni può essere snervante. Verso la fine della se conda bottiglia di vodka protestò contro la «cospirazione omosessuale-giudaica» che a Mosca cercava di erodere i valori russi e introdurre quelli occidentali, lentamente e quasi impercettibilmente, attraverso la sovversione culturale e sociale. Finalmente cominciavo a capire il perché della sua freddezza nei miei confronti; la sua paranoia mi faceva pensare ad Arancia meccanica, il romanzo di Anthony Burgess in cui l'Occidente postmoderno è corrotto, violento e influenzato dall'Unione Sovietica sia sul piano ideologico sia della comunicazione (il Nadsat, la lingua fittizia di Burgess, è un inglese impastato di parole russe). Ma funzionava al contrario: l'influenza sovietica sul mondo si era affievolita, il lessico della Russia aveva inglobato paro- le inglesi e gli ideali dell'Occidente permeavano la cultura russa. Alcuni, come Čepelev, erano preoccupati e amareggiati.
[Trovarsi dalla parte giusta del corso di un dato fiume prima che il disgelo primaverile trasmuti il ghiaccio in poltiglia rendendo oltremodo difficoltoso, insidioso e pericoloso il passaggio (se guadando un fiume che si trova in quella condizione scivoli e cadi in acqua finendo per essere trasportato sotto alla superficie ghiacciata il congelamento diventa una speranza) e poi le conseguenti piene trasformino l'asta torrentizia in un invalicabile flusso dirompente d'acqua rendendo l'attraversamento del tutto impossibile.]
Titolo originale Unearthed & Untold: The Path to Pet Sematary
Regia di John Campopiano, Justin White
Con Miko Hughes, Denise Crosby, Dale Midkiff, Blaze Berdahl, Brad Greenquist, Mary Lambert
Trovammo quasi subito un sentiero stretto che ci portò in una foresta buia di giovani abeti e abeti rossi. Sergej rimase deluso: non era affatto l'habitat del gufo pescatore. In lontananza vedemmo una piccola radura con una baita di cacciatori e la raggiungemmo. La casetta sembrava disabitata da un po' di tempo e fu una sorpresa veder saltare giù dalla grondaia un gatto domestico, un soriano dal pelo lungo, sporco e incrostato. Ci salutò miagolando disperato. Immaginai che stesse morendo di fame, ma non avevamo portato niente da mangiare oltre il fiume. I cacciatori spesso tenevano uno o più gatti nelle baite per limitare il numero di roditori, portatori di hantavirus, che penetravano nelle pareti di legno e dai pavimenti porosi ma, ahimè, a volte li abbandonavano alla fine della stagione. Mi era già capitato di trovare carcasse di gatto dentro capanne vuote. Passammo oltre con il gatto alle calcagna e scoprimmo che la valle si restringeva ulteriormente e le conifere della foresta serravano le fila fino a renderne il fondo un soffice tappeto di aghi aromatici. Non era quello che cercavamo. Abbandonammo il sentiero e tornammo indietro verso la Kema. Il gatto ci seguì. Sergej maledisse il cacciatore che lo aveva abbandonato e gettò qualche ramo per ricacciare l'animale verso la baita. Lui capì le nostre intenzioni e il suo miagolio enfatico si fece irritato e rancoroso. Per un altro chilometro ci seguì a distanza, invisibile ma ancora udibile. A un certo punto ci riavvicinammo al fiume quanto bastava perché il rumore dell'acqua coprisse i lamenti. Guadammo senza voltarci indietro.
[Senza sicura pulisco il fucil! Senza sicur, senza sicur!]
La tormenta non aveva fatto danni soltanto li: la sorte peggiore, catastrofica, era toccata alla popolazione locale di ungulati. Non potendo muoversi liberamente, moltissimi cervi e cinghiali morirono per sfinimento e fame. E come se non bastasse, la crisi svelò il lato oscuro di qualche residente del territorio di Ternej. Tanti cervi, costretti a spostarsi sulle strade sgomberate dalla neve, unici corridoi praticabili, erano vulnerabili ed esposti agli attacchi. Persino gente che di solito non cacciava cominciò a pattugliare le strade, inebriata dalla facilità con cui li poteva uccidere. Inseguivano gli animali esausti e li finivano alla meglio con fucili, coltelli o vanghe. Nella carneficina a cui si abbandonarono non c'era nulla di onorevole né di leale. Roman Kožičev, l'ispettore provinciale per la fauna e la flora, pubblicò sul quotidiano locale un editoriale in cui chiedeva ai residenti di lavarsi il sangue dalle mani e di tornare al buonsenso, prima che le foreste rimanessero disabitate.
Catturammo e liberammo il maschio del fiume Sajon in fretta, sostituimmo il suo data logger e conservammo quel. lo vecchio per la femmina, ma a fine marzo scoppiò una tormenta, un accecante delirio di vento e neve che fece traballare il GAZ-66 e seppellì la nostra legna e la Hilux. In quelle condizioni non potevamo lavorare e ci toccò rintanarci nel camion. Katkov, ancora nero di rabbia per l'ostracismo subito, rimase nella tenda e si presentava soltanto all'ora dei pasti. Ma era scoppiata anche un'altra tormenta, nella mia pancia. Dal momento che gli altri non stavano male, probabilmente non era colpa della cucina di Kolja. Feci un elenco dei comportamenti a rischio in quelle condizioni di vita e ne trovai parecchi. Per prima cosa, l'acqua che bevevamo e con cui cucinavamo conteneva radon, perché nessuno aveva voglia di fare cento metri a piedi in piena tormenta con un secchio pieno d'acqua fresca di fiume. Chissà come stava reagendo alle radiazioni il mio sensibile intestino occidentale. In secondo luogo, avevo mangiato una fetta di salsiccia caduta e rotolata sul disgustoso pavimento del GAZ-66. Terzo, avevo usato il mio coltello per aprire la pancia di una rana morta in cui mi ero imbattuto, dopodiché - quarto e quinto - senza lavare né la lama né le mie mani avevo tagliato e mangiato - sesto e settimo - del pane. Il tutto in un solo mattino: per forza stavo male.
Il mio disagio era fonte di grande ilarità per il resto della squadra che, assediata dalla ne neve, passava il tempo giocando a carte e bevendo tè con i biscotti. Quando mi vedevano infilare in fretta i pantaloni da neve, balzare giù dal camion e correre per la palude ghiacciata fino alla buca che mi ero scavato tra i cespugli, ridacchiavano. Là, uno spesso strato di neve si accumulava sulla mia triste sagoma rannicchiata.
Mentre camminavo vidi dei caprioli e fui contento che un po' di vita fosse rimasta; nelle aree di Ternej e Amgu non avevo visto praticamente nemmeno un'impronta nella neve. Quando fui nei pressi del fiume tre cornacchie nere gracchiarono agitate dal confine della foresta. Due mi sorvolarono, girarono in cerchio e tornarono indietro. Seguii con lo sguardo la loro traiettoria e a terra, tra i pini, vidi muoversi qualcosa: un cinghiale. Possibile che le cornacchie mi avessero avvisato di proposito che era lì, sperando di poter banchettare con gli scarti che i cacciatori di solito lasciano? Seguii con lo sguardo l'animale finché non se ne andò placido, ignaro che la sua presenza fosse stata tradita.
Conclusa la stagione di indagini sul campo potei dedicarmi esclusivamente ai dati raccolti dai dispositivi satellitari e in poco tempo ricostruii alcuni pattern di interazione tra i gufi e l'ambiente. Ciascun territorio aveva il suo «centro» in corrispondenza del nido, dal quale i gufi si allontanavano in maniere e lungo distanze che cambiavano nel corso dell'anno. D'inverno vi gravitavano attorno: logico, soprattutto durante la cova, quando la femmina stava quasi sempre nel nido e il maschio faceva la guardia e le portava da mangiare. In primavera tendevano a spostarsi a valle, fino al confine con i territori di altre coppie o a margini naturali come la costa del Mar del Giappone. D'estate quasi tutti invertivano la direzione e stazionavano lungo i tratti superiori dei loro fiumi di riferimento e dei relativi affluenti. I movimenti autunnali, infine, erano i più inaspettati, perché certi gufi abbandonavano il centro del territorio, risalivano i corsi d'acqua quasi fino alle sorgenti e tornavano al nido soltanto a inizio inverno. Mostrai una mappa dei movimenti stagionali a Sergej, che picchiettò lo schermo all'altezza delle posizioni autunnali.
«È dove vanno a deporre le trote», disse. «Seguono i pesci.»
Da quando, anni prima, avevo completato la tesi sugli uccelli canori, non ero più tornato nel Litorale d'estate, e mi diede le vertigini. Le foreste che ero abituato a vedere gelide, spaziose e mute si riempivano di vegetazione claustrofobica e di uccelli assordanti. I piccoli luì di Pallas, con il loro canto da mitragliatori impazziti, stavano appollaiati tra le chiome più alte a sparare raffiche di trilli in tutta la valle. Dagli angoli bui e umidi della foresta i pigliamosche biancoblù intonavano canti eterei che volteggiavano come ricordi al margine della mia percezione. Più vicino al fiume sorpresi una donnola siberiana, piccolo e agile predatore nonché fulmine di pelo color ruggine, che sparì tra i rami di un ingorgo di tronchi. Vidi pochi altri mammiferi - quasi tutti sapevano evitare gli umani nella foresta - ma sul fango morbido delle rive del fiume spiccava un intreccio di impronte di tante specie diverse, orsi bruni, lontre e cani procione.
Come testimonial delle campagne di conservazione, il gufo pescatore è meno noto e meno carismatico della tigre dell'Amur. Oggi molte più persone lo conoscono grazie alle nostre ricerche, e stiamo lavorando per aumentarne la popolazione, ma d'altro canto è aumentato anche l'interesse per la tigre. Se ne occupa persino il Governo russo, ai massimi livelli: il presidente Putin è stato diverse volte nel Litorale a controllare l'attività di conservazione, e ha personalmente organizzato a Mosca un congresso internazionale sulla tigre coinvolgendo celebrità come Leonardo DiCaprio e Naomi Campbell. Le organizzazioni ecologiste dedicano intere campagne di finanziamento alla tigre dell'Amur e ogni anno raccolgono milioni di dollari. Il gufo pescatore, invece, deve accontentarsi delle poche borse che Surmač e io riusciamo a racimolare.
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