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"Quelli della San Pablo" è uno dei più bei kolossal mai realizzati. Non un banale polpettone esotico senz'anima, ma un film intenso e coinvolgente, nonostante la sua lunga durata, storicamente accurato e diretto da un Robert Wise (regista quanto mai versatile) al suo meglio.

La splendida fotografia del veterano Joseph MacDonald, l'evocativa colonna sonora di Jerry Goldsmith, la potenza di certe sequenze (la morte di Mako, lo sfondamento della barriera), e, soprattutto, il carisma di Steve McQueen, fanno il resto.

La sequenza finale alla missione, con McQueen che si sacrifica per coprire la ritirata ai compagni che stanno portando in salvo Candice Bergen, è da brividi.

"Quelli della San Pablo" ebbe otto Nomination all'Oscar (tra cui una per l'interpretazione di McQueen, l'unica della sua carriera), ma non portò a casa nessuna statuetta.

Premessa: i film che John Wayne interpretò nell'ultima parte della sua carriera furono quasi tutti di scarso livello, complice la sua collaborazione con il pessimo Andrew V. MacLaglen, che lo diresse in pellicole scipite e ormai fuori tempo massimo.

Ci voleva uno come Don Siegel per risollevare il Duca da questo piattume e regalargli un'uscita di scena memorabile.

"Il pistolero" è un western crepuscolare, in cui i cavalli sono stati soppiantati dalle automobili e il "progresso" avanza inesorabilmente. La gente del West si è inaridita, e, tra sceriffi vigliacchi e vanagloriosi (Harry Morgan), donne avide e calcolatrici (Sheree North), giornalisti sanguisughe (Rick Lenz) e infidi rivali (Richard Boone), non c'è più spazio per "dinosauri" come John B. Books (John Wayne), vecchio pistolero tutto d'un pezzo a cui non resta molto da vivere per via di un brutto male.

Il fatto che Wayne, nella realtà, fosse realmente malato di cancro, rende ancora più toccante la conclusione di questo bellissimo film, in cui il protagonista, piuttosto che aspettare che la malattia lo uccida lentamente, decide di morire "con gli stivali ai piedi", affrontando i suoi vecchi rivali in un duello mortale. La scena finale, in cui Wayne, ferito mortalmente dopo aver ucciso i suoi tre avversari, viene freddato con una fucilata alla schiena dal barista, è straziante.

Da alcuni considerato una versione de"I gangsters" in tono minore, "Doppio gioco" è invece un noir archetipico, in cui troviamo tutti gli elementi caratteristici del genere: la passione malsana di Lancaster verso la donna "fatale", il passato che ritorna, l'impossibilità di sottrarsi ad esso, la totale incapacità del protagonista di controllare gli eventi, e, conseguentemente, la sua caduta inesorabile verso il basso. Il tutto condensato in appena un'ora e ventisette minuti di durata, gestiti dal regista con assoluta maestria e con un utilizzo sapiente dei flashback.

Splendida l'immagine finale, che richiama, sorpendentemente, "La pietà" di Michelangelo.

In piena New Hollywood, un film come "Chinatown", che recupera stilemi e atmosfere dei vecchi noir, potrebbe sembrare un corpo estraneo. Ma in realtà non lo è affatto. Il film di Polanski (qui in una delle sue prove migliori) riesce a rinnovare il genere contaminandolo con la disillusione e la demistificazione tipica degli anni settanta. Nonostante la trama un pó labirintica (ma è normale in pellicole di questo genere, vedi "Il grande sonno"), il film ha un grande fascino e centra pienamente l'obiettivo.

Più che l'interpretazione di Nicholson (incredibilmente misurato), rimangono nella memoria Faye Dunaway e soprattutto il mitico John Huston nello sgradevole ruolo di Noah Cross. Finale senza speranza.

"Lolita" è meno noto rispetto ad altre opere di Kubrick come "Full Metal Jacket" o "Shining", e, indubbiamente, molto meno celebrato.

La trama in breve: il maturo intellettuale Humbert Humbert (James Mason) si o invaghisce della conturbante Lolita (Sue Lyon), appena una ragazzina. Questa sua passione prende presto i connotati di una morbosa ossessione, che gli farà perdere il controllo delle sue azioni, conducendolo perfino all'omicidio. "Lolita" è un lucido e quanto mai spietato resoconto della caduta di un uomo, narrato da Kubrick con il suo consueto distacco e la sua implacabile geometria. A tal proposito è emblematica la rabbiosa reazione di Humbert quando scopre all'ospedale che Lolita è fuggita con Quilty (Peter Sellers), per non parlare dello sconsolato finale.

L'ultimo grande western classico, che però di classico ha ben poco. Sam Peckinpah firma il suo capolavoro, con il quale mette la parola fine ad un'epopea fatta di individualismi eroici e leggende. La visione di Peckinpah è profondamente pessimistica, e il suo è un West senza eroi: Pike Bishop (William Holden) e Dutch Engstrom (Ernest Borgnine) non sono certo delle figure positive, ma dei banditi senza scrupoli. Ma nonostante siano dei fuorilegge, questi individui hanno un loro ferreo codice d'onore, un codice d'onore che li porterà ad andare incontro alla morte, senza battere ciglio, in uno dei finali più belli (e violenti) della storia del cinema.

Una sorta di "Match Point" ante litteram, in cui Allen affronta lucidamente tematiche che gli sono da sempre state particolarmente care: delitti senza castigo; i cattivi che invece di essere puniti prosperano mentre la gente onesta viene umiliata; il silenzio di Dio e la consapevolezza di vivere un'esistenza priva di senso. D'antologia la battuta finale di Martin Landau rivolta a Woody Allen: "Se vuole un lieto fine vada a vedere un film di Hollywood".

Tratto da un soggetto di James Kennaway, "Whisky e gloria" è una pellicola britannica di grande valore, in cui il cambio della guardia in una caserma scozzese si trasforma in un sottile gioco al massacro tra due ufficiali dal carattere antitetico: il bonario Sinclair, dedito all'alcool e dall'atteggiamento abbastanza conciliante (Alec Guinness) e il maniaco della disciplina Barrow (John Mills), per altro provato dalle torture subite durante la prigionia in guerra.

La scena del suicidio di Barrow è raggelante, come anche il finale, con Sinclair privo ormai del lume della ragione che impartisce ai suoi sottoposti ordini assurdi e deliranti in merito al funerale di Barrow.

Per molti una deprimente versione della celeberrima leggenda popolare, "Robin e Marian" è in realtà un film pieno di malinconia e poesia (ma anche molta ironia), in cui ritroviamo un Robin invecchiato e disilluso (Sean Connery), e Marian (Audrey Hepburn) che, stanca di aspettarlo, si è fatta suora.

In compenso però la situazione a Nottingham non è certo cambiata, con lo Sceriffo (Robert Shaw) e i suoi uomini che continuano ad opprimere la popolazione. Ma Robin è troppo vecchio e stanco per guidare rivolte. O forse no?