È un libro di libri, “Fen, Bog & Swamp - A Short History of Peatland Destruction and Its Role in the Climate Crisis”, l’ultimo, impressionante saggio (2022) di Annie Proulx (1935): stratificato come le torbiere basse, le torbiere alte e le foreste torbiere (questo il significato italiano dei tre termini comuni/volgari e non sinonimi che ne compongono il titolo) di cui parla trattandone — affidandosi ad una sterminata bibliografia scientifico-specialistica e narrativo-letteraria sulle paludi (e sui paduli), gli acquitrini, le lame, i pantani e le torbiere/brughiere riportata nelle note raccolte non a fine volume ma dispiegate a piè di pagina lungo il corpo del testo, da “MoseFolket” (“the Bog People”) di Peter Vilhelm Glob a “the Naturalist on the River Amazons” di Henry Walter Bates, passando per Henry David Thoreau, Aldo Leopold e Rachel Carson (e "Doonesbury" di Garry Trudeau) — gli aspetti biologici (botanico-faunistici), idrogeologici e storico-antropocenici con indomito spirito scientifico-divulgativo e poetico-letterario, potrebbe anche essere inquadrato come un’appendice al monumentale “the OverStory” di Richard Powers e un complementare corollario al “BarkSkins” (2016), l’ultimo romanzo di finzione della stessa Annie Proulx (ambientato in parte nelle foreste delle Montagne Rocciose oggi costantemente colpite da incendi cronici), spingendosi sino ad oltrepassare i confini ed addentrarsi anche, se pur di striscio, negli altri immensi serbatoi di anidride carbonica immagazzinata dalla/nella biosfera del pianeta Terra, dal permafrost (in discioglimento) alle foreste pluviali (in disboscamento), passando per gli oceani (in surriscaldamento) e incrociando le storie passate, presenti e future del DoggerLand (l'Atlantide del Nord, raccontata anche da Ian Anderson all’inizio di "Homo Erraticus") e della frana sottomarina di Storegga (in zona mainstream, se pur SF, si pensi a "Der Schwarm" di Frank Schätzing), dello Star Carr, della Sweet Track(Way) e del Big Bone Lick, dell’idolo di Sigir e del dantesco cratere termocarsico di Batagaika, dell’uomo di Tollund e dell’uomo di Grauballe, passando - attraverso i ponti di radici viventi di Ficus elastica costruiti dai popoli Khasi e Jaintia dell’India - per altri smisurati giacimenti di bi/di-ossido di carbonio quali il Pantanal brasiliano e la Cuvette Centrale del bacino del Congo…
Albrecht Dürer, il grande pittore del Rinascimento nordico, era profondamente interessato al mondo naturale e al paesaggio. Il suo splendido acquerello del 1503, “La Grande Zolla”, delizia gli spettatori da cinquecento anni. Dipinse l'acquerello meno splendido ma informativo Der Weiher ("Il Laghetto") nel 1497, dopo il suo primo viaggio in Italia, dove trovò un'atmosfera più favorevole agli artisti rispetto a Norimberga e scrisse al suo amico di lunga data, l'umanista Willibald Pirckheimer: "Qui sono un signore... a casa uno straccione". Questo schizzo è la prima rappresentazione nota dell'artista di una zona umida naturale. Dürer colse lo stadio di transizione tra torbiera bassa e torbiera alta, mostrando "la zona marginale umida del lagg e la cupola sopraelevata aperta come componenti caratteristiche di una sola e unica torbiera alta". La zona del lagg è l'area superstite di canneto tra la torbiera alta e il suolo minerale esterno, dove nel racconto di Nabokov [“Terra Incognita”] crescono i giunchi dorati.
Colophon. Annie Proulx - “Fen, Bog & Swamp -A Short History of Peatland Destruction and Its Role in the Climate Crisis” - 2022. Edizione italiana: “la Palude”; Aboca, il Bosco degli Scrittori, 2023; traduzione di Teresa Albanese; brossura rilegata filo refe, 272 pagg., 20.00 €.
Da giovane, Darwin collezionava coleotteri e nella sua autobiografia dichiarava la sua passione: "Ecco una prova del mio zelo: un giorno, strappando una vecchia corteccia d'albero, vidi due coleotteri rari e li presi, uno in una mano, l'altro nell'altra; poi alla vista di un terzo, di tipo nuovo, che non volevo perdere, mi misi in bocca quello che tenevo nella mano destra. Ma, ahimè, l'insetto emise un liquido acre che faceva bruciare la lingua, così fui costretto a a sputarlo e lo persi, come avvenne anche del terzo". La profondità della passione di un collezionista è esemplificata dal momento in cui Alfred Russel vide per la prima volta la Ornithoptera croesus, un'abitante delle umide foreste indonesiane. "Il mio cuore cominciò a battere all'impazzata, il sangue mi affluì alla testa, e mi sentii svenire, molto più di quanto mi sia successo nel timore di una morte immediata, e per il resto della giornata soffrii di mal di testa." Vladimir Nabokov descriveva così la sua fissazione personale: "In verità, poche cose ho conosciuto che, dal punto di vista dell'emozione o del desiderio, dell'ambizione o della conquista, riescano a superare, per intensità e potenza, l'eccitamento dell'avventura entomologica".
Qui […] vediamo la mentalità vittoriana in azione: molti inglesi, se durante gli ultimi anni della bonifica delle torbiere esprimevano una profonda tristezza e cordoglio, nello stesso respiro lodavano i campi di grano e mais che avevano rimpiazzato le zone umide selvatiche. Mi viene in mente il commento di uno dei pionieri del West americano, il quale riteneva che la sconfitta degli indiani fosse "essenziale, per quanto tragica". Anche questo è tipico della psiche umana: un senso bruciante di perdita irrevocabile aggiogato a un'accettazione fatalista del "progresso" e del "miglioramento" nella idea arrogante che l’“adesso” - l'epoca in cui viviamo noi - sia superiore a tutte le epoche precedenti. Le prove offerte di solito sono i "progressi" tecnologici.
La storia economica moderna dell'Occidente racconta del dominio incessante degli esseri umani su ogni altra specie, di incessanti modifiche e riconfigurazioni del paesaggio per facilitare l'appropriazione di qualsiasi elemento del mondo naturale che possa creare ricchezza. L'atteggiamento per cui si considera la natura soltanto qualcosa che può essere sfruttato - senza una riconoscente collaborazione o sacrifici riconcilianti - è ben radicato nelle culture occidentali. La "risoluzione" di un incontro tra mandriani del Texas occidentale nel 1898 illustra il punto: "Si delibera che nessuno di noi sa, o vuole sapere, niente sulle erbe, native o meno, a parte il fatto che per il momento abbondano, sono le migliori a memoria d'uomo, e noi siamo decisi a ricavarne il massimo se è questa la strada verso una costante prosperità".
Con William McGregor, Will Sinclair, Charles Palmer, Richard Senior, Debbie Horsfield
Tag Drammatico, Maschile, Relazioni, Società, Gran Bretagna, XVIII secolo
Un altro patrimonio selvaggio perduto sono le grandi siepi storiche della Cornovaglia, che in certi casi pare risalissero a 4 mila anni fa. Queste siepi erano un groviglio intricato di pietra, terra, arbusti, alberi, fiori, uccelli e piccoli animali, belle e rappresentative del carattere selvaggio persistente nella regione. [James] Rebanks si vanta di ripristinare le siepi abbandonate in luoghi in cui gli imprenditori edili le radono al suolo. Mi sono guardata la serie televisiva Poldark, ambientata in Cornovaglia, solo per le poche, fuggevoli scene che mostrano quelle siepi. Ma i gruppi di difesa delle siepi sono spuntati come funghi, e nel 2008 l'antica e riservata Guild of Cornish Hedgers, forse biasimata per aver tenuto per sé quello che sapeva, ha creato il primo manuale di costruzione e riparazione delle siepi, garantendo che quella capacità non vada persa del tutto.
In quel giorno del 1739 i cacciatori trovarono un gigantesco femore che conferì al luogo il suo nome futuro di Big Bone Lick, una scoperta considerata l'esordio della paleontologia nordamericana. I cacciatori portarono il femore, due zanne d'avorio e due denti al campo, dove tutti rimasero a bocca aperta e [Charles] Le Moyne li prese in custodia. La spedizione continuò lungo il Mississippi fino alla battaglia; furono sconfitti dai Chicacha, che rimasero imbattuti per altri dieci anni. Le Moyne e i fossili riuscirono a raggiungere New Orleans, e infine Parigi, dove le reliquie andarono al Cabinet du Roi. Tutte, a parte le zanne d'avorio, sopravvissero alla Rivoluzione francese, due guerre mondiali e oggi sono patrimonio del Muséum National d'Histoire Naturelle di Parigi.
Con Graham Chapman, John Cleese, Terry Gilliam, Eric Idle, Terry Jones, Michael Palin
C'è anche una vecchissima barzelletta sulle paludi: un ragazzo sta camminando con cautela vicino a un acquitrino quando nota un elegante cilindro quasi al centro. Non essendo il tipo da ignorare un cappello costoso pronto a essere raccolto, si avvia con prudenza verso di esso. Solleva il cappello e rimane sconvolto vedendo il volto scontento di un gentiluomo baffuto sprofondato nel fango fino al mento. Fa per tirarlo fuori, ma non riesce a smuoverlo di un centimetro. "Aspetta un attimo" dice l'uomo "che devo sfilare i piedi dalle staffe".
Con Lisbeth Movin, Thorkild Roose, Sigrid Neiiendam
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Le qualità di una torbiera alta che conservavano i corpi umani, conciando la pelle e bloccando il processo di decomposizione, mantenevano anche lucidi e intatti i capelli, la barba e le unghie. Persino i motivi delle impronte digitali sopravvivevano dopo migliaia di anni di immersione nell'acquitrino, tanto che a diverse mummie di palude sono state prese le impronte. Quanto alle qualità preservanti, Karin Sanders, un'autorità sulla letteratura scandinava, nel suo libro "Bodies in the Bog and the Archaeological Imagination", presenta la torbiera come "una specie di fotocamera atavica o camera oscura naturale pre-fotografica". I corpi venivano depositati sia nelle torbiere basse sia nelle torbiere alte. Van der Sander osserva che nei corpi delle torbiere basse i tessuti soffici si decompongono ma lo scheletro persiste. Nelle torbiere alte, i tessuti soffici si conservano, ma lo sfagno dissolve le ossa. Per questo, dopo diverse migliaia di anni, molte delle mummie delle torbiere alte diventano bruni sacchi di pelle.
Gli archeologi delle zone umide si sono affaccendati nelle paludi da quando il libro di Glob ci ha letteralmente messo faccia a faccia con persone vissute millenni fa grazie alla scoperta che acqua e torba preservano i manufatti molto meglio delle sepolture nella terra asciutta. L'archeologia palustre all'improvviso è diventata molto gratificante, e gli scienziati hanno trovato in condizioni eccellenti migliaia di articoli sommersi da tempo: la mandibola di un cavallo, i sassi di una spiaggia, legno intagliato, frammenti di vasellame, fibule. Hanno anche recuperato corpi preservati ma mutilati delle antiche zone umide, trasferendoli nel mondo moderno dove hanno acquisito una macabra notorietà. Pensare e scrivere delle persone riesumate mi fa sentire un po' a disagio, sembra una intrusione nella loro privacy. Mi sono chiesta se le persone che hanno costruito le loro case in cima ai tumuli costieri e ai luoghi di sepoltura degli antichi popoli Muspa e Calusa della Florida siano soggette a sonni agitati. Eppure non mi disturba l'esame scientifico delle mummie egizie e peruviane, i calchi in gesso delle vittime del Vesuvio, Ötzi, i popoli preistorici del Perù, i Makah sepolti sotto la frana di Ozette, e nemmeno i ritratti commoventi del Fayyum prelevati dalle bare greco-egizie. Un grumo vecchio due millenni di antico catrame di betulla usato come chewing-gum con sopra l'impronta dei denti di un bambino mi ha trasmesso una fitta acuta di immediatezza. Nello stesso momento in cui desidero sapere, dentro di me rabbrividisco della mia curiosità svergognata. Una ragione per cui questi popoli antichi mi interessano tanto è che erano in contatto con il mondo naturale attraverso fiumi, torrenti, acqua stagnante, montagne, intimi recessi di grotte e isole in un modo che oggi ci è inaccessibile. Immagino una cerimonia alla luce delle torce nell'ora scura che precede il mattino, una persona con una corda attorno al collo guidata lungo la passerella sopra una palude verso una piattaforma sacra mentre l'orizzonte comincia a fiammeggiare sulla curva della Terra e la cacofonia del coro dell'alba comincia. Le torce vengono immerse con un sibilo nell'acqua e qualcosa di importante si compie nel momento in cui il giorno si apre in schegge di luce solare. La persona offerta viene calata nella palude e legata a un palo o coper ta con un paravento di vimini. Forse alcune persone sono sopraffatte da un'emozione lacrimosa, altre soffuse dalla dolce gioia del contatto spirituale. In verità né io né nessun altro sappiamo il come e il perché delle tentazioni o difficoltà di questa gente, delle crisi della loro fede. L'unica cosa di cui possiamo essere certi è che la torbiera sotto l'arco celeste era un mondo a sé e che ogni mummia di palude è arrivata li in compagnia di altri, ma non è più tornata.
Cercando di comprendere il passato, capita spesso che facciamo ipotesi che sembrano logiche ma riflettono soltanto la nostra cultura e il nostro tempo, una cosa che riconosciamo negli storici romani ma spesso non in noi stessi. Il peso di questo bagaglio è un problema costante che cerchiamo di controbilanciare con la critica e la riflessione e il costante promemoria che la nostra contemporanea ortodossia di idee e modi di pensare offusca inevitabilmente qualsiasi interpretazione del motivo per cui le persone venivano interrate nelle paludi. Steven Mithen, professore di Preistoria antica all'università di Reading, si è sobbarcato lo sforzo di capire i popoli antichi in "After the Ice: A Global Human History from 20,000 to 5,000 B.C.". Scritto come una saga chiosata, il coinvolgente volume di Mithen accompagna il lettore in un fantastico viaggio preistorico in compagnia di un viaggiatore nel tempo, un moderno archeologo di nome John Lubbock, che porta con sé il libro davvero esistente “Prehistoric Times”, scritto da un archeologo vittoriano davvero esistito, John Lubbock. Due archeologi omonimi e il libro dentro al libro confondono, finché il lettore non si abitua a seguire una guida invisibile e silenziosa che è capace di muoversi tra secoli e millenni, offrendo una visione panoramica di lungo periodo. Ognuna delle interpretazioni di Mithen è suffragata dalle prove esposte in un centinaio di pagine di fitte note prolisse. Ma uno dei commenti più interessanti riguarda lo scrivere la storia: "La difficoltà che dobbiamo affrontare... non è solo combinare queste fonti di dati [relazioni tecniche] in modo da poter immaginare le effettive comunità di piante, animali e insetti, ma anche guadagnare una comprensione dell'esperienza di coloro che per primi entrarono e diventarono parte di queste comunità. Le liste di pianti e animali sono un misero surrogato dell'odore degli aghi di pino e del profumo della cacciagione arrostita sotto le stelle; un rapporto sui resti degli insetti non può evocare il ronzio e la puntura di un tafano; le stime delle temperature invernali non riescono a trasmettere il dolore paralizzante dei piedi congelati calzati di pelliccia che hanno solcato la neve e guadato fiumi ghiacciati. Per fortuna queste sensazioni sono alla nostra portata: per essere un buon preistorico si dovrebbe... andare davvero a camminare e immergersi nel mondo naturale, per avvicinarsi un tantino all'esperienza del cacciatore-raccoglitore".
Con Toshiro Mifune, Masayuki Mori, Machiko Kyo, Takashi Shimura
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Nel 1922 Akutagawa Ryūnosuke (1892-1927) scrisse "Nel Bosco", una storia inquietante che in poche pagine raccoglieva i modi contorti in cui gli esseri umani percepiscono e raccontano le esperienze personali. Ventotto anni dopo, il racconto diventò "Rashomon", quando nel 1950 uscì l'adattamento cinematografico di Akira Kurosawa. La storia presentava versioni conflittuali e disorientanti di un omicidio in una foresta. Akutagawa aveva tratto il germe della storia da una raccolta del XII secolo di oltre mille storie antiche di Cina, India e Giappone, il Konjaku Monogatari, o Antologia delle avventure del passato e del presente, una fonte spesso usata per scovare idee per le trame. "Rashomon" sembra fatto per i periodi di cambiamento, disordini e violenza, quando la falsità e il magheggio oscurano ogni realtà della vita, quando le persone cercano le profezie dei veggenti, i sordidi incanti di maghi amorali e - senza riflettere - assaltano il mondo naturale.
Con Tommy Lee Jones, John Goodman, Peter Sarsgaard, Kelly Macdonald, Mary Steenburgen
Cercare la strada in una vasta brughiera paludosa può essere un tormento: il terreno accidentato, solo parzialmente asciutto, e l'assenza di qualsiasi punto di riferimento fanno vagare l'occhio impotente nella distanza monotipica. Tutto ondeggia, le salite e le discese condividono la stessa tavolozza smorzata e i sensi si ottundono. Ma una foresta torbiera è un'altra cosa. Anche se l'acqua e il fango sono ovunque, i punti di riferimento esistono: alberi abbattuti o moncherini frastagliati, il nido occupato di un airone, occasionali isole di piattaforme rialzate in legno duro che a sud chiamano hammocks. Eppure il viaggiatore delle foreste torbiere non procede in linea retta, ma arranca da un'isola tremolante a un fitto ciuffo d'erba a uno scivoloso ceppo semisommerso. Anche con la tecnologia GPS le grandi foreste palustri sono luoghi in cui smarrirsi, e in passato vi si sono rifugiate molte persone che avevano motivo di far perdere le loro tracce: nativi minacciati di essere cacciati dal loro territorio, schiavi fuggiaschi, disertori della Guerra Civile, contrabbandieri e omicidi dalle mani sporche di sangue, lo stessa una volta, per qualche istante, ho pensato di nascondermi in una foresta torbiera.
Quando avevo dieci anni, la mia famiglia viveva in una casa in affitto a Rhode Island. Nel mio ricordo la sua caratteristica distintiva era un grosso buco spigoloso nella parete del pianerottolo inferiore. Il buco aveva la forma di un braccio umano. Noi eravamo residenti temporanei e non gli prestavamo una grande attenzione, anche se a posteriori era la prova che qualcuno si era lanciato giù per le scale e aveva sbattuto con violenza contro la parete. Dopo la detestabile settimana scolastica, i sabati erano liberi e a volte andavo per conto mio in una vicina foresta torbiera circondata da un sentiero per pescatori. Nell'acqua, lontano dalla riva, c'era la massa irraggiungibile di un albero morto: privo di rami, alto e sbiancato dal sole, con un grosso buco vicino alla parte superiore. Da qualche parte avevo letto che l'airone azzurro maggiore nidificava in quegli anfratti e che in una palude un uomo aveva portato una scala, appoggiandola all'albero e salendoci per guardare dentro a un nido. L'airone lo aveva beccato nell'occhio non appena lui era arrivato all'altezza del nido e l'uomo, con l'occhio e il cervello perforato, era caduto dalla scala, stecchito. Volevo vedere se c'era un nido di airone nell'albero morto della palude locale... magari addirittura un airone vivo... magari addirittura i resti di una scala... magari addirittura un teschio sbiancato dal sole sul terreno. Quando arrivai alla foresta torbiera, sulla riva c'erano una piccola zattera e un palo. Non li avevo mai visti prima. In giro non c'era nessuno. Forse erano stati abbandonati. Si, probabilmente erano stati abbandonati. Era la mia occasione. Spinsi la barca nell'acqua scura, salii a bordo e cominciai a pagaiare verso il tronco. Ero a metà strada quando sentii urla e grida furiose. Voltandomi, vidi i due ragazzi più discoli della scuola che saltavano su e giù sulla riva, lanciando inutili grumi di fango. Avevo rubato la loro zattera. Dopo una rapida occhiata in cerca di un nascondiglio inesistente, cambiai direzione e presi una rotta obliqua verso il capo opposto dell'acquitrino, dove saltai con l'asta sulla terraferma, trovai il sentiero e scappai dalla scena del crimine. Ci misi un po' di tempo ad accorgermi che avevo ancora il palo-remo, e lo appoggiai con sollecitudine contro un albero prima di continuare verso casa.
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