Lo scorso anno, dopo un limbo che ne era durati otto, la Festa del Cinema di Roma è tornata ad essere un festival competitivo, con tanto di riconoscimento ufficiale da parte della FIAPF (Fédération Internationale des Associations de Producteurs de Films). Il passo ulteriore compiuto quest'anno, in occasione della sua 18° edizione, è stato quello di allungare di un giorno il proprio percorso, uniformandosi ai maggiori festival. Il giorno del giudizio è stato ieri, 28 ottobre 2023, con la cerimonia che ha ufficializzato il premio come miglior film al bel PEDÁGIO (TOLL) di Carolina Markowicz e alla sua denuncia, venata di umorismo caustico, dei danni che l'omofobia istituzionalizzata sta generando in Brasile sulle vite delle persone.
Di seguito, riporto il comunicato con il quale l'organizzazione della Festa ha diffuso la lista completa dei premi, e a ruota faccio lo stesso con quello relativo del concorso parallelo Alice Nella Città, dedicato come sempre alle tematiche giovanili e giunto quest'anno alla 21° edizione, nel quale, a corredo di ogni premio, c'è anche la relativa motivazione.
L'elenco numerato di film che troverete in fondo, sempre se riuscirete ad aprire integralmente una pagina lunga come un lenzuolo, altro non è che la mia personale classifica, con la scheda di ogni singolo film corredata (o appesantita, fate voi) dalla mia recensione. Ci sono molti dei film premiati, ma - come era inevitabile che fosse - non ci sono tutti, data l'enorme quantità di opere proposte e l'inevitabile dispersività dovuta alla grandezza, i ritmi ed il traffico della città di Roma (i film previsti - non tutti in concorso - erano 169, dislocati in 3 sale dell'Auditorium e 15 sparse per la città), e dato il mio limite fisico di essere umano ed avere solamente due occhi (oltre a quello autoimposto di non andare oltre i due lungometraggi al giorno). Per ciascuna delle mie recensioni che vedrete riportate potrete cliccare, in fondo, sul voto espresso in stellette, per essere reindirizzati alla pagina originale e guardare lì - qualora reperibile - anche l'eventuale trailer.
Festa del Cinema di Roma | I vincitori e i numeri della diciottesima edizione
FESTA DEL CINEMA DI ROMA 18/29 ottobre 2023
I vincitori della diciottesima edizione della Festa del Cinema di Roma
A partire dalla scorsa edizione, la Festa del Cinema di Roma è stata ufficialmente riconosciuta come Festival Competitivo dalla FIAPF (Fédération Internationale des Associations de Producteurs de Films).
A seguire, tutti i riconoscimenti assegnati oggi, sabato 28 ottobre, nel corso della cerimonia di premiazione che si è svolta alle ore 17 presso la Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone.
CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA
Una giuria presieduta dall’attore, regista e produttore Gael Garcia Bernal e composta dalla regista britannica Sarah Gavron, dal regista, sceneggiatore e poeta finlandese Mikko Myllylahti, dall’attore e regista francese Melvil Poupaud e dall’attrice e regista italiana Jasmine Trinca, ha assegnato i seguenti riconoscimenti ai film del Concorso Progressive Cinema:
- Miglior Film: PEDÁGIO (TOLL) di Carolina Markowicz
-Gran Premio della Giuria: UROTCITE NA BLAGA (BLAGA’S LESSONS) di Stephan Komandarev
- Miglior regia: JOACHIM LAFOSSE per Un silence (A Silence)
- Miglior attrice – Premio “Monica Vitti”: ALBA ROHRWACHER per Mi fanno male i capelli
- Miglior attore – Premio “Vittorio Gassman”: HERBERT NORDRUM per Hypnosen (The Hypnosis)
- Miglior sceneggiatura: ASLI ÖZGE per Black Box
- Premi speciali della Giuria (proposti dal Presidente a scelta fra le categorie sceneggiatura, fotografia, montaggio e colonna sonora originale):
ASHIL (ACHILLES) di Farhad Delaram
C’È ANCORA DOMANI di Paola Cortellesi
THE MONK AND THE GUN di Pawo Choyning Dorji
MIGLIORE OPERA PRIMA BNL BNP PARIBAS
Una giuria presieduta dal cineasta Paolo Virzì e composta dalla produttrice e distributrice francese Adeline Fontan Tessaur e la drammaturga e sceneggiatrice Abi Morgan ha assegnato il Premio Miglior Opera Prima BNL BNP Paribas (scelta fra i titoli delle sezioni Concorso Progressive Cinema, Freestyle e Grand Public), al film:
- COTTONTAIL di Patrick Dickinson
Sono state inoltre assegnate due Menzioni Speciali Miglior Opera Prima BNL BNP Paribas ai film C’È ANCORA DOMANI di Paola Cortellesi e AVANT QUE LES FLAMMES NE S’ETEIGNENT (AFTER THE FIRE) di Mehdi Fikri.
MIGLIOR COMMEDIA – PREMIO “UGO TOGNAZZI”
Una giuria presieduta dall’attrice francese Philippine Leroy-Beaulieu e composta dal regista e sceneggiatore italiano Alessandro Aronadio e la sceneggiatrice italiana Lisa Nur Sultan ha assegnato il Premio “Ugo Tognazzi” alla Miglior commedia (scelta fra i titoli delle sezioni Concorso Progressive Cinema, Freestyle e Grand Public), al film:
- JULES di Marc Turtletaub
È stata inoltre assegnata la Menzione Speciale del Premio “Ugo Tognazzi” ad ASTA KAMMA AUGUST e HERBERT NORDRUMper Hypnosen (The Hypnosis).
PREMIO DEL PUBBLICO
Tra i film del Concorso Progressive Cinema, gli spettatori hanno assegnato il Premio del Pubblico al film:
- C’È ANCORA DOMANI di Paola Cortellesi
Il pubblico della proiezione ufficiale e della prima replica di un film ha espresso il voto utilizzando l’APP ufficiale della Festa del Cinema “Rome Film Fest” e attraverso il sito www.romacinemafest.it.
PREMIO SIAE CINEMA
Lo scorso maggio è stato lanciato il bando per il Premio SIAE Cinema che va al progetto con la migliore sceneggiatura – scritta da uno sceneggiatore o una sceneggiatrice under 35 di nazionalità italiana o residente stabilmente in Italia – per la realizzazione di un’opera prima o seconda. Il riconoscimento del valore di 150 mila euro è destinato alla produzione italiana che realizzerà il film tratto dalla sceneggiatura vincitrice. I progetti sono stati valutati da una giuria composta dallo sceneggiatore Nicola Guaglianone, il produttore cinematografico Carlo Cresto-Dina e il compositore Pivio che ha premiato:
- IL PRIMO FIGLIO di Mara Fondacaro
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I PREMI ASSEGNATI DURANTE LA DICIOTTESIMA EDIZIONE
Nei giorni scorsi sono stati assegnati i seguenti riconoscimenti:
- Premio alla Carriera a ISABELLA ROSSELLINI
- Premio alla Carriera a SHIGERU UMEBAYASHI
- Premio Progressive alla Carriera a HALEY BENNETT
- Premio Progressive alla Carriera a CAMILA MORRONE
Fra i premi collaterali:
- Premio FS a LA NOSTRA MONUMENT VALLEY di Alberto Crespi e Steve Della Casa assegnato dal Gruppo FS Italiane
- Premio “Il viaggio in Italia” a L’IMPERO DELLA NATURA. UNA NOTTE AL PARCO DEL COLOSSEO di Luca Lancise e Marco Gentili patrocinato dal Ministero del Turismo ed Enit – Agenzia nazionale del turismo
La Regione Lazio ha assegnato il premio “Lazio Terra di Cinema” a JULIETTE BINOCHE
I VINCITORI DI ALICE NELLA CITTÀ | "The Other Son" miglior film di Alice nella Città, Premio Raffaella Fioretta a "Desiré", Premio The Hollywood Reporter Roma per l'opera prima a "To Leslie"
ALICE NELLA CITTÀ 18 | 29 ottobre 2023
I VINCITORI DI ALICE NELLA CITTÀ “The Other Son” di Juan Sebastián Quebrada è il Miglior Film del Concorso Internazionale di Alice nella Città
A “Desiré” il Premio Raffaella Fioretta come miglior film del Panorama Italia Premio speciale della giuria a “Bangarang” di Giulio Mastromauro
Premio The Hollywood Reporter Roma per la migliore opera prima a “To Leslie” di Michael Morris. Menzioni speciali agli attori Miguel Gonzalez per “The Other Son” e Mia Mckenna-Bruce per “How To Have Sex” e al regista a Gianluca Santoni per “Io e il secco”
Premio RB Casting per il miglior attore emergente ad Amanda Campana per “Suspicious Mind”
PREMIO MIGLIOR FILM ALICE NELLA CITTÀ
THE OTHER SON di Juan Sebastián Quebrada
Il riconoscimento è stato assegnato da una giuria di trentacinque ragazzi di età compresa tra i 16 e 19 anni.
Motivazione - Un pugno nello stomaco per la sua dirompente potenza emotiva. Pellicola intensa e di pregiata fattura capace di scavare un solco nell’animo più profondo dello spettatore, suscitando un fecondo processo di immedesimazione. Per l’originale trattazione di temi universali come amore, dolore e lutto. Il vincitore è “THE OTHER SON”di Juan Sebastián Quebrada
PREMIO RAFFAELLA FIORELLA PER IL MIGLIOR FILM ITALIANO DEL PANORAMA ITALIA DESIRÉ di Mario Vezza
Assegnato da una giuria composta da Tarak Ben Ammar, Francesco Motta, Ivan Silvestrini, Yle Vianello, Alessandra De Tommasi, Riccardo Milani (Presidente onorario). Il riconoscimento avrà un riconoscimento di 3.000 euro che sarà suddiviso in parti uguali tra il regista e il produttore.
Motivazione - "Lo sguardo di Desiré e delle sue compagne nell'istituto di pena minorile di Nisida viene raccontato con poetica crudezza dal regista Mario Vezza, cogliendo anche nei silenzi tutta la rabbia per un futuro negato. Il teatro in carcere è l'unico modo di evadere ed espandere gli orizzonti, ma in questo caso non ha un percorso lineare, scontato, retorico. La forza di questo esordio è in parte declinata nella capacità di dirigere un cast variegato valorizzandone le performance e lavorando per sottrazione".
Premio speciale della giuria a BANGARANG di Giulio Mastromauro
Motivazione - "L'unico documentario in concorso merita un'attenzione e una menzione speciale per la capacità emotiva di aver colto le sfumature del vissuto dei bambini di Taranto, raccontate dalle loro stesse parole. A volte confuse, tendono a imitare gli atteggiamenti degli adulti e quindi vivono il caos, il "bangarang" del titolo, che il regista ha saputo raccogliere così bene. Giulio Mastromauro non lo ha trasformato in altro, non lo ha edulcorato né ha forzato la spontaneità dei giovanissimi interlocutori. Anzi ha saputo fare un passo indietro con grande incisività".
PREMIO THE HOLLYWOOD REPORTER ROMA TO LESLIE di Michael Morris
Assegnato alla miglior opera prima presente nel programma di concorso e fuori concorso dalla giuria composta dalla Direttrice di The Hollywood Reporter Roma Concita De Gregorio, dalla giornalista Paola Natalicchio, dalla regista Francesca Mazzoleni, dalla cantante Noemi e dall’attrice e regista Michela Cescon.
Motivazione - Ben oltre la vicenda narrata si espone qui, in filigrana, un tema universale del nostro tempo. Se a cambiare il destino, a partire dalle periferie del mondo e in un’epoca così povera di futuro, siano la conoscenza l’ostinazione e la fatica o la fortuna. Se, insomma, ciascuno debba contare su quel che sa e può fare a partire da se stesso o se invece sia più profittevole aspettare che arrivi qualcosa/qualcuno a salvarlo. Vincere la lotteria è, in ogni lingua e in ogni ambito, una metafora di qualcosa di imprevedibile che ti sottrae a un destino segnato. Ma è veramente così? Una prova di attrice magistrale della straordinaria Andrea Riseborough, un film che parla alle ragioni profonde che muovono ciascuno di noi.
Menzione speciale per il miglior attore a MIGUEL GONZALEZ per “The Other Son” Motivazione - Ognuno ha un proprio modo per elaborare il lutto. E spesso è complesso, diverso per tutti, a volte incomprensibile. Per la sensibilità e la maturità con cui ha raccontato cosa vuol dire riprendere a vivere dopo aver perduto chi ami, il premio miglior attore va al giovanissimo
Menzione speciale per la miglior attrice a MIA MCKENNA-BRUCE per “How To Have Sex”
Motivazione - Per aver interpretato con profonda sensibilità la solitudine dell’adolescenza e la complessità della scoperta del sesso, dell’amore, del consenso. Attraverso i suoi occhi è capace di coinvolgere progressivamente lo spettatore in un viaggio interiore nelle nuove consapevolezze di una giovane donna che si affaccia al mondo.
Menzione speciale uno sguardo sul futuro per la regia a GIANLUCA SANTONI per “Io e il secco”
Motivazione - Per il segno già così sicuro, per le inquadrature che denotano personalità e una continuità stilistica con la tradizione più alta del cinema italiano la menzione Hollywood Reporter “Uno sguardo sul futuro” va a Gianluca Santoni per “Io e il secco” con l’augurio di proseguire la sua ricerca, e l’attesa per i suoi prossimi passi.
PREMIO RB CASTING - AL MIGLIOR GIOVANE INTERPRETE ITALIANO
AMANDA CAMPANA per “Suspicious Mind” Il premio è assegnato da una giuria composta da: Marina Marzotto (produttrice), Pino Pellegrino (casting director), Stefano Chiappi (agente)
Motivazione - “Per la sua interpretazione nel film Suspicious Minds di Emiliano Corapi dove, nel ruolo di Giulia, restituisce allo spettatore tutta la gioia, la sfrontatezza, i timori e la disperazione del primo grande amore"
PREMIO PUBBLICO ONDE CORTE FAKE SHOT di Francesco Castellaneta
Sinossi - “Le cose prima se fanno e poi se cantano” è su questa massima che si fonda l’opera di Breazy Eight, artista emergente della scena trap romana, fonte di ispirazione per i membri della sua crew, la “Sanctuary Commando”, e soprattutto per Emilia, sua sorella.
Prodotto dal Centro Sperimentale di Cinematografia e distribuito da Premiere Film.
PREMIO SIAE CHIEDO SCUSA di Francesco Piras
Assegnato nell’ambito degli Shorts Film Days al miglior progetto presentato nel corso del laboratorio Unbox.
Motivazione - Per avere presentato un progetto che racconta una guarigione in maniera intima e personale, trattando il tema con cinismo e con un’ironia Pirandelliana, e per averlo presentato in maniera profonda e toccante, con una storia che parla di vita e di morte, e che di conseguenza parla a tutti noi.
FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023 - BEST OF 2023 All'età di dodici anni, Na Young e Hae Sung sono due potenziali futuri fidanzatini: lei, figlia di due artisti, è la prima della classe e aspira, da grande, a vincere il premio Nobel per la letteratura; lui, di origini umili, le sta sempre accanto, e la asseconda al punto di dispiacersi se lei piagnucola quando, per una volta, a scuola arriva seconda dietro di lui. Per impegni lavorativi dei genitori, lei si trasferisce a Toronto, dove il suo nome viene modificato in Nora Moon: Na Young esiste solo nei ricordi e nei sogni infranti di Hae Sung, che la cerca invano con il suo nome coreano fino a quando, dodici anni dopo, non è lei a cercare lui. E a trovarlo. Lei ora è a New York ed è una sceneggiatrice, mentre lui sta ultimando gli studi e non si è spostato da Seul. Per qualche giorno vanno avanti a messaggi e videochat su Skype forzando i rispettivi fusi orari. Quando, però, l'ipotesi di un incontro viene frustrata dal fatto che nessuno dei due può muoversi prima di almeno un anno, lei decide di interrompere la frequentazione. Con la promessa di ritrovarsi nel futuro. Quel futuro è altri dodici anni più avanti, quando, a trentasei, lei è ormai sposata da sette, e lui la contatta intenzionato a prendere il volo per New York.
Prima di procedere con il racconto in ordine cronologico, Past Lives si apre con un incipit nel tempo presente, e mostra questa donna coreana seduta in un bar tra un uomo coreano ed uno statunitense, con due voci fuoricampo che si interrogano su quali rapporti intercorrano tra i tre soggetti in questione. Questa scena, la regista esordiente Celine Song afferma di averla vissuta negli stessi termini, e da lì esser voluta partire per un racconto in buona parte biografico.
Diviso in tre segmenti che seguono l'ordine temporale degli eventi, Past Lives è un film profondamente personale ma al tempo stesso universale, perché capace di toccare corde intime in ciascun essere dotato di un cuore in grado di spezzarsi; un film emotivamente struggente e intensamente malinconico sul senso dell'amore e sull'importanza e l'ineluttabilità delle scelte, laddove ogni opportunità scartata diviene necessariamente perduta, con dietro una inevitabile coda di rimpianti e di dolore cagionato a sé e a chi suo malgrado è coinvolto: lui vede in lei il miraggio di un presente che vorrebbe ma non c'è, soffrendo per la frustrazione di un molteplice rifiuto, e lei a sua volta vede vivo il fantasma di un passato cui ha rinunciato ma che avrebbe potuto portarla a una diversa felicità, a una diversa condivisione, a una diversa vita. Forse. Probabilmente. Chissà. Vite passate. VOTO: ****½
ALICE NELLA CITTÀ 2023 - PROIEZIONI SPECIALI 1944, terzo anno della Guerra del Pacifico. Le sirene si alzano di notte su Tokyo: un bombardamento ha causato un incendio all'ospedale dove lavora la madre di Mahito; e dove anche muore. L'anno successivo, il padre decide di portalo via con sé: alla stazione di Saginuma, lo affida ad una donna identica alla madre di nome Natsuko, la quale gli dice di averlo già visto da bambino, lo avvisa che sarà lei ora la sua nuova madre, e portandosi una sua mano alla pancia lo informa che a breve avrà anche un fratellino. I due viaggiano verso una tenuta enorme che sarà la sua nuova casa, dove il benvenuto glielo danno prima sette vecchiette chiacchierone, poi un airone cenerino che a sua volta lo conduce presso una torre disabitata, con sassi che ne occludono l'entrata e rampicanti incolti sui muri. Mentre Natsuko lo ammonisce di non tornare in quel posto, dove un suo prozio sparì misteriosamente, l'airone si fa via via più insistente, e prende a rivolgersi a lui con le parole che lui, in sogno, ha sentito pronunciare dalla defunta madre: «Mahito, salvami!».
Quando l'airone inizia a parlare, la storia contenuta nel dodicesimo lungometraggio di Miyazaki inizia a lasciare progressivamente il terreno del realismo per intraprendere, in maniera via via più netta, il percorso a lui probabilmente più congeniale: quello che porta all'interno di mondo fantastico nel quale la realtà e la fantasia si fondono e diventano un tutt'uno, nel quale stupirsi diventa la norma ed abbandonarsi è un piacere, nel quale è possibile spostarsi nel tempo attraverso le porte di un corridoio, nel quale la vita, la morte e i rapporti tra le specie seguono dinamiche mutevoli, nel quale i pappagalli parrocchetti mangiano gli elefanti e nel quale gli uomini possono discendere da buffi palloncini bianchi con occhi e bocca e arti accennati chiamati warawara, che si nutrono di interiora di scorfano ma devono guardarsi dai pellicani. Tutto questo, senza che nulla sembri mai eccessivo o 'incredibile', anzi suggerendo che, complice la presenza di tratti autobiografici (il padre del protagonista, come quello del regista, costruisce aerei per l'esercito), nel corto circuito immaginifico intitolato Il ragazzo e l'airone, Miyazaki abbia in qualche modo voluto chiudere un cerchio e far incontrare il sé fanciullo idealista con il sé anziano, saggio e preoccupato per il destino del pianeta.
L'Hayao Miyazaki che, settantaduenne, nel 2013 aveva annunciato il proprio addio al cinema motivando la decisione con il troppo tempo richiesto - dato il suo perfezionismo - per la realizzazione di ogni singolo lungometraggio, e dicendo di non avere più l'età per ingobbirsi a disegnare, dieci anni dopo, ad 82 suonati, ha smentito sé stesso presentando l'ennesimo gioiello di animazione, in seguito ad una gestazione durata sette. La speranza, è che non perda tempo in ulteriori minacce, ma trovi la forza e la voglia per ingobbirsi ancora: d'altronde, ci si può sempre aiutare con tavoli reclinabili... VOTO: ****½
FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023 - BEST OF 2023 C'è un momento, in The Zone of Interest, nel quale il protagonista dice alla moglie Hedwig che dall'alto gli è stato comunicato che a breve verrà trasferito, e che quindi dovranno spostarsi in un'altra città e in un'altra casa. Ciò vorrebbe dire abbandonare la villetta dei loro sogni, nella quale da tempo allevano i loro cinque figli, organizzata nei minimi particolari ad uso e consumo di ciascuno, con lui che ha il vantaggio di avere il luogo di lavoro al di là del muro di cinta, e lei che lì si sente la regina, al punto di essere disposta a farlo partire da solo e rimanere a presidio di quel paradiso per continuare a crescere i pargoli nella pace e nella tranquillità. Sarebbero comuni dinamiche da famiglia borghese, se non fosse che l'azione si svolge nei primi anni '40, che il posto di lavoro che confina con quel paradiso è l'inferno in Terra, ovvero il campo di sterminio di Auschwitz, e che l'uomo del cui trasferimento si sta parlando è nientemeno che Rudolf Höss, che ne fu a lungo il comandante e che passò alla storia per avervi introdotto (con Karl Fritzsch) l'utilizzo del gas Zyklon B allo scopo uccidere più persone e più velocemente.
In The Zone of Interest, lo sterminio e le torture non si vedono, tuttavia si respirano in ogni fotogramma, evocati dai rumori sinistri che di tanto in tanto si stagliano, sotto la forma di uno score acido, su immagini a schermo interamente nero (come al morte) o rosso porpora (come il sangue). Jonathan Glazer dirige con taglio asettico, scegliendo telecamere fisse per documentare la quotidianità del disumano: quello di Hedwig che manifesta alla propria madre la speranza che le viti finiscano di arrampicarsi per bene sul muro affinché sparisca del tutto la vista su quel casermone; o quello del suo 'Rudi', che dentro quel casermone lavora, discettando cinicamente del funzionamento e della temperatura dei forni crematori (quando non passando all'atto pratico), per poi staccare e tornare al focolare domestico a raccontare ai bambini la favola di Hansel e Gretel. Disinteressato a fornire l'ennesima messinscena degli eventi cruenti, il regista si nasconde in casa di uno dei principali responsabili del peggior genocidio del ventesimo secolo per osservarne la vita privata: e man mano che la serenità sua e dei suoi cari si fanno stridenti e terrorizzano se rapportate al male che egli stesso sta perpetrando, giorno dopo giorno, ad una etnia intera, si alimenta, inquieta e pietrifica la riflessione su come qualcosa di così tremendo possa esser prodotto da menti, teste e braccia di persone 'normali'. VOTO: ****
Con Seidi Haarla, Sanna-Kaisa Palo, Agafia Niemenmaa, Heidi Gauriloff, Erkki Gauriloff
FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023 - GRAND PUBLIC
Una fumatrice incallita con il volto segnato dagli anni, attende una ragazza fuori da un palazzo. Dopo le presentazioni - lei è Iida, l'altra Sanna - la seconda prende a parlare del funerale della madre, alla quale la prima non ha presenziato. La ragione del loro incontro è la vendita di una casa al nord che fu della famiglia, presso la quale si stanno recando per svuotarla come richiesto dal compratore. Con l'arrivo all'abitazione, ormai disabitata da tempo, sulle rive di un lago in piena foresta, Iida, già silenziosa, si chiude ulteriormente nei propri pensieri, nei propri ricordi, nella propria frustrazione. Diretto da Katja Gauriloff, Je'vida è recitato in Skolt Sámi, lingua attualmente parlata da poche centinaia di persone appartenenti all'etnia Sámi, popolazione indigena della Lapponia, e fornisce uno spaccato sulla condizione di costrizione con la quale questa gente visse l'annessione forzata alla Finlandia nei primi anni '50.
Dal tempo presente, con l'arrivo delle due donne sul posto, la narrazione si sposta indietro proprio a quel periodo, quando Iida era una bambina di circa sette anni e aveva addirittura un nome diverso, Je'vida: nome che apparteneva alla tradizione, e che proveniva dalla lingua tramandatale dai suoi avi. Mentre la sorella maggiore già frequentava le scuole istituzionali, spinta dalla madre, lei era legata al nonno, che in quella lingua le insegnava l'arte della pesca e quella della vita, e per il quale l'apprendimento di qualsiasi altra avrebbe significato un tradimento della propria natura. L'intervento statale, con l'obbligo per tutti i bambini del luogo di iniziare a imparare il finnico (partendo dalle preghiere), è quantomai brutale, tanto da passare attraverso il disconoscimento della propria lingua e talvolta anche del nome, se - come nel caso di Je'vida - non vuol dire nulla nella lingua istituzionale.
La regista, che con la sua protagonista condivide l'origine, ne racconta la storia facendo propria la sua prospettiva con evidente trasporto, sotto la forma di un lungo viaggio nella memoria che è un percorso di formazione irto di traumi e di dolore silente e inerme, che parte dalla Je'vida bambina 'cocca di nonno', e che prima di arrivare all'attuale donna incattivita alle prese con il proprio passato, passa necessariamente per la sua fase intermedia: quella della ventenne da poco (tras)formata e da poco chiamata Iida, alla ricerca di una sintesi tra sé e sé stessa. A simboleggiare, e diffondere, in 4:3 e in uno splendido bianco e nero, lo stato di estremo spaesamento di un popolo privato delle proprie radici. VOTO: ****
Con Maeve Jinkings, Thomas Aquino, Caio Macedo, Isac Graça, Aline Marta Maia
FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023 - CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA Ogni mattina, Suellen si alza con il pensiero fisso di dover fare qualcosa per correggere l'identità sessuale di suo figlio Tiquinho. Quindi all'alba, prima ancora di recarsi al casello autostradale presso cui lavora, si ferma su una terrazza (con vista sulle ciminiere della sua Cubatão) e lì accende un Cero della Virilità, nella speranza che prima o poi il ragazzo la finisca di truccarsi, agghindarsi e vestirsi di rosa per atteggiarsi a diva della musica black e blues, riprendendosi in video che poi divengono di dominio pubblico. A lavoro, poi, la collega e confidente Telma la aggiorna quotidianamente sulle nuove performance del figlio finite su vari gruppi di whatsapp, e nel frattempo le fornisce una possibile soluzione, ovvero approfittare del fatto che novembre è il mese contro la pederastia, e portarlo al seminario di riconversione sessuale tenuto da Padre Isaac, tanto più che al ragazzo mancano soli quattro mesi per compiere i diciotto anni, termine a cavallo del quale, se non sarà accaduto nulla a cambiare le cose, Satana terminerà il semplice affitto del suo corpo, facendolo diventare proprio tramite usucapione.
Il Brasile descritto dalla regista Carolina Markowicz in Pedágio, è il Brasile omofobico di Bolsonaro, l'uomo secondo il quale è meglio avere un figlio morto che gay. L'ossessione del governo di un paese per i gusti sessuali dei singoli individui, espressione diretta di un livello culturale basso che permette la proliferazione di storielle aberranti e garantisce notorietà e ricchezza a personaggi para-religiosi senza scrupoli in un sistema circolare che si autoalimenta, è messa in scena dalla regista attraverso un senso dell'umorismo scuro e caustico che si inserisce in un contesto estremamente realistico, e proprio per questo profondamente sinistro.
Convinta di fare il bene del proprio figlio, la donna sceglie di delinquere considerandolo il male minore, pur di poter pagare le costose lezioni e favorire il processo di 'risignificazione bioenergetica' proposto dal santone. Nulla, ovviamente, andrà come vuole la 'scienza' creata dal regno di Dio, ma resterà lo sgomento e l'amarezza per un racconto che dà il senso di come, in Brasile ancor più che altrove, l'assurdo sia diventato una paradossale normalità, al punto di dover considerare obsoleto il valore dell'onestà e derubricare la criminalità a semplice percorso ipoteticamente percorribile. VOTO: ****
Con Anaita Wali Zada, Gregg Turkington, Hilda Schmelling, Avis See-tho, Siddique Ahmed
In streaming su Rai Play
FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023 - CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA Dopo aver lavorato come traduttrice per le forze armate statunitensi in Afghanistan, Donya s'è trasferita da Kabul a Fremont, in California, presso un edificio abitato interamente da afgani, che la fa sentire ancora vicina alla sua gente e un po' meno sola di quanto di fatto non sia. La sua routine quotidiana inizia con lo spostamento nella vicina San Francisco, dove ha trovato impiego in una fabbrica cinese di biscotti della felicità e dove accoglie le confidenze e le fantasie della collega Joanna, e termina con cene solitarie presso il ristorante di un anziano compaesano che ha la tv sempre accesa su soap opera interminabili.
Il regista Babak Jalali, nato in Iran e cresciuto a Londra, si avvicina alla storia del personaggio principale del suo Fremont e ne osserva le abitudini con pudore e circospezione, partendo da dettagli minimi per cesellarne, poco alla volta, un ritratto a tutto tondo: il ritratto di una ragazza che non dorme la notte per via del senso di colpa che prova nei confronti della sua famiglia, rimasta in balia dei talebani mentre lei è riuscita a fuggire; il ritratto di una ragazza che si sente persa ed ha bisogno di ritrovarsi, di sentirsi libera di continuare a coltivare il sogno che l'ha fatta partire; il ritratto di una ragazza cui occorre comprendere che vivere tra i suoi compaesani va bene se da lì parte per aprirsi agli altri, per percepirsi non più come un'immigrata ma come una cittadina; il ritratto di una ragazza che, nella figura di uno psichiatra dal quale si reca per farsi prescrivere dei semplici sonniferi pensando che facciano miracoli, trova il professionista in grado di condurla a comprendere che la serenità va cercata dentro ed è lì, a portata di mano, nelle scelte che fatte in passato e in quelle presenti e future.
Girato in un bianco e nero elegante e pervaso di un senso dell'umorismo che va affinandosi man mano che Donya (una emozionante Anaita Wali Zad) prende coscienza di essere lei stessa a dover definire il proprio ruolo nel mondo, Fremont è un film delicato e profondo che lavora sulla distanza tra emarginazione e integrazione, e che mostra come l'essere umani sia potenzialmente l'elemento base sufficiente per far avvicinare individui di ogni sorta. VOTO: ****
FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023 - CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA Risto si occupa di recuperare cadaveri, e per farlo si reca dove ce n'è bisogno, raccogliendo informazioni tramite annunci mortuari, tramite notiziari, o tramite canali tutti suoi decisamente alternativi. Gira con un carro funebre scalcagnato, dalle finiture malridotte, il galleggiante bloccato e lo stereo fuori uso; e a chi gli fa notare che poteva fare di meglio fa presente che è Volvo, è turbo, e ci si può fumare dentro. In realtà, Risto lavora al risparmio, anzi è indebitato fino al collo, proprio perché il risparmio non sa neanche cosa sia: ruba i gioielli ai morti, e fa pure la cresta sulla paghetta che la suocera dà a lui da consegnare a suo figlio, il tutto per alimentare il proprio vizio, il gioco d'azzardo. Ma quando, per saldare i debiti, mette a rischio anche il conto della moglie, lei si tira fuori gli chiede il divorzio.
Arto lavora con i bambini in un asilo e conduce una vita tranquilla, con una donna che lo ama e vuole un figlio da lui. Tutto cambia, però, quando una banale caduta lo induce a fare una radiografia al collo che gli cambia la vita: al collo non risulta avere nulla, ma ciò che la dottoressa nota di unico è che non ha nulla nemmeno in testa; per dirla bene, ha pochissima materia grigia, solo una minima traccia di tessuto cerebrale. Alla faccia del segreto professionale, la notizia fa il giro della città e del web in men che non si dica, e in poco tempo si trova senza più un lavoro e senza neanche la compagna. Entrambi mollati dalle rispettive metà, Risto e Arto incrociano i loro destini fuori dalle rispettive porte di casa (abitano vicini) nel momento in cui al becchino senza cuore servono due braccia che lo aiutino per andare a caricare un cadavere, e al bamboccione senza cervello neo-disoccupato servono quattrini per tirare a campare.
La cosa più banale da dire imbattendosi in una commedia finlandese venata di noir e tratti malinconici è tirare in ballo Aki Kaurismaki: in casi come quello di Peluri (La morte è un problema per i vivi), però, il paragone viene da sé, ed in senso assolutamente positivo. Teemu Nikki, giunto al proprio settimo lungometraggio, si muove infatti nel sottobosco dei derelitti e degli sfigati già caro al suo più noto conterraneo, e propone un senso dell'umorismo stralunato e graffiante, capace di flirtare con l'assurdo senza scadere nel gratuito e nel ridicolo: il risultato è un film che parla di amicizia e dell'arte di arrangiarsi, ricco di passaggi divertenti ma al tempo stesso capace di commuovere e di lasciare uno spiazzante retrogusto amaro. VOTO: ***½
Titolo originale En dag kommer allt det här bli ditt
Regia di Andreas Öhman
Con Emil Almén, Filip Berg, Kristoffer Berglund, Lena Cederlund, Liliana Fonda
FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023 - CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA Nella vasca dove sta facendo il bagno, Lisa pensa insistentemente al tassello che manca a completare il suo libro di fumetti già pronto per la presentazione: il titolo. In diversi giorni ne ha pensati undici, senza però mai battezzare quello giusto. A rompere le uova nel paniere, interviene una grossa bolla di sapone, che affiora dall'acqua per boicottare i suoi pensieri ed alimentare la sua insicurezza. Lisa è fatta così, e il disturbatore seriale che le viene da dentro, contribuendo notevolmente alla sua ispirazione artistica, lo porta con sé un po' ovunque, pronto a manifestarsi sotto qualsiasi forma e a dare la possibilità di parlare, e talvolta anche cantare o ballare, a patate, aragoste, alberi o lattine di birra. Tutto rigorosamente nella sua testa. E sempre, o quasi, all'insegna di un turpiloquio o di una sfrontatezza che sono gli stessi cui Lisa, da cui promana, non riesce a rinunciare neanche quando dovrebbe.
Questa ragazza a dir poco stravagante, interpretata da una bravissima Karin Franz Körlof, è la protagonista di One Day All This Will Be Yours, scritto e diretto da Andreas Öhman, e il contesto nel quale si inserisce la sua personalità bizzarra è quello di una rimpatriata familiare convocata dai due genitori ancora neanche troppo anziani, ma già assillati dall'urgenza di sapere quale dei tre figli (Lisa ha una sorella ed un fratello maggiori) si prenderà l'onere e l'onore di tornare a Kramfors per ereditare e gestire la segheria di famiglia con i diversi ettari di foresta ad essa annessi. Se da un lato Lisa ha sempre ritenuto monotona la vita di campagna, dall'altro la sorella Josefine è sposata con prole e ha impegni di altro tipo, e dietro a un interesse fasullo per la terra nasconde la semplice idea di venderla alla morte dei due vecchi, mentre il fratello, scompagnato con figlia, seppur possibilista riguardo all'affare, porta con sé un taccuino dove annotare i pro e i contro su cui ragionare, finendo però per riempirlo quasi solo dal lato 'sbagliato'.
Sin dalle prime battute, One Day All This Will Be Yours si presenta come una commedia veloce, leggera e spigliata, ben guarnita da inserti animati spassosi che si sposano alla perfezione con l'eccentricità del suo personaggio principale. L'interesse di Öhman, che emerge con lo scorrere dei minuti, è però quello di aggiungere carne al fuoco del racconto, non fossilizzandosi sul sorriso fine a sé stesso ma toccando temi delicati e profondi. Sempre partendo dalle paturnie di Lisa, cui è chiaramente affidato il punto di vista, il focus della narrazione si sposta sul senso da dare alla riunione familiare, tanto più che, tra gli amici immaginari che popolano il suo mondo, uno - ricorrente - è uno scheletro nascosto nell'armadio dei ricordi con il quale né lei né gli altri hanno fatto i conti fino in fondo. Così, per merito della mano delicata del regista, la commedia si veste via via di dramma familiare senza mai tradire il suo spirito di partenza, introducendo l'elemento della perdita e permettendo l'elaborazione postuma di un lutto altrimenti destinato a restare parzialmente sospeso. VOTO: ***½
Con Vincent Lindon, Stefan Virgil Stoica, Karol Rocher
FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023 - CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA
La vita di Jacques è a un punto morto: professionalmente è in crisi perché non capisce più i giovani, e dopo una lite tra due suoi alunni, che ha tentato invano di sedare, ha perso la fiducia nel proprio ruolo di insegnante e ha deciso di mettersi in aspettativa; dal punto di vista degli affetti, se da un lato gioisce per la realizzazione della figlia, che insegna come lui e sta ottenendo soddisfazioni all'altro capo del mondo, dall'altro la recente morte della moglie lo ha indotto a mettere in vendita la casa, ormai troppo grande per un uomo solo. Una sera, in un supermercato vicino casa, assiste ad un tentativo di furto da parte di tre rom: mentre due riescono a fuggire, il terzo - un ragazzino sui quattordici anni - lo blocca lui, consegnandolo poi alla polizia accorsa sul posto. La sera successiva, di ritorno da una cena con gli ormai ex colleghi, torna a casa e trova la porta forzata, le sue cose in disordine, e il giovane ladro (che aveva udito il suo indirizzo tra le generalità fornite alle forze dell'ordine) addormentato sul suo letto, stravolto e pieno di lividi.
In Comme un Fils, il regista Nicolas Boukhrief porta al cinema una delle genie trasversalmente più detestate, disprezzate e dileggiate al mondo: i rom. E lo fa proprio per questo, per ricordare al mondo che quando li si ghettizza o anche solo liquida dietro a frasi fatte o vulgate, si sta sempre parlando di esseri umani: tanto più se sono ragazzini, e in virtù del sentire comune si rinuncia a cuor leggero anche a dargli la possibilità di venire inseriti nel mondo. Tra il prof (un misurato Vincent Lindon) ed il ragazzino (l'esordiente Stefan Virgil Stoica) si stabilisce un rapporto via via più profondo, dove la ritrovata voglia di spendersi per il prossimo del primo si scontra con la ritrosia del secondo, ostaggio di uno zio violento che lo picchia ogni volta che non porta soldi a casa e che lo disprezza già solo per essere un 'cashtalo', ossia un meticcio, in quanto figlio di madre zigana e padre rumeno. Se il tentativo di farlo proteggere da parte dello stato si scontra con i cavilli e il lassismo della burocrazia e delle istituzioni da un lato e con la paura del giovane di prendere sempre più botte dall'altro, l'uomo cerca sponda nelle sole realtà che sembrano interessarsi alle sue grida di aiuto, ovvero le associazioni di volontariato, e nel frattempo sfrutta le proprie competenze per alfabetizzarlo. Attraverso una storia che racconta due paralleli percorsi di crescita, di cambiamento e di maturazione, Nicolas Boukhrief chiede uno spiraglio di attenzione, nonché di umano rispetto, per gli ultimi tra gli ultimi. Delicato e toccante. VOTO: ***½
Con Ciarán Hinds, Yuri Tsunematsu, Thomas Coombes, Isy Suttie, Aoife Hinds, Angus Barnett
FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023 - GRAND PUBLIC A Tokyo, in una giornata piovosa, Kenzaburo esce pensieroso di casa, prende il tram e si reca al mercato in cerca di un polpo, perché così ha sempre festeggiato l'anniversario di matrimonio con la sua Akiko. Dopo averlo trovato, lo fa incartare e lo porta ad una tavola calda dove lo conoscono già: lì lo fa cucinare e apparecchia il bancone per due, anche se accanto a lui c'è un posto vuoto. Poi prende in mano il suo bicchiere di birra e lo fa schioccare con l'altro. Senza alcuno stacco, un flashback porta la sua vita indietro di oltre trent'anni, a quando in quello stesso locale e seduto allo stesso bancone fece la conoscenza di Akiko, mangiando insieme polpo e brindando con la birra. Terminato questo doveroso rito, l'uomo viene informato da Toshi, il figlio avuto con lei, che il sacerdote del tempio lo cerca. Si recano insieme da lui, e questi gli consegna una lettera che lei scrisse e gli affidò anni prima dietro la promessa di dargliela quando il suo strazio sarebbe finito, e nella quale gli chiede di esaudire la sua ultima volontà: disperdere le sue ceneri presso il lago Windermer, in Inghilterra, e farlo in presenza anche del figlio.
Nelle note di regia, il giovane Patrick Dickinson (autore anche della sceneggiatura) sottolinea i tratti autobiografici di una storia che sente estremamente personale, lui inglese cresciuto con una passione innata per la cultura giapponese, figlio di un padre chiuso, scontroso e dedito all'alcool (molto vicino al Kenzaburo cui in Cottontail da il volto un provato Lily Franky - tra gli attori perferiti di Kore'eda), trasferitosi in Giappone per studiare la loro lingua e costretto a tornare per accompagnare alla morte la madre molto malata. Come già il delicato incipit, l'intera storia è narrata alternando, sempre in ordine cronologico, il racconto del viaggio che l'uomo fa alla ricerca del lago, accompagnato dal figlio, dalla nuora e dalla nipotina, ai suoi ricordi della vita con lei, con un occhio sempre discreto al rapporto ruvido con il figlio, e un altro intriso di affettuoso realismo alla relazione di mutuo soccorso romantico con l'amata.
La malattia e la morte, il dolore e il bisogno di perdonare e di perdonarsi, sono gli elementi che dominano un film pacato e al tempo stesso sofferto, raccontato dal punto di vista del padre ma girato idealmente dal figlio, in uno sforzo di riconciliazione che prende le mosse da un desiderio che ha origine nella memoria della madre bambina, e come unico indizio una foto dai dettagli inevitabilmente imprecisi, con riferimenti a una fiaba - notissima in Giappone - rimastale negli occhi e nella testa fino alla fine. Britannico nel manico ma nipponico nel cuore, Cottontail è un esordio intenso e positivo sull'elaborazione del lutto come percorso terapeutico teso a rinforzare un legame parentale logorato dal troppo silenzio. VOTO: ***½
ALICE NELLA CITTÀ 2023 - PANORAMA ITALIA CONCORSO Sì, ma cos'è il primer? È questa la domanda che, più che ogni altra, potrebbe attanagliare la mente di chi, poco pratico di make-up, lo sente citare innumerevoli volte nel corso de La guerra del Tiburtino III. Tanto più che, nello specifico, questo prodotto ha, per gli alieni che popolano il film, lo stesso ruolo che il paletto di legno ha per i vampiri. Google, Siri, o chi per loro, vengono in soccorso informando che trattasi di un liquido che serve per preparare le unghie all'applicazione di gel o prodotti acrilici. Ebbene, questo prodotto abbonda in casa di Marica per via della professione che svolge, quella di casalinga-manicure; in una casa, la sua, particolarmente frequentata da elementi esterni, dato che oltre ai suoi clienti transita anche qualche amico di suo figlio Mauro, detto Pinna, che è il pusher del quartiere, l'ospite più pericoloso lo porta il padre Leonardo - e senza nemmeno saperlo - sotto la forma di una piccola pietra nera che in realtà nasconde la 'regina' di una stirpe di vermi fluorescenti venuti dallo spazio per colonizzare prima il Tiburtino III, quartiere alla periferia est di Roma, e poi l'intero pianeta.
Terzo film della giovane regista Luna Gualano, La guerra del Tiburtino III parte da uno spunto chiaramente debitore allo sci-fi anni '50, il cui tema portante erano gli ultracorpi e l'infiltrazione aliena negli uomini, e lo declina sin da subito in toni da commedia politica, cattiva e scorretta, suggerendo continue metafore inerenti il reale: la paura del diverso, la credulità popolare, la superficialità nei rapporti interpersonali.
La chimica tra il contesto della borgata, i suoi personaggi, e l'elemento alieno, assume un ruolo fondamentale, risultando a conti fatti uno dei motori e dei motivi di interesse del film; il quartiere Tiburtino III è rappresentato come un vero e proprio microcosmo i cui abitanti si muovono partendo da un punto di equilibrio, e l'intervento alieno cambia le carte in tavola, ma non necessariamente in senso negativo, se è vero che i vermoni riescono ad infiltrarsi solo negli uomini permettendo - indirettamente - alle donne di (ri)guadagnare potere, e se aliena al contesto va considerata, come di fatto è, anche la svampita fashion blogger Lavinia (una spassosa Sveva Mariani), che arriva lì da un'altra zona di Roma seguendo un trend topic alla ricerca di visibilità, attivando dinamiche relazionali singolari oltre che surreali. Semplice e divertente ma a suo modo sottile, La guerra del Tiburtino III conferma (dopo il buon Go Home - A casa loro) Luna Gualano tra le migliori nuove leve del cinema di genere italiano. Curiosamente (e hitchcockianamente) la regista si è ritagliata un piccolo cameo: nel finale, è la prima persona in fila davanti alla porta del 'mago' (è impossibile fornire altri dettagli per evitare spoiler sconvenienti). VOTO: ***½
Tre ragazze londinesi si recano sull'isola di Creta per la vacanza estiva che hanno già deciso sarà la migliore della loro vita. Il loro entusiasmo si respira già nel taxi che da Heraklion, dove sono atterrate, le conduce a Malia e al villaggio presso cui hanno deciso di alloggiare, facendo di tutto per farsi assegnare una camera con vista sulla piscina, così da avere l'area più cool sotto controllo in ogni istante.
How To Have Sex, lungometraggio d'esordio di Molly Manning Walker, parte sposando l'approccio frivolo e spensierato alla vita che la gioventù induce nelle protagoniste, la cui prima preoccupazione è apparire più grandi di quel che sono, affinché l'età non divenga un limite e non impedisca loro di realizzare il proprio sogno: che è perdere la verginità, ma senza nemmeno fare capire di non aver ancora fatto quel passo. Il divertimento viene prima di tutto, e la club music è lì, pressoché onnipresente a contrappuntare le dichiarazioni bellicose (in fatto di sesso) di Tara, Skye ed Em, e ad accompagnare il loro dimenarsi in discoteca così come i corteggiamenti con Badger, Paddy e Paige, tre ragazzi che occupano la stanza accanto alla loro nel medesimo villaggio.
Percepita come un passo fisiologico e imminente, come un obiettivo da centrare per poter dire di aver fatto tutto ciò che serve per sentirsi vive all'interno del proprio contesto sociale, la 'prima volta' viene cercata dalle tre ragazze con una leggerezza che rischia di svuotarla della giusta importanza. Proprio quando un certo limite viene passato, How To Have Sex muta ritmo e registro, incupendosi assieme all'umore di Tara
(Mia McKenna-Bruce), che sparisce nel corso di una notte per tornare l'indomani cambiata dentro, ferita indelebilmente da una violenza che non riesce a denunciare come tale e che anzi maschera, vivendo come un senso di colpa l'anti-romanticismo precedentemente ostentato. È nel conflitto interiore della protagonista, nella sua presa di coscienza di esser stata abusata, ovvero di aver 'subito' un atto sessuale da chi non ha colto - o meglio, ha finto di non cogliere - il senso del suo mancato trasporto, che il film guadagna forza, senso e potenza, assumendo via via le fattezze di un pugno nello stomaco ben assestato. VOTO: ***½
FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023 - GRAND PUBLIC Taranto, 1997. Caterino è operaio all'Ilva nel settore Manutenzione Forni, ed è poco interessato agli inviti a partecipare agli scioperi che gli arrivano dal sindacalista Morra e da alcuni altri colleghi, che protestano per la mancanza di sicurezza che sta portando sempre più operai a morire sul posto di lavoro. A lui interessa lavorare e poi tornare dalla sua fidanzata Anna, con la quale abita in una masseria malmessa con il sogno di trasferirsi in città. Un giorno viene abbordato dal Caposezione, il dottor Moretti, che gli propone una promozione a caposquadra, con relativo adeguamento dello stipendio e annessa auto aziendale, e in cambio gli chiede di informarlo di tutto ciò che accade in fabbrica, specie attorno alle varie forme di protesta. Dopo aver iniziato a pedinare i colleghi e a prender parte agli scioperi solo per riferire al capo chi fa cosa, Caterino scopre casualmente che alcuni di essi, peraltro qualificati, sono stati trasferiti in un edificio denominato Palazzina Laf, dove passano le giornate a non fare nulla. Invidioso della situazione, chiede di esser trasferito anche lui lì, promettendo di proseguire a fare la spia, senza capire che non si tratta di un reparto ambito, bensì di un confino.
Quelli messi in scena da Michele Riondino in Palazzina Laf sono tutti fatti reali, che provengono da un libro scritto a soli due anni di distanza, nel 1999, da Claudio Virtù, uno dei confinati, e da numerose interviste fatte ad altri ex confinati ed ex lavoratori ILVA. Il paradosso della Palazzina Laf, in un tempo nel quale il termine 'mobbing' non era ancora noto, è proprio quello portato in evidenza dall'ingenuità del protagonista, che rispecchia non solo quella di molti suoi colleghi, ma potenzialmente anche quella di osservatori esterni poco attenti, ovvero l'illusione che lì fossero spostati i raccomandati, in virtù della loro alta preparazione (dentro c'erano ingegneri e informatici), perché lavativi e senza voglia di sporcarsi le mani. Lo scopo dei reparti lager era invece palesemente opposto: lì venivano spediti i lavoratori più scomodi, i più combattivi, i sindacalizzati, coloro che avevano rifiutato di fare ciò che non gli competeva, costretti a passare le giornate a giocare a carte o improvvisare partite di ping pong, per poi finire annichiliti e costretti a dimettersi o ad accettare il demansionamento per non impazzire. Una realtà che se venisse solo raccontato potrebbe risultare assurda e al limite della caricatura, Riondino la racconta con mano sicura, realizzando un solido esemplare di cinema civile con punte di grottesco (non a caso, oltre a Elio Petri, l'attore e regista cita tra le proprie fonti di ispirazione il Fantozzi di Luciano Salce) VOTO: ***½
FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023 - CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA - FILM D'APERTURA Pronti, via: Delia (Paola Cortellesi) si sveglia nel letto che divide che il marito Ivano (Valerio Mastandrea), gli dà il buongiorno e questi, senza neanche ricambiare il saluto, le molla un ceffone in pieno volto. A casa sua, Delia conta meno di zero. Ma già definire 'sua' la casa è quasi una forzatura: la casa è di Ivano, padre dei suoi tre figli e padrone di tutto, anche dei soldi che lei guadagna alternando lavori da sarta e iniezioni a domicilio. Perché chi porta il grosso del denaro a casa è lui, che non manca di farglielo pesare umiliandola in continuazione, così come spegne sul nascere qualsiasi sogno di istruzione della figlia primogenita Marcella (Romana Maggiora Vergano), la quale sa già che non andrà alle scuole medie perché i soldi per quelle lui li sgancerà solo per i maschi, ora ancora piccoli: per lei, la sola speranza è fidanzarsi con Giulio, un ragazzo benestante che le fa il filo e potrebbe portarla via da quella galera. Ma qualcuno, in casa, verso il quale Ivano porta rispetto c'è, ed è suo padre Ottorino (Giorgio Colangeli): stronzo come lui, solo più vecchio e allettato, di fatto accudito h24 da Delia, alla quale di tanto in tanto si sente anche in diritto di toccare il culo.
Nella Roma del 1946, da poco liberata e a un passo dal referendum istituzionale, dove misura della miseria ancora diffusa sono le file di gente accalcata fuori dagli alimentari per accaparrarsi pane e pasta, a dare ossigeno a Delia è l'amicizia con Marisa (Emanuela Fanelli), che non perde occasione per incoraggiarla a scappare, a regalargli un sogno è Nino (Vinicio Marchioni), un ex spasimante che lavora in un'autofficina ma vorrebbe portarla con sé al nord, dove si guadagna di più, e a fornirle un'ultima speranza è una lettera che, inattesa, giunge - a casa sua - intestata proprio a lei.
Con la sua prima regia, Paola Cortellesi ha voluto rendere omaggio alle tante donne invisibili che hanno vissuto l'Italia degli anni '40, donne oppresse da una cultura patriarcale incancrenita da vent'anni di fascismo, alle quali mancava la consapevolezza stessa della propria condizione; lo fa con sguardo disincantato e la volontà di sorriderci su mettendosi dalla loro parte, improntando la narrazione su un doppio binario che però rischia di smottare da ambo i lati: se sul versante del dramma, infatti, l'ansia di comunicare in maniera chiara porta a qualche eccesso di didascalismo, su quello della commedia la tendenza è ad un sopra le righe (sia a livello di scrittura che di recitazione) che talvolta stona. Ma nonostante qualche difetto, C'è ancora domani trasuda amore per i personaggi femminili che descrive, vale per il sorprendente crescendo di emozioni che riempie l'ultima mezzora, e si distingue per l'uso originale delle musiche, che a volte dialogano con le immagini (A bocca chiusa di Daniele Silvestri), altre volte le raccontano (Aprite le finestre di Fiorella Bini), e altre ancora fanno da colonna sonora a balletti surreali (Nessuno di Petra Magoni e Ferruccio Spinetti). VOTO: ***
FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023 - GRAND PUBLIC Paul Matthews è un uomo dalla buona cultura: ha conseguito una laurea che gli permette di insegna biologia all'università di Osler, e nutre il sogno di scrivere un libro su un tema a lui caro da sempre, che è quello dell'evoluzione delle formiche. Dopo aver scoperto che molti dei temi che lui intende trattare nel futuribile libro, inclusi in una sua ricerca risalente al tempo degli studi accademici, gli sono stati rubati da una ex compagna che ora è sul punto di includerli in un testo proprio pronto all'uscita, ha l'opportunità di una cena con lei durante la quale far valere le proprie ragioni ed esternare la propria rabbia, ma non riesce a farlo, dandole di fatto il benestare alla pubblicazione.
Quello che Paul non sa, è che tutto intorno a lui sta cambiando, e senza che lui stia facendo nulla affinché ciò accada. L'avvisaglia arriva da casa, quando una delle sue due figlie gli parla di uno strano sogno nel quale attorno a lei succede il finimondo e lui è lì, in disparte, presente ma inerme; poi l'incontro casuale con una ex fiamma alla quale è successo qualcosa di affine in più occasioni, e a pioggia la notizia di essere apparso ad alcuni suoi alunni, ad altri professori che prima lo ignoravano ed ora lo invitano alle cene, ma anche e soprattutto a svariata gente in giro per il mondo con la quale non ha mai avuto nulla da spartire.
A colpire, in Dream Scenario, è la semplicità dell'idea da cui nasce: cosa accadrebbe se un perfetto sconosciuto finisse senza volerlo nei sogni di tutti. Cosa accadrebbe 'a lui'? La semplicità di questo spunto è il maggior pregio del film, ma anche il suo più inscalfibile difetto. Il primo film americano dello sceneggiatore e regista Kristoffer Borgli parte da questo interrogativo per proporre una parabola sulla vacuità dei 15 minuti di celebrità di warholiana memoria (anche se qui, in realtà, i minuti sono un po' di più), che inizia con l'arrivo della fama, inattesa e improbabile, e poi, percorrendo strade parimenti legate al caso, si svolge prendendo repentinamente la direzione opposta: quella nella quale il sogno vira in incubo, e l'uomo divenuto in poco tempo il più interessante del pianeta, salutato con simpatia, cercato e desiderato da tutti, diventa in altrettanto poco tempo un nuovo Freddy Krueger.
Il racconto per un'ora è ben servito e le risate assicurate, grazie anche ad un Nicholas Cage esilarante e perfettamente calato nel ruolo dello sfigato travolto dagli eventi, ma se da un lato l'assurdità manifesta dell'assunto fornisce allo sceneggiatore la libertà di andare a parare dove vuole, sbizzarrendosi con zombi, funghi allucinogeni, alligatori in salotto e segretarie infoiate, dall'altro (con buona pace dei riferimenti posticci a Jung e alla sua teoria dell'inconscio collettivo) spegne la miccia del registro più cupo, sicché i petardi preparati a suon di strangolamenti e martellate non deflagrano mai, ma rotolano spenti verso un finale scarico e insoddisfacente. VOTO: ***
FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023 - GRAND PUBLIC La vita di Pietro si svolge all'interno di un appartamento grande, forse troppo per un uomo solo, nel quale l'unica visita che riceve è quella di Nicola, un commesso del bar sotto casa, che ogni giorno gli porta patatine, noccioline e tramezzini per un pranzo fugace ad alto tasso di colesterolo. Questo perché, ormai accantonato il lavoro di professore di letteratura causa pensionamento, ha deciso di dedicarsi anima e corpo al progetto di un libro tutto suo su donne di talento che sono state sottovalutate nella vita. In terrazzo, dove ama passare il tempo libero a curare le proprie piante, fa la conoscenza di Eleonora, la nuova inquilina del terrazzo del palazzo accanto, venuta a viverci e a battibeccare con il marito, fotografo in ascesa il cui spirito vanesio e autocentrato ha addormentato l'animo pittorico che è in lei.
I limoni d'inverno, secondo film di Caterina Carone, vede un Christian De Sica abbastanza inedito, una volta tanto alle prese - e a proprio agio - con una interpretazione in sottrazione e con un personaggio pacato, educato e buono. Con uno sguardo contemplativo e una camera mai troppo agitata, Carone segue le evoluzioni della sua frequentazione con la vicina (cui dà il volto l'esperta Teresa Saponangelo), fatta di parole che all'inizio sono consigli, poi via via diventano confidenze sempre più intime e personali: quello tra loro è il classico incontro tra solitudini, tra due anime che sono alla ricerca di uno scopo e condividono il bisogno di creare arte, che si sentono pronte a dare e a ricevere, e che in comune hanno anche un segreto triste, tragico, che nascondono dentro. Malinconico, delicato e romanticamente casto, I limoni d'inverno è la storia di un'amicizia pudica innescata da una affinità che si respira: un film discreto che vive il suo momento migliore nella parte centrale, quella nella quale l'emergere del segreto di Pietro fa salire il livello della drammaticità; prima e dopo, qualche lungaggine di troppo che appesantisce il tutto. VOTO: ***
ALICE NELLA CITTÀ 2023 - CONCORSO Una donna al pronto soccorso, con tre escoriazioni in faccia e un polso rotto, afferma più volte di essersi ferita inciampando in un tappeto. Il medico non la beve, ma davanti alla sua insistenza non si sente di indagare oltre. Poco dopo arriva il marito, che porta via lei e Denni, il figlio di circa dieci anni. Il bambino sa tutta la verità, perché nonostante il padre si premuri di chiudere le porte, le sue urla, le minacce e le percosse arrivano chiare all'esterno. E poco conta se prova a comprarselo con una bici nuova: lui vuole salvare la mamma. A questo scopo le propone di scappare solo loro due, ma dal momento che la risposta di lei è negativa, cerca una soluzione alternativa. Dopo aver scoperto la piccola cassaforte nella quale il padre tiene parecchi soldi, e dopo aver capito, dai discorsi della sua compagna di classe Eva, che il cugino è un 'super' killer che spara alla gente, decidere di andarlo a cercare per promettergli di pagarlo affinché ammazzi suo padre. Peccato però che il Secco - così è soprannominato - non sia il criminale che Denni crede, ma solo uno sbandato con la posa da cattivo e una disperazione tale da accettare l'incarico con il solo scopo di farlo fesso per sottrargli il denaro.
Io e il Secco arriva da lontano, ovvero dal 2017, quando era solo un soggetto e vinse il premio Solinas. Scritto a quattro mani con la sceneggiatrice Michela Straniero, esce sei anni dopo, ed è per Gianluca Santoni la prima regia sul lungo dopo alcuni premi vinti in precedenza per dei corti. Insomma, il regista ha talento, e si vede nei momenti migliori del film, che sono quelli nei quali la strana coppia interagisce, mettendo in moto un giro di emozioni che divengono il fulcro di un percorso di formazione che si sviluppa in ambo i sensi, con il ragazzino che per la prima volta si trova ad interagire con una figura che, con tutti i limiti del caso, prova a dargli qualcosa (che non siano botte) come un padre dovrebbe, e con il ragazzone che, dopo essersi rifiutato di sostenere la paternità perché infantile, immaturo e egoista, si trova per la prima volta all'interno di un rapporto nel quale, gioco forza, l'adulto e il responsabile non può che essere lui.
Accanto ai lati positivi, ci sono però anche gli scricchiolii di una scrittura che lascia qualcosa di troppo in sospeso (il riferimento al cattivo rapporto del Secco con il proprio padre è buttato lì e abbandonato, finendo per apparire posticcio), e che soffermandosi oltremodo sull'empatia tra i due personaggi principali (Francesco Lombardo e Andrea Lattanzi, convincenti entrambi), tende a perdere di vista gli altri, che restano perlopiù abbozzati, genitori di Denni compresi, finendo per togliere forza al tema della violenza domestica e per non veder sostenuta e premiata la scelta, in sé lodevole, di lasciare la stessa lontana dalla macchina da presa. VOTO: ***
Con Thekla Reuten, Francesco Colella, Matteo Oscar Giuggioli, Amanda Campana
ALICE NELLA CITTÀ 2023 - PANORAMA ITALIA CONCORSO Nello stesso momento, in due taxi diversi, due coppie appena giunte a Roma si spostano verso lo stesso hotel. Daniele e Giulia vengono da Como, hanno circa vent'anni e la loro gioventù è la stessa del loro rapporto: lo vivono come qualcosa di incredibile, e ogni confronto con la gente che gli ruota attorno li porta a ritenersi più belli e più fortunati. Fabrizio e Emilie vengono dall'Olanda, paese di lei, e di anni ne hanno almeno il doppio: sono coppia da venti, quindi fisiologicamente meno entusiasti, e sono al primo viaggio da soli da quando i figli hanno raggiunto un'età che gli permette di poterli lasciare a casa.
Suspicious Minds di Emiliano Corapi parte da un'idea dai potenziali sviluppi interessanti: inserire nei percorsi autonomi di due coppie un evento fortuito che le porta a incrociarsi casualmente, e poi vedere l'effetto che fa.
L'evento casuale che cambia le carte in tavola, è il guasto di un ascensore che, appena arrivati in albergo, tiene bloccati per un'ora e mezza Giulia e Fabrizio (la ragazza della prima coppia e il padre di famiglia della seconda). Non appena i due vengono liberati, tutto sembra tornare alla normalità. Se non fosse che il sospetto prende pian piano piede nei rispettivi partner, attivando dinamiche totalmente diverse che hanno a che fare con le età degli interessati, con i loro caratteri, e con l'affiatamento delle coppie stesse. Entrare ulteriormente in dettagli serve a poco, se non a rovinare le sorprese che movimentano un film che si autodefinisce 'dramedy' e che di fatto si lascia seguire.
Se c'è un dato importante, però, è che un film di questo tipo, per una riuscita totale, difficilmente può prescindere da una sceneggiatura perfetta, cosa di cui però questo film non dispone. Perché sebbene funzioni sotto il piano del ritmo e della caratterizzazione dei personaggi (attendibili, umani e tridimensionali), quel che funziona meno, e che inevitabilmente porta a rivedere al ribasso un giudizio altrimenti più convintamente positivo, è la presenza, tra i ghirigori di sceneggiatura, di (almeno) una forzatura un po' troppo grande che fa vacillare di brutto l'intero castello di carte, ovvero (senza cadere in spoiler) di una scelta che una delle parti in commedia fa e che - tornandoci su a cose fatte - risulta estremamente difficile da comprendere e accettare. L'abilità nel centellinare le informazioni e la scelta programmatica di fornire i dettagli a piccole dosi (gli eventi accaduti nell'ora e mezza di black out dell'ascensore sono raccontati un pezzetto alla volta) aiutano se non altro a rendere la magagna meno evidente. Ma tant'è. VOTO: ***
FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023 - CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA
«Il buddismo in Bhutan non è solo un percorso spirituale, ma un modo di vivere». Non si può non partire da questa affermazione del regista Pawo Choyning Dorji per comprendere quanto traumatica possa esser stata per la popolazione, nel 2006, la scelta del re di abdicare per permettere l'introduzione della democrazia, che arrivò di pari passo con la tv e con internet. Un popolo che non conosceva i social network, 007 e la Coca Cola, subì una rivoluzione senza rivoluzione, dato che la democrazia non fu conquistata con rivolte o guerre, ma venne introdotta con una decisione serena e unilaterale di colui che era sempre stato l'unico detentore del potere. Che poi, anche il verbo 'subire' è probabilmente inappropriato, dato che tratto distintivo dato dal buddismo è il senso di comunità, e di conseguenza la fiducia completa nel prossimo, primo tra tutti il re. Allo stesso modo in cui i cittadini accettano seraficamente questa novità, accettano ogni scelta venga dal prossimo, perché, come spiega ancora il regista «la motivazione dietro a un atto è più importante dell'atto stesso».
The Monk and the Gun si muove in questo contesto qui, sviluppando il suo percorso in quattro giorni che culmineranno con il giorno della Luna Piena, nel corso del quale degli appositi istruttori terranno delle elezioni fittizie fatte apposta per addestrare la gente al voto e insegnarle l'individualismo, il disaccordo e la litigiosità, e in vista del quale il Lama ha pianificato una misteriosa cerimonia alla quale nessuno vuol mancare. In mezzo a tutto questo, come da titolo, c'è un prezioso fucile d'epoca che un commerciante statunitense è venuto fin lì a cercare, ignaro del fatto che in Bhutan una valigia piena di soldi può valere meno di una noce di Bethel. Dopo una prima parte farraginosa, The Monk and the Gun si assesta in una seconda nulla più che godibile: a farla da padrona, prima e dopo, è un'ironia grottesca che lavora discretamente sull'incompatibilità tra due istanze culturali pressoché opposte. VOTO: ***
FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023 - CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA Una didascalia, a fine film, informa che quella raccontata nello stesso è una storia di finzione, aggiungendo poi una dedica alle tante famiglie che hanno vissuto storie simili. Il riferimento è alla realtà di casa sua, la Francia, ma la lista di assassinii perpetuati da chi aveva il manganello dalla parte del manico è lunga, e certo non solo nelle banlieue francesi: in Italia, con Stefano Cucchi, si provò a derubricare la questione parlando di morte causata dall'epilessia, poi furono le foto e l'insistenza di una sorella con le spalle larghe a far emergere la verità. Avant que les flammes ne s'éteignent parla di un caso che nei dettagli appena menzionati è sinistramente simile, ma similitudini, a volerle cercare, se ne potrebbero trovare altre con altri mille casi affini, perché le scuse utilizzate per depistare sono più o meno sempre le stesse.
Mehdi Fikri, un passato da giornalista impegnato e qui al primo film da regista, sceglie di creare una vicenda che attinga a una storiografia sterminata affinché diventi paradigmatica e affinché metta in scena lo strazio vissuto dalle famiglie coinvolte, che trovano infangata la memoria di un defunto al punto di subire persecuzioni il cui scopo, da parte di chi rappresenta lo stato, è semplicemente coprire altri 'pezzi' di stato macchiatisi di reati gravissimi in virtù di una difesa corporativistica al di là di ogni ragione. Seppur mosso da intenti nobili, Fikri si inerpica in un racconto convulso, finendo per incartarsi in un reticolo fatto di troppi personaggi cui non sempre trova il modo di dare uno sviluppo e una definizione pieni. Inevitabilmente politico oltre che chiaramente sentito, Avant que les flammes ne s'éteignent ha il difetto maggiore in una ossessione del messaggio che tende, man mano, ad appiattire il dramma in favore di uno schematismo che non paga. VOTO: **½
FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023 - GRAND PUBLIC Boston, anni '60. Parcheggiata con la propria auto di sera in riva al mare, la ventiquattrenne Eileen spia una coppia che in un'altra auto amoreggia, e per placare i bollenti spiriti coglie neve da terra e se le infila nelle mutande. Tornata a casa, schiva il padre che dorme sul divano, poi mangia dolciumi sparsi prima di addormentarsi a sua volta. L'indomani mattina va a lavoro - segretaria presso il carcere minorile di Moorehead - e dopo aver preso vari rimbrotti da una superiore trova il modo di eccitarsi ancora, stavolta fantasticando di venir posseduta da un secondino. Una volta fuori, è costretta ad andare a recuperare il padre, ex poliziotto in pensione, che tanto per cambiare sta girando ubriaco importunando il vicinato brandendo la propria pistola.
I primi minuti di Eileen sono spesi dal regista William Oldroyd per presentare la personalità problematica, timida e solitaria della protagonista, scansata da tutti a lavoro e blindata in un mondo tutto suo fatto di fantasie e frustrazione. Il tono resta lo stesso per un'ora abbondante, con un'ironia sottile ad accompagnare un racconto che pesca in un immaginario grottescamente torbido; un'ora nel corso della quale, progressivamente, a prendere le redini dei sommovimenti emotivi del racconto è un personaggio ancora non introdotto. Perché, mentre nel carcere fa scalpore l'arrivo di un ragazzino accusato di aver accoltellato il padre, una possibile svolta, nella vita della ragazza, sembra giungere quando nel team di lavoro entra una nuova psicologa, la conturbante Rebecca, la quale, differentemente da tutti gli altri colleghi, non solo non la ignora, ma la prende in simpatia, cercando con lei il dialogo e un minimo di contatto empatico, portandola ad iniziare a pensare di aver trovato una nuova amica, se non qualcosa di più importante.
Se, per non guastare la fruizione del film, è bene fermarsi qui e non rivelare altro sulla trama, è vero però che a fare il danno sono gli autori stessi: se merito innegabile del regista William Oldroyd e degli sceneggiatori Luke Goebel e Ottessa Moshfegh (che adatta per il cinema un proprio racconto), è quello di riuscire a costruire la tensione intorno ad un'aspettativa della protagonista per poi disattenderla con un colpo di scena notevole, capace di cambiare in un attimo un orizzonte intero, colpa imperdonabile è quella di non saperlo sostenere poi, gettando tutto alle ortiche con un finale inesistente nel senso letterale del termine: un finale che proprio non c'è. Al punto di far sperare (invano) in una bizzarra scelta di posporre la decina abbondante di minuti mancanti ai titoli di coda. Dopo aver verificato che, effettivamente, dopo titoli di coda non c'è nulla, si va via prendendo atto di esser stati vittima di uno scherzo poco divertente. VOTO: **½
Con Jodie Comer, Katherine Waterston, Mark Strong, Benedict Cumberbatch, Gina McKee
FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023 - GRAND PUBLIC The End We Start From inizia con una dissolvenza in bianco: è l'interno di una vasca che viene riempita di acqua. La prospettiva muta passando all'esterno, e subito a spiccare è il pancione della donna che sta facendo il bagno. È chiaro che le doglie siano imminenti, ma lo è altrettanto che la casa sia in pericolo: non certo per l'acqua che è dentro la vasca, bensì per quella che sta scendendo a litri fuori, dal cielo, e che inizia a infiltrarsi da sotto la porta d'ingresso. In un batter di ciglia, dalle immagini della donna che chiama invano, disperata, il servizio ambulanze, collassato e fuori uso per l'emergenza, l'azione riparte dall'ospedale, dove è arrivata non si sa bene come (forse fluttuando): giusto in tempo per mettere al mondo il bimbo, presentarlo al suo uomo arrivato nel frattempo, e, su suggerimento dell'ostetrica, andare a fare pipì e magari, nel frattempo, decidere con lui un nome da dargli, dato che per nove mesi pare non lo avessero fatto.
Le notazioni ironiche che accompagnano la descrizione di questi primi minuti, sono figlie di una indeterminatezza che, purtroppo, è la cifra dominante del film tutto. È facile pensare che a un certo punto le ambulanze abbiano in qualche modo ripreso a funzionare, o che il primo segmento fosse solo un ricordo confuso, come è plausibile ipotizzare un passato burrascoso nella coppia, o più semplicemente la loro scelta di non definire in anticipo il nome del nascituro, o magari una lite sull'antroponomastica: tutto però, in The End We Start From di Mahalia Belo, è lasciato in una vaghezza che non ha nulla a che fare con la sospensione, con il pathos o con il mistero.
Voci dai telegiornali aggiornano ciclicamente lo spettatore su un disastro ambientale che ha sommerso mezza Londra, con la casa di lei e di lui che è chiaramente parte di questa conta. Costretti a spostarsi di continuo per sopravvivere, presto la donna e il poppante si trovano separati anche dall'uomo, che resta comunque presente in numerose stucchevoli e ripetitive apparizioni, così come in scialbi flashback a scoppio ritardato. Nel frattempo, una sceneggiatura sgrammaticata inserisce personaggi privi di qualsiasi nerbo, che appaiono con lo scopo di sparire dopo aver fatto piattamente da spalla in un racconto comunque reticente, che si disinteressa del contesto sociale, politico o ambientale, e sembra voler andare di pari passo con la psiche devastata della protagonista senza avere minimamente la forza per entrare in empatia con il suo dolore. VOTO: **
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