Opera di finzione basata (oltre che su “Turing’s Cathedral - the Origins of the Digital Universe”, il fondamentale tomo del 2012 di George Dyson, tradotto e pubblicato da noi per i benemeriti tipi di Codice) sulla realtà, o non-fiction novel che dir si voglia, “The MANIAC” (Mathematical Analyzer Numerical Integrator and Automatic Computer, ovvero Mathematical And Numerical Integrator And Computer) di Benjamín Labatut è un eccellente saggio narrativo biografico di divulgazione scientifica (sui generis, vagamente in zona Yuval Noah Harari) tripartito:
- il prologo, una crepa nella realtà, è dedicato a Paul Ehrenfest (1880-1933) che, affacciatosi sull’orizzonte degli eventi (della meccanica quantistica e delle tempeste d’acciaio che porteranno alla MAD, la Mutual Assured Destruction) e (non) comprendendo come lo scindere e il fondere gli atomi avrebbe consegnato all’umanità il potere dell’autodistruzione (un “Quando Abbiamo Smesso di Capire il Mondo”, ovvero “un Verdor Terrible”, sempre di Labatut per Adelphi, in anticipo di 85 anni) preferì - così come farà più heisenberg-schrödingerianamenteEttore Majorana (1906-1938) un lustro dopo - l’oblio allo sgomento,
- la corposa parte centrale, l’invasione della luce, è incentrata sull’essere umano che ha “partorito il moderno computer, formulato le basi matematiche della meccanica quantistica, scritto le equazioni per l'implosione della bomba atomica, concepito la teoria dei giochi e del comportamento economico, e preconizzato l'avvento della vita digitale, delle macchine autoreplicanti, dell'intelligenza artificiale e della singolarità tecnologica”, John von Neumann (e - alla pari di Alessandro Magno, Gengis Kahn e Napoleone Bonaparte: scienziati come conquistatori non dell’inutile, ma dell’impossibile/incredibile/inaudito - Georg Cantor, Bertrand Russell, Albert Einstein, Ludwig Wittgenstein, Niels Bohr, Enrico Fermi, J. Robert Oppenheimer (nella foto qui sotto a metà anni cinquanta proprio con von Neumann, il quale visitò solo una manciata di volte i laboratori di Los Alamos durante il Manhattan Project, e anche per questo - la scusa migliore fra le tutte peggiori - non è presente, nemmeno in citazione, nel film di Christopher Nolan), Edward Teller, Alan Turing e Kurt Gödel con le sue verità indimostrabili e dimostrazioni incomplete che misero in crisi lo stesso von Neumann) ed è raccontata da una sorta di spoonriverico catalogo di testimonianti personalità artificiali silverberghianamente ricreate all’uopo (mémoire fittizi basati su e ricavati da fonti ufficiali, edite ed inedite: non-invenzione iperrealistica e verità romanz-ata/esca) tra le quali quelle di Richard Feynman, Julian Bigelow, Sydney Brenner, Eugene Wigner, Nils Aall Barricelli (una storia, la sua, che meriterebbe una biblio-filmografia a sé) e le due mogli e la figlia (l'unica voce ancora in vita) di von Neumann, che parlano al lettore da un altrove/altroquando (elsewhere/elsewhen) semi-onnisciente,
- e l’epilogo, un gioco di ombre, è affidato al celebre scontro avvenuto a metà anni dieci del ventunesimo secolo fra Lee Se-dol, gran maestro e campione mondiale al 9° dan nel gioco del go, e AlphaGo, “una cosa bella, non di questo mondo”, il software (evoluzione del DeepBlue della IBM che vent’anni prima sconfisse Garri Kasparov a scacchi) di auto-apprendimento automatico, profondo e per rinforzo della DeepMind (Alphabet/Google) di Demis Hassabis e soci.
Il silicio, il petrolio, i metalli preziosi e le terre rare che andranno a costituire il fredricbrowniano “Adesso sì!” (in “Answer” del 1954) e l’isaacasimoviano “E luce sia!” (in “the Last Question” del 1956) vengono estratti dal sottosuolo africano proprio in questo istante. Le I.A. avranno anch’esse una loro culla africana, non lontana dalle Gole di Olduvai.
Nota a margine. I monoliti nella saga dell’Odissea Spaziale di Arthur C. Clarke non sono “altro” che Architetture/Macchine (aliene) di von Neumann.
‘I know what they are!’ said Ternovsky in sudden excitement. ‘They’re von Neumann machines!’ ‘I believe you’re right,’ said Vasili. ‘But that still doesn’t explain what they’re doing. Giving them a label isn’t all that much help.’ ‘And what,’ asked Katerina plaintively, ‘is a von Neumann machine? Explain, please.’ Orlov and Floyd started speaking simultaneously. They stopped in some confusion, then Vasili laughed and waved to the American. ‘Suppose you had a very big engineering job to do, Katerina - and I mean big, like strip-mining the entire face of the Moon. You could build millions of machines to do it, but that might take centuries. If you were clever enough, you’d make just one machine - but with the ability to reproduce itself from the raw materials around it. So you’d start a chain reaction, and in a very short time, you’d have bred enough machines to do the job in decades, instead of millennia. With a sufficiently high rate of reproduction, you could do virtually anything in as short a period of time as you wished. The Space Agency’s been toying with the idea for years - and I know you have as well, Tanya.’ ‘Yes: exponentiating machines. One idea that even Tsiolkovski didn’t think of.’ ‘I wouldn’t care to bet on that,’ said Vasili. ‘So it looks, Katerina, as if your analogy was pretty close. A bacteriophage is a von Neumann machine.’ ‘Aren’t we all?’ asked Sasha. ‘I’m sure Chandra would say so.’ Chandra nodded his agreement. ‘That’s obvious. In fact, von Neumann got the original idea from studying living systems.’ ‘And these living machines are eating Jupiter!’
“È possibile inventare una singola macchina che possa essere usata per calcolare qualsiasi sequenza computabile.” – Alan Turing
“Voi sostenete che certe cose una macchina non le può fare. Spiegatemi esattamente cosa una macchina non può fare, e io riuscirò a costruire una macchina che fa proprio quella cosa.” – John von Neumann
“La nostra esistenza terrena, avendo di per sé un significato alquanto dubbio, non può che essere un mezzo rivolto a un'altra esistenza. L'idea secondo cui tutto al mondo ha un significato è, dopotutto, esattamente analoga al principio secondo cui tutto ha una causa, principio sul quale l'intera scienza si fonda.” – Kurt Gödel
“Il potere della tecnologia in quanto tale è sempre ambivalente, e la scienza non può che essere neutrale, limitandosi a fornire mezzi di controllo applicabili a qualunque scopo, e indifferenti a tutto. Il pericolo non sta nella natura particolarmente distruttiva di una singola invenzione. Il pericolo è intrinseco. Per il progresso non c’è cura.” – John von Neumann
Colophon. Benjamín Labatut - “The MANIAC” - 2023 - ExLibris (edizione italiana: Adelphi, 2023; collana Fabula, n. 395; traduzuione di Norman Gobetti; brossura rilegata a filo refe con copertina flessibile; 360 pagg., 20.ºº €).
il primo passo in postura eretta e la scoperta di tutto quel tempo libero per le mani la prima pietra raccolta e giocata la prima pietra lanciata la prima pietra scelta (selce) scheggiata la prima impronta di una mano sulla parete di roccia all’entrata di una grotta la prima parola pensata (il primo numero pensato) la prima parola pronunciata/gestualizzata (il primo numero pronunciato/gestualizzato) la prima domesticazione (gestione riproducibile e controllata) del fuoco il primo lupo divenuto cane il primo seme raccolto il primo seme seminato il primo bue divenuto aratro il primo scafo varato la prima ruota montata in asse il primo cavaliere la prima parola scritta (il primo numero scritto) la prima lente (microscopio, occhiale, telescopio) il primo libro stampato coi caratteri mobili (la colonizzazione del)le Americhe Galileo il primo cavallo-vapore la fotografia Darwin il cinema il primo stacco dell’ombra da terra Einstein, Freud la penicillina la fissione nucleare la fusione nucleare i primi 0 ed 1 il primo passo sulla Luna Voyager e Pioneer la Rete il primo passo su Marte le intelligenze artificiali il trasferimento/consolidamento di coscienza la velocità superluminale i viaggi nel tempo l’ennesimo orga(ni)smo mentale, e il primo vagito: singolarità e trascendenza
Con Francesco Guerra, Nadia Robotti, Ettore Majorana jr., Etienne Klein
- - - PAUL EHRENFEST - - -
(La scoperta dell'irrazionale.)
Sebbene fosse fermamente schierato dalla parte del nuovo - e molto più aperto del suo amico Einstein ai principi rivoluzionari sostenuti da Bohr, Heisenberg, Born e Dirac -, Ehrenfest non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che fosse stato oltrepassato un confine fondamentale, che un demone, o forse un genio, si fosse annidato nell'anima della fisica, e che né la sua generazione né quelle successive sarebbero mai più riuscite a rimetterlo nella lampada. Se si doveva dar credito alle nuove regole che governavano lo spazio interno all'atomo, tutt'a un tratto il mondo intero non era più solido e reale come in passato. «Dev'esserci un settore speciale del purgatorio destinato ai professori di meccanica quantistica!» scrisse Paul a Einstein dopo essere tornato a Leida dal Congresso Solvay, ma nemmeno il suo senso dell'umorismo riusciva a frenare la sua discesa nell'abisso tenebroso nel quale sembrava precipitare sempre più in fretta, non da ultimo a causa della strana direzione presa dalla disciplina a cui si era consacrato, ormai piena di contraddizioni logiche, incertezze e indeterminatezze che lui non riusciva più a spiegare ai suoi amati studenti, e neanche a comprendere. Nel maggio del 1931 confessò i suoi timori in una lettera a Niels Bohr: «Ho completamente perso il contatto con la fisica teorica. Non riesco più a leggere niente e mi sento incapace di cogliere anche solo un briciolo di senso nella marea di libri e articoli che escono. Forse nessuno può più aiutarmi. Ogni nuovo numero della "Zeitschrift für Physik" o della "Physical Review" mi getta nel panico più totale. Non ci capisco più nulla!». Nella sua risposta, Bohr cercò di consolare l'amico sottolineando come a trovare problematiche le ultime scoperte non fosse solo lui, ma l'intera comunità dei fisici; ricevette tuttavia un'altra lettera, ancora più lunga, in cui Paul lamentava di sentirsi come un cane che, ormai totalmente esausto, continua a inseguire un tram che porta via il suo padrone.
Un pomeriggio, negli anni Quaranta dell'Ottocento, George Boole stava passeggiando in un campo nei pressi di Doncaster quando gli balenò in testa un pensiero che ritenne essere una visione religiosa. Tutt'a un tratto capì come ci si poteva servire della matematica per svelare i misteriosi processi del pensiero umano. Gli stessi simboli che venivano usati nell'algebra potevano essere usati delle per descrivere quel che accade nella testa persone mentre seguono il corso dei propri pensieri, esprimendo in semplice forma binaria il loro tortuoso dipanarsi. Se questo, allora quello. Se quello, allora non questo. E nel 1854 scrisse un libro che fece scalpore. Si intitolava Indagine sulle Leggi del Pensiero e si proponeva di «indagare le leggi fondamentali di quelle operazioni della mente attraverso cui si esegue un ragionamento»... Boole era mosso dalla convinzione quasi messianica che Dio gli avesse concesso di intravedere la verità della mente umana. Ma c'era chi ne dubitava; il filosofo Bertrand Russell era rimasto colpito dalla genialità della matematica di Boole, ma riteneva che le sue scoperte non avessero nulla a che fare col pensiero umano. Gli esseri umani, diceva Russell, non pensano a quel modo. Ciò che stava facendo Boole era un'altra cosa...
Adam Curtis - "Can't Get You Out of My Head: an Emotional History of the Modern World" - 2021 - BBC
Quando il cancro si estese al cervello e cominciò a distruggergli la mente, fu preso in custodia dai militari statunitensi e rinchiuso al Walter Reed Army Medical Center. Due guardie armate stazionavano davanti alla porta della sua camera, e a nessuno era consentito vederlo senza un apposito permesso del Pentagono. Un colonnello dell'aeronautica e otto avieri tenuti alla massima riservatezza erano stati incaricati di assisterlo a tempo pieno, anche se c'erano giorni in cui non riusciva a fare altro che dare in escandescenze come un pazzo. Era un matematico ebreo cinquantatreenne emigrato negli Stati Uniti dall'Ungheria nel 1937, eppure al suo capezzale sedevano il contrammiraglio Lewis Strauss, presidente della Commissione per l'energia atomica, il segretario della Difesa, il vicesegretario della Difesa, i segretari dell'Aeronautica, dell'Esercito e della Marina e il capo di Stato Maggiore delle forze armate, e tutti pendevano dalle sue labbra, tutti erano in attesa di un'ultima scintilla, di un'ulteriore idea dall'individuo che aveva partorito il moderno computer, formulato le basi matematiche della meccanica quantistica, scritto le equazioni per l'implosione della bomba atomica, concepito la teoria dei giochi e del comportamento economico, preconizzato l'avvento della vita digitale, delle macchine autoreplicanti, dell'intelligenza artificiale e della singolarità tecnologica e promesso loro un controllo divino sul clima terrestre, e che ora deperiva davanti ai loro occhi, gridava in preda ad atroci sofferenze, era perso nei suoi deliri e stava morendo, come qualunque altro uomo.
Con Anne Wiazemsky, François Lafarge, Philippe Asselin
Mi sono spesso interrogato sulla coscienza degli animali, su come debba essere più nebulosa e fuggevole della nostra, più vicina a uno stato di sogno - pensieri piccoli come candele smozzicate, dai contorni mai del tutto definiti.
Da un punto di vista spirituale era un ignorante, certo, però aveva un'incontestabile fede nella logica. Ah, ma quel tipo di fede è sempre pericoloso! Soprattutto se viene poi tradito. Di ogni cosa si dovrebbe poter dubitare. Mosè ha dubitato persino dell'Onnipotente! E finché il Signore, Egli sia benedetto, non risponde, potrebbe essere il dubitare stesso a salvarci. Perdere la fede è peggio che non averla mai avuta, perché ciò che resta è un'enorme voragine, un po' come il vuoto lasciato dallo Spirito quando ha abbandonato questo mondo maledetto. →→→
→→→ Ma per loro natura queste cavità a forma di dio chiedono di essere riempite da qualcosa di altrettanto prezioso di ciò che si è perso. Ed è la scelta di quel qualcosa - sempre che sia una scelta - a determinare il destino degli uomini.
Con Lars Rudolph, Peter Fitz, Hanna Schygulla, Mihály Kormos
Guardando col senno di poi a quello che abbiamo fatto, la gente ora pensa che fossimo tutti dei mostri e dei pazzi, perché come abbiamo potuto portare quei demoni nel mondo? Come abbiamo potuto gingillarci con forze così terribili, forze che potrebbero benissimo spazzarci via dalla faccia della terra o rispedirci in un tempo antecedente alla ragione, un tempo in cui l'unico fuoco che conoscevamo era quello scaturito dai fulmini che divinità irate ci scagliavano addosso mentre noi tremavamo nelle nostre caverne? Un piccolo, sporco segreto di cui quasi tutti noi siamo al corrente, ma di cui raramente si parla, è che ad attrarci, a spingerci a progettare quelle armi non fu il desiderio di potere o di ricchezza, di fama o di gloria, ma il puro entusiasmo per l'aspetto scientifico. A questo non abbiamo saputo resistere. La pressione e la temperatura generate dalla reazione nucleare a catena, quei principi fisici così sublimi, il colossale rilascio di energia... tutto era diverso da qualunque altra cosa avessimo conosciuto. L'idrodinamica dell'esplosione e delle onde d'urto, o quella luce sconvolgente che per poco non ci accecò... nessun occhio umano le aveva mai viste prima. Stavamo scoprendo qualcosa che nemmeno Dio aveva creato prima di noi. Perché quelle condizioni non erano mai esistite altrove nell'universo; la fusione è un fenomeno comune nel cuore delle stelle, ma noi avevamo ottenuto la fissione all'interno di una sfera di metallo di appena un metro e mezzo di diametro, dentro la quale si annidava un nocciolo ancora più piccolo di soli sei chili di plutonio. Ancora non riesco a credere che ci siamo davvero riusciti. Non si trattava quindi soltanto dell'affannosa corsa per battere i nazisti (e più tardi i russi, e poi i cinesi, e così via sino alla fine del mondo), ma della gioia di pensare l'impensabile e fare l'impossibile, di spingersi oltre ogni limite umano facendo ardere il dono di Prometeo al massimo del-l'incandescenza.
Noi, i «marziani», abbiamo svolto un ruolo spropositato nel programma nucleare statunitense. Ci chiamavano così per una battuta di Fermi, che quando qualcuno gli aveva chiesto se gli extraterrestri esistessero davvero aveva risposto: «Certo che esistono, e sono già fra noi, solo che si fanno chiamare ungheresi». A loro sembravamo alieni. E forse lo eravamo. Perché come aveva potuto un paese così piccolo - per di più circondato da nemici e dilaniato fra imperi rivali - produrre così tanti scienziati straordinari in così poco tempo?
Eugene Wigner
(I cavalieri ungheresi dell'apocalisse.)
A corollario & contraltare, Edward Teller, citato filologicamente da Robert J. Sawyer in "the Oppenheimer Alternative": «Una bomba atomica a fissione è semplice. Possono realizzarla anche i tuoi neolaureati. Ma una bomba basata sulla fusione nucleare? Quella sì che è una sfida degna di noi.»
Se noi fisici avevamo già scoperto il peccato, con la bomba all'idrogeno conoscemmo la dannazione. Nell'autunno del 1952, mentre negli Stati Uniti milioni di bambini innocenti si preparavano per Halloween - col sangue finto che gli colava dai denti da vampiro, le braccia coperte da bende che preservano dal passare del tempo il corpo di una mummia, la sua anima maledetta fiaccata da vene inaridite, le manine in fremente attesa di protendersi in avanti per partecipare all'orrore simulato della vigilia di Ognissanti, la notte in cui gli spiriti dei morti tornano a vagare fra i viventi -, all'altro capo del mondo, su un'isola nell'atollo di Enewetak nell'Oceano Pacifico, Ivy Mike, un mostro reale, il primo prototipo dell'arma più letale nella storia dell'umanità, esplose con una potenza cinquecento volte maggiore di quella delle bombe che avevamo usato in Giappone per massacrare duecentomila persone. Era un aggeggio orripilante, dall'aspetto diabolico: un gigantesco serbatoio d'acciaio alto quanto una casa di tre piani, pesante settantaquattro tonnellate, e pieno di deuterio - un isotopo dell'idrogeno - allo stato liquido, raffreddato a meno duecentocinquanta gradi. Quello era il combustibile per l'esplosione termonucleare. Ma quella bomba principale veniva innescata da un'altra bomba. C'era bisogno dei raggi X emessi da un ordigno più piccolo a fissione, simile alla bomba Fat Man che avevamo sganciato su Nagasaki. Quell'ordigno era posato in cima al serbatoio e sporgeva da lì come un'escrescenza tumorale. L'intero meccanismo, coi sistemi di sostegno, i refrigeratori, i sensori, i trasformatori, le tubazioni, i riflettori neutronici in foglia d'oro, i pannelli di piombo, il rivestimento in polietilene, l'uranio grezzo e il trizio e l'innesco al plutonio, era così grosso che sembrava più una fabbrichetta che una bomba. La tenevano in un hangar costruito sull'isola di Elugelab, che fu vaporizzata dall'esplosione. Scomparve completamente, cancellata dalla faccia della terra insieme a ottanta milioni di tonnellate di corallo e rimpiazzata da un cratere profondo come un palazzo di diciassette piani, descritto in uno dei rapporti ufficiali come «abbastanza grande da contenere all'incirca quattordici edifici della grandezza del Pentagono». Nel primo istante della reazione termonucleare, dal punto zero si propagò un lampo luminoso, la stessa luce che avevo osservato a Trinity. Consumati veterani che avevano combattuto ed erano rimasti feriti durante la seconda guerra mondiale caddero in ginocchio e si misero a pregare. Intuirono che stava succedendo qualcosa di indicibilmente sbagliato quando videro l'ombra delle proprie ossa attraverso la carne. Anche chi si trovava fra quattro pareti fu quasi accecato dai fasci di luce che riuscirono a penetrare da ogni minimo foro o spiraglio in porte e boccaporti ben chiusi. Il lampo fu seguito da una tremenda palla di fuoco che comparve all'orizzonte come un sole che sorge. Rapidamente si espanse in un'enorme nube a forma di fungo che si sollevò verso la stratosfera e continuò a crescere fino a essere cinque volte più alta dell'Everest. Le dimensioni della nube erano incomparabilmente maggiori di quella che avevo visto io nel deserto: osservatori che si trovavano a cinquanta chilometri di distanza dall'isola vaporizzata rabbrividirono quando la nube cominciò a incombere su di loro, sorretta da un gambo largo e torbido fatto di frammenti di corallo, detriti e vapore acqueo. Mentre si espandeva, la palla di fuoco raggiunse una temperatura di oltre cento milioni di gradi, maggiore di quella nel nucleo del Sole. Sembrava quasi viva, ribolliva e si ripiegava su se stessa come marmellata che cuoce in una pentola, con grossi grumi neri che galleggiavano in quella massa traboccante. Il cielo divenne rosso come dentro una fornace. Uno dei piloti che vi volavano sopra scrisse che l'atmosfera stessa sembrava in ebollizione. In cielo si formarono nuvole gigantesche, e poi una strana oscurità si protese verso l'orizzonte, inseguendo una fortissima onda sonora che durò minuti, mentre il boom sonico riecheggiava fra la stratosfera e l'oceano. Il boato della bomba fu assordante. «Una cosa stupefacente, come cento temporali insieme provenienti da tutte le direzioni. Sembrava che il cielo stesse per scoppiare. Le nostre orecchie hanno continuato a fischiare e a farci male per ore» disse uno dei marinai che avevano assistito alla scena da una corazzata in mare aperto. Il calore dall'esplosione fu così estremo che a molti chilometri di distanza i biologi trovarono uccelli con le penne mezzo bruciate, e pesci a cui mancava la pelle da un lato come se fossero stati buttati in una padella rovente. «Una cosa che non dimenticherò mai è il calore» mi raccontò in seguito un fisico mio amico che si trovava a quaranta chilometri dal punto zero. «È stata un'esperienza terrificante, perché la temperatura non diminuiva. Nelle esplosioni da qualche chilotone, come quella a cui abbiamo assistito a Trinity, c'è un lampo e poi tutto finisce, mentre con questa bomba all'idrogeno il calore si continuava a sentire, e diventava sempre più forte. Avresti giurato che il mondo intero era in fiamme». A Los Alamos, dopo il successo del nostro primo test, eravamo euforici e avevamo celebrato per giorni e giorni con sfrenate feste alcoliche, invece gli scienziati che videro la prima esplosione termonucleare al mondo furono terrorizzati dalla forza che avevano scatenato. Molti se ne pentirono all'istante.
Qualcosa di piccolissimo, di così minuscolo e insignificante da risultare in origine quasi invisibile, può nondimeno dischiudere una nuova e radiosa prospettiva, perché per suo tramite un ordine superiore dell'essere sta cercando di esprimersi. Questi improbabili accadimenti possono celarsi tutt'attorno a noi, in agguato ai margini della nostra consapevolezza o placidamente sospesi nel mare di informazioni in cui anneghiamo, ognuno col potenziale di sbocciare e far luce con violenza, divellendo le assi del pavimento di questo mondo per mostrarci cosa si cela al di sotto. Io lo so perché ho fatto parte del gruppo di scienziati che ha scoperto il ruolo svolto dall'RNA messaggero in tutte le cellule viventi. Essenzialmente, è come una microscopica macchina che copia informazioni dal DNA e le trasmette a una struttura che le utilizza per fabbricare proteine, i mattoncini della vita. Da allora molti mi hanno chiesto da dove abbia tratto l'ispirazione, e io confesso sempre che mi è venuta da uno degli articoli meno noti di von Neumann, un esperimento mentale molto breve ma molto potente su cosa ci vorrebbe per costruire una macchina autoreplicante. Nessuna delle persone che conosco ne ha mai sentito parlare, e non so neanche più come sia finito tra le mie mani, ma in quell'articolo von Neumann fece una cosa straordinaria: riuscì a stabilire le regole logiche alla base di tutte le modalità di autoreplicazione, biologiche, meccaniche o digitali che siano. E talmente oscuro che non c'è da stupirsi se all'inizio passò del tutto inosservato. O forse si tratta semplicemente di una di quelle cose troppo aliene per essere apprezzate con facilità, idee che per poter finalmente maturare e cadere a terra hanno bisogno che la scienza e la tecnologia siano pronte e si sviluppino. Von Neumann dimostra che è necessario un meccanismo che riproduca non solo un determinato essere, ma anche le istruzioni che caratterizzano quell'essere. Sono necessarie entrambe le cose: fare una copia e dotarla delle istruzioni necessarie a costruire se stessa, nonché della descrizione di come applicare quelle istruzioni. Nell'articolo divideva il suo costrutto teorico - che chiamava «automa» - in tre componenti: la parte funzionale; un decodificatore che legge le istruzioni e costruisce la copia successiva; e un dispositivo che prende quelle informazioni e le inserisce nella nuova macchina. La cosa stupefacente è che proprio lì, in quell'articolo scritto alla fine degli anni Quaranta, von Neumann illustra il modo in cui funzionano il DNA e l'RNA, molto prima che chiunque avesse anche solo intravisto la strana bellezza della doppia elica. Nelle sue parole, i fondamenti logici di tutti i sistemi di autoreplicazione risultano talmente cristallini che non riesco a credere di non esserci arrivato da solo. Sarei diventato all'istante una celebrità! Ma non ero abbastanza intelligente, non ero in grado di applicare i suoi immacolati concetti matematici al caotico mondo della biologia. Ci vollero anni perché quei concetti si insinuassero a poco a poco nel mio lavoro. A mia discolpa va detto che ancora oggi è difficile capire come von Neumann abbia partorito le sue idee, dato che, almeno per quanto ne sappiamo, non studiò forme di vita reali, esseri viventi in carne e ossa, ma si limitò a immaginare un'entità teorica in grado di autoreplicarsi, creatura diversa da tutte quelle esistenti. Grazie a lui, nella biologia moderna si è venuta a creare questa situazione molto particolare: prima sono state stabilite con massima precisione le basi matematiche, e poi abbiamo scoperto come si è effettivamente implementata la vita sulla Terra. Non è così che vanno le cose. Di norma nella scienza si parte dal concreto per passare all'astratto, mentre in questo caso von Neumann ha illustrato le regole di cui il nostro DNA è solo un esempio specifico. Perciò, nello scrivere una storia delle idee, andrebbe detto che la descrizione della funzione del DNA da parte di Watson e Crick era stata prefigurata da von Neumann quasi un decennio prima. A mio parere, questo fa di lui un autentico profeta. →→→
→→→ Ma non si fermò qui. Continuò a lavorarci su concependo quella che oggi chiamiamo «sonda di von Neumann»: una navicella spaziale in grado di costruirsi da sola, ripararsi da sola e migliorarsi da sola, che potremmo mandare a colonizzare i pianeti esterni del nostro sistema solare, e da lì verso i più oscuri recessi dello spazio. Queste sue macchine potrebbero raggiungere mondi remoti, avventurandosi molto più in là di dove qualunque essere umano - o, quanto a questo, qualunque entità biologica - potrebbe mai arrivare. Approderebbero in lande aliene, si procurerebbero i materiali necessari per assemblare copie di se stesse, e poi spedirebbero questa progenie perfezionata in un interminabile viaggio nel vuoto, spingendosi sempre più avanti, disseminando l'universo della loro discendenza, continuando a prosperare anche dopo l'estinzione del genere umano. Teoricamente un'unica sonda di von Neumann che viaggiasse al cinque per cento della velocità della luce potrebbe replicarsi in tutta la nostra galassia in quattro milioni di anni. Ma per quanto meraviglioso, questo suo esperimento mentale, al pari di tante altre cose nella scienza, potrebbe produrre scenari inquietanti. Che cosa accadrebbe se, come capita comunemente in tutti i processi di autoreplicazione, una delle sonde subisse una piccola mutazione? Questo minuscolo errore, questo scarto quasi impercettibile, potrebbe influire su uno dei suoi processi fondamentali, modificandone le caratteristiche e gli obiettivi, e poi diffondersi nei futuri discendenti, trasformando questi dispositivi tecnologici in modi impossibili da prevedere. È agghiacciante pensare a quel che potrebbero diventare, mentre viaggiano per le distese sconfinate dello spazio con un tempo illimitato a disposizione. Quanto potrebbero allontanarsi da ciò per cui erano stati programmati? Smetterebbero di rispondere ai comandi, scegliendo di restare su un unico pianeta e svilupparsi lì in tutta tranquillità? Diventerebbero famelici, un gigantesco sciame che consuma ogni cosa al suo passaggio perseguendo nuovi obiettivi, prefiggendosi scopi e intenti che andrebbero al di là della semplice scoperta ed esplorazione? E se decidessero di invertire la rotta e tornare indietro, di ripercorrere in senso contrario il loro itinerario di milioni di anni pretendendo da noi - i loro genitori smarriti da tempo - il perdono delle loro malefatte e una risposta alla più pressante delle domande, la stessa che assilla e tormenta anche la nostra specie: perché? Perché li abbiamo creati e poi abbandonati? Perché li abbiamo sguinzagliati nelle tenebre? Per quanto fantasiose ed estremamente improbabili, queste prospettive future ci pongono di fronte a quesiti interessanti. Siamo responsabili delle cose che creiamo? Siamo vincolati a quelle cose dalla stessa catena che sembra legare fra loro tutte le azioni umane? Che sia o meno una fortuna, le macchine autoreplicanti e le sonde di von Neumann restano al di là della nostra portata. Per poterle creare sarebbero necessari grandi passi avanti nella miniaturizzazione, nei sistemi propulsivi e nell'intelligenza artificiale avanzata, ma non possiamo negare che ci stiamo lentamente avvicinando a un momento nella storia in cui la nostra relazione con la tecnologia sarà fondamentalmente alterata, dato che le creature della nostra immaginazione cominciano a poco a poco a prendere forma reale, e noi dobbiamo assumerci la responsabilità non solo di crearle, ma anche di prendercene cura. →→→
→→→ Più o meno nello stesso periodo in cui von Neumann si appassionava di biologia e di autoreplicazione, Alan Turing si chiedeva cosa sarebbe servito per generare un'intelligenza non umana. Nel suo articolo Macchine Calcolatrici e Intelligenza descrisse un metodo di apprendimento automatico che contemplava mutazioni, casuali o meno, di un programma di calcolo. Il punto chiave del suo approccio era che questo programma si sarebbe evoluto e avrebbe appreso in una maniera simile a quella dei bambini, ricevendo costanti feedback da un «genitore» umano. Intraprese alcuni esperimenti pratici che comportavano un processo analogo alla somministrazione di punizioni e ricompense - fornendo alla macchina qualcosa di simile al dolore e al piacere -, nella speranza di suscitare così le reazioni appropriate e scoraggiare i comportamenti meno desiderabili. A quanto pare non ebbe molto successo, e non descrisse in dettaglio i risultati ottenuti. «Ho fatto alcuni esperimenti con una di queste macchine-bambino e sono riuscito a insegnarle alcune cose, ma il metodo di insegnamento era troppo poco ortodosso perché il mio possa essere considerato un vero successo» scrisse. Nonostante il fallimento, una delle intuizioni decisive avute da Turing osservando i suoi «bambini» fu che per fare progressi in direzione della vera intelligenza le macchine avrebbero dovuto essere fallibili: era necessario che fossero capaci non solo di sbagliare e di non seguire alla lettera le istruzioni ricevute, ma anche di avere un comportamento casuale e addirittura insensato. Turing riteneva che la casualità avrebbe svolto un ruolo importante nelle macchine intelligenti, perché avrebbe permesso reazioni inedite e imprevedibili, creando un ampio spettro di possibilità fra le quali un programma di ricerca avrebbe potuto individuare l'azione più appropriata a ogni particolare circostanza. Il direttore del laboratorio in cui Turing lavorava all'epoca altri non era che Sir Charles Galton Darwin, nipote di Charles Darwin. Non restò per nulla impressionato dalla relazione di Turing e la liquidò come un «compitino da scolaretto». Io invece la trovo molto affascinante. Perché come si fa a punire una macchina? O a insegnarle a comportarsi bene? Tali questioni, che al nipote di Charles Darwin sembravano palesemente ridicole, stanno diventando pressanti ora che i figli e le figlie della tecnologia concepita da persone come von Neumann e Turing muovono i loro primi, incerti passi.
Prima che venissero creati i calcolatori elettronici lavoravo a mano, risolvendo con carta e penna le complesse equazioni che determinano cosa accade a ogni successiva generazione dei miei simbio-organismi; di conseguenza, non li vedevo camminare, e nemmeno gattonare, ma solo trascinarsi penosamente in avanti, frenati dalla lentezza del mio pensiero e dalla ristretta larghezza di banda della mia mente, dove ogni passo del calcolo doveva farsi strada nel labirinto della mia rete neuronale, attraversando il caotico groviglio delle mie sinapsi, gli interminabili assoni che lanciavano impulsi in una tumultuosa tempesta elettrica, così che lungo il percorso molte cose si ingarbugliavano, venivano deformate da errori o semplicemente andavano perse per mancanza di concentrazione. Il MANIAC ha cambiato tutto in un istante. Ho assistito a mutazioni stupefacenti: il ramificato, intricato meccanismo che soggiace alla rete della vita - nascita e morte, predazione e cooperazione, morfogenesi e simbiosi - si galvanizzava davanti ai miei occhi sospinto da un flusso di elettroni, manifestandosi all'improvviso con un assordante rombo gaussiano all'interno di un minuscolo universo digitale. Erano bellissimi, i miei figli e le mie figlie, qualcosa di ultraterreno, seducente e spettrale, ma per me, che avevo già visto sbocciare quelle forme e strutture in molti dei miei sogni febbrili, erano anche familiari, e meritevoli d'amore quanto qualsivoglia creatura in carne e ossa. In pochissimo tempo mi ero ritrovato a fare progressi tali che dovevo sforzarmi per mantenere una certa obiettività, per non confondere i frutti della mia immaginazione con le reali novità che mi stavano maturando davanti. Ho ripetuto i miei esperimenti innumerevoli volte, per poter escludere il caso e l'errore umano, e a poco a poco ho iniziato a convincermi che stava davvero accadendo qualcosa di miracoloso, per quanto non fossi ancora abbastanza sicuro di me per compiere l'atto di fede definitivo. Ed è stato allora, quando mi trovavo a un passo dalla scoperta, quando la mia terra promessa cominciava a profilarsi all'orizzonte, che von Neumann ha preso a interessarsi al mio progetto. [...] Von Neumann - che tempo fa sembrava una figura così imponente, ma adesso nella memoria dell'umanità sembra essersi ridotto a dimensioni appropriate alla sua anima corrotta - aveva intenzioni simili alle mie? O invece si stava trastullando, come amava fare, con forze che io, da parte mia, ritengo fossero del tutto al di là della sua comprensione e del suo controllo? Sono convinto però che l'uomo che ho conosciuto per un breve periodo e poi odiato per tutta la vita possedesse una sua visione personale, uno scopo in certa misura autentico, perché una volta, quando collaboravamo ancora, gli chiesi come pensasse di mettere insieme le sue idee sulla computazione, le macchine autoreplicanti e gli automi cellulari col suo nuovo interesse per il cervello e i meccanismi del pensiero, e la sua risposta mi ha accompagnato per decenni, e ancora torna a perseguitarmi ogni volta che qualche evento casuale mi riporta alla memoria il suo nome che tanto detesto. «I cavernicoli hanno creato gli dèi» disse. «Non vedo perché noi non dovremmo fare lo stesso».
Nils Aall Barricelli
(I cavernicoli hanno creato gli dèi.)
Mi implorava e supplicava di fare un figlio con lui, e credo che la sterilità del nostro matrimonio, arido da quasi tutti i punti di vista, sia stata uno dei motivi per cui nei suoi ultimi anni si fissò tanto con la biologia. Non era solo perché «qualcosa doveva pur sopravvivere alle bombe», come amava dire quando qualcuno gli chiedeva a cosa sarebbero servite le sue macchine autoreplicanti; io mi accorgevo che in lui si era risvegliato un impulso profondo, che lo spingeva a vedere e prendere in considerazione cose che fino a quel momento aveva quasi completamente ignorato. Il fatto che non abbia avuto il tempo di dare concretezza a quei suoi pensieri è una grande perdita per tutti noi. Oppure no? Con Johnny non si può mai sapere. Dopotutto, quando una divinità si protende a toccare la terra, non si verifica una lieta congiunzione degli opposti, una gioiosa unione fra spirito e materia, ma uno stupro. Un concepimento brutale. Un'invasione improvvisa, una violenza che deve poi essere espiata con un sacrificio. Quando Johnny cominciò a dilettarsi di biologia, io mi preoccupai moltissimo di quel che avrebbe potuto fare. A differenza della matematica e della fisica, quel campo della scienza era ancora immune dalla logica, governato da strane forze del caso e del caos che ancora non siamo in grado di assoggettare e sfruttare. Gli esseri biologici vivono in un portentoso disordine, avvinti in una danza di una complessità così convulsa che forse non riusciremo mai, per quanto tenacemente ci proviamo, a comprenderla del tutto, perché quella stessa armonia modella e anima i nostri corpi e le nostre menti.
Con Leonid Yarmolnik, Dmitri Vladimirov, Laura Pitskhelauri, Aleksandr Ilyin, Yuri Tsurilo
Prima di morire, mio padre perse la volontà o la capacità di parlare. I medici non trovavano alcuna causa fisica di quel suo trincerarsi nel silenzio. Io credo che fosse una sua decisione consapevole. L'orrore di assistere al deteriorarsi delle proprie facoltà mentali era troppo per lui. Quando gli era stata diagnosticata la malattia era poco più che cinquantenne, ancora nel fiore degli anni, e aveva mantenuto la ragione e la sua straordinaria intelligenza fin quasi alla fine. Ma ora non poteva accettare quel che gli stava accadendo. Il terrore per la propria mortalità offuscava ogni altro pensiero. Per quanto ci provasse, non riusciva a immaginare un mondo senza se stesso nell'atto di pensare, motivo per cui non ebbe mai quella grazia che mostrano alcune persone quando finiscono per accettare il proprio destino. Al contrario, si comportava come un bambino, come se la morte fosse qualcosa che succedeva solo agli altri, qualcosa che lui non aveva mai preso in considerazione e a cui di conseguenza era del tutto impreparato. La sua coscienza si ritraeva di fronte a un limite oltre il quale non poteva pensare né gettare lo sguardo, e si dibatteva con violenza. Mio padre soffriva per la perdita della sua mente più di quanto abbia mai visto soffrire, in qualunque altra circostanza, qualunque altro essere umano. Quando già sapevamo che la sua malattia sarebbe stata fatale, e che sarebbe peggiorata in fretta, gli chiesi a bruciapelo come poteva contemplare con assoluta compostezza l'eventualità che si uccidessero centinaia di milioni di persone in un attacco nucleare preventivo contro l'Unione Sovietica, e tuttavia non saper affrontare la propria mortalità con un minimo di calma e di decoro. «Sono due cose completamente diverse» mi rispose.
Marina von Neumann (Quanto fa uno più uno?)
Gli dèi sono una necessità biologica, mi disse in una sera particolarmente calda nella sua casa di Georgetown, durante quell'ultima estate in cui riusciva ancora ad andare in giro con le stampelle, «intrinseca alla nostra specie come il linguaggio o i pollici opponibili». Secondo lui, la fede aveva garantito ai popoli primordiali una fonte di forza, potere e significato che all'uomo moderno mancava completamente; ed era a questa mancanza, a questa perdita profonda, che ora la scienza doveva dedicarsi. «Non abbiamo alcuna stella polare,» mi disse, «nulla a cui guardare o aspirare, perciò stiamo regredendo, ricadendo nell'animalità, perdendo quella cosa che ci ha permesso di trascendere ciò a cui originariamente eravamo destinati». Jancsi pensava che, se intendeva sopravvivere al Novecento, la nostra a specie avrebbe dovuto colmare il vuoto lasciato dalla scomparsa degli dèi, e la sola e unica candidata a riuscire in questa strana trasformazione esoterica era la tecnologia: la nostra conoscenza tecnica in continua espansione era l'unica cosa che ci distinguesse dai nostri progenitori, dato che in fatto di etica, filosofia e pensiero generale non eravamo meglio (anzi, eravamo molto, molto peggio) dei greci, delle popolazioni vediche o delle piccole tribù nomadi che ancora si aggrappavano alla natura quale unica dispensatrice di grazia e vera misura dell'esistenza. In ogni altro campo non avevamo fatto nessun passo avanti. Il nostro sviluppo si era arrestato in tutte le arti tranne una, la téchne, in cui il nostro sapere era diventato così profondo e pericoloso che avrebbe fatto tremare dalla paura i Titani che un tempo terrorizzavano la terra, e sembrare gli antichi signori delle foreste innocui come spiritelli e buffi come folletti. Il loro mondo era passato. Perciò adesso avrebbero dovuto essere la scienza e la tecnologia a fornirci una versione migliore di noi stessi, un'immagine di quel che potevamo diventare. La civiltà era progredita a un punto tale che le vicissitudini della nostra specie non potevano più restare affidate alle nostre stesse mani; avevamo bisogno di qualcosa d'altro, di qualcosa di più. Alla lunga, per avere una seppur minima chance, avremmo dovuto trovare un modo per andare oltre noi stessi, per guardare al di là dei limiti della nostra logica, del nostro linguaggio e del nostro pensiero, per trovare soluzioni ai molti problemi che indubbiamente ci saremmo trovati ad affrontare con l'estendersi del nostro dominio sull'intero pianeta, e poi, ben presto, molto oltre, fino alle stelle.
Come recita uno dei tanti stringati proverbi che i giocatori di go di Cina, Giappone e Corea conoscono a memoria, "Cose strane accadono nei punti 1-2".
La mossa 37 di AlphaGo, durante la seconda partita.
La mossa 78 di Lee Sedol, durante la quarta partita.
Una probabilità su 10.000 che un essere umano o qualsiasi altra entità (semi/para-senziente) possano compiere scientemente ognuna di quelle due date inconcepibili mosse.
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