A prescindere dall'anno di distribuzione, i venti (in verità 15: periodo di magra, quest'estivo, anche se con due nani moretti e due Florence Pugh io sarei pure a posto, eh) titoli (di film, serie e tutto quello che sta in mezzo e oltre i due estremi) migliori cui ho assistito e/o dei quali ho scritto su FilmTV.it nel periodo luglio-settembre 2023; più qualche libro, disco, eccetera.
E un anniversario da festeggiare: i 100 anni di Star Wars!
• Film & Serie.
- il Sol dell'Avvenire (Nanni Moretti, 2023, ITA) - Oppenheimer (Christopher Nolan, 2023, USA-GBR) - Mädchen in Uniform (Léontine Sagan, 1931, GER) - Nuestro Tiempo (Carlos Reygadas, 2018, MEX) - Tre Piani (Nanni Moretti, 2021, ITA)
- Lady Macbeth (William Oldroyd, 2016, GBR) - LOLA (Andrew Legge, 2022, IRL-GBR) - Crimes of the Future (David Cronenberg, 1970, CAN) - After Midnight (Jeremy Gardner & Christian Stella, 2019, USA) - Corner Office (Joachim Back, 2022, USA)
In puro e semplice "ordine casuale", tra cover, live, concept album antologici, anniversariche ristampe rimasterizzate e ripescaggi dagli archivi: Cat Power - "Sings Dylan"; AA.VV. (Cesare Basile, Ardecore, Vinicio Capossela, Yo Yo Mundi, Massimo Zamboni, Mariposa, Paolo Benvegnù, Marlene Kuntz, Pierpaolo Capovilla, Petra Magoni, etc.) - "Nella Notte Ci Guidano le Stelle - Canti per la Resistenza"; Neil Young - "Chrome Dreams (1974-1977)"; Tom Waits - "SwordFishTrombones" (1983); Lucio Battisti - "il Nostro Caro Angelo" (1973; LP, vinile blu da 180 g).
"Io non combatto per la mia patria, combatto per mia madre, per rivedere il suo viso." -- Angelo Del Boca (Novara, 23 maggio 1925 - Torino, 6 luglio 2021), "Nella notte ci guidano le stelle - La mia storia partigiana", Mondadori, Milano, 2015.
Le premesse c’erano tutte, sin dai primi momenti dal set del film nel film – nel quale ad un certo punto accadrà che “L’acqua Rosa [Luxemburg, inventata per l’occasione; NdA] è in posizione!”, i titoli dell’Unità vengono redatti perché troppo lunghi e discorsivi (chissà, magari il Manifesto è nato anche proprio per quello!) e “Togliatti”, affranto e sconsolato, sullo sfondo, scuote la capoccia, e quasi pare che possa mettersi a ridere con gli occhi al circo Budavari se solo l’acrobata sbagliasse il salto – quando Baffone, a dire il vero già sin dal trailer, viene onomatopeicamente strappato via dallo stare accanto all’autore di “Che Fare?” e di “Stato e Rivoluzione” con un postumamente vendicativo fotoritocco epurativo al contrario: qui si rifà la Storia, e/o (non) si muore, ed ecco che allora, ebbene sì, tarantinescamente, viene messo in scena un “What if…?” da capogiro: “il Zol dell’A-Venire”.
“Ne voglio quattro, mamma.”
Del tutto dicotomico rispetto al precedente "Tre Piani", è un film senz’alcuna difesa, “il Sol dell’Avvenire”, e (pure/non per questo) inattaccabile, nel quale – tra la Grande Fuga di M49, aka Papillon, prima degli eventi che coinvolgeranno la sua corregionale trentin-altoatesina JJ4 e l’abruzzese Amarena, e un Gianni Morandi che continua a cacciarsi nei guai, complici i cinghiali – la trasformazione di Nanni Moretti (che nel ‘56 della Rivoluzione Ungherese aveva 3 anni) in Riccardo Rossi è completata, mentre intorno a lui gravitano, orchestrati da Michele D'Attanasio alla fotografia, Clelio Benevento al montaggio e Franco Piersanti (più Franco Battiato, Fabrizio De André, Luigi Tenco, Aretha Franklin, Joe Dassin) alle musiche, in orbite stabili e decise Margherita Buy, Silvio Orlando, Barbora Bobulova, Zsolt Anger, Mathieu Amalric, Jerzy Stuhr, Teco Celio (lo psicanalista più improbabile dai tempi del dottor Marvin Monroe), Arianna Pozzoli, Giuseppe Scoditti, Elena Lietti e Francesco Brandi, più l’alleniana comparsata di un Marshall McLuhan alla bisogna tripartito (Renzo Piano, Chiara Valerio e Corrado Augias, con la partecipazione fuori campo della segreteria telefonica di Martin Scorsese), la pedagogica lezione accorata sul "Dekalog, Piec (Krótki Film o Zabijaniu)" di Kieslowski & Piesiewicz e la parata finale con gli amici “del Cinema”, da Silvia Nono a Jasmine Trinca, passando per Giulia Lazzarini, Anna Bonaiuto, Lina Sastri, Alba Rohrwacher, Renato Carpentieri, Elio De Capitani, Dario Cantarelli, Gigio Morra, Fabio Traversa, eccetera eccetera, mentre risultano mancanti all’appello (dello spettatore) Morante e Mughini, la prima compensata dalla Lola/Cécile di Aimée/Demy e dalla Paola di Ciangottini/Fellini e il secondo dalla retata dei finanzieri.
"Rata-tatàn! Rata-tatàn!", oppure "Dodes'ka-den! Dodes'ka-den!", fanno le bielle motrici e quelle d'accoppiamento... (Dalle mandrie votate a veicolare il massacro che al galoppo hanno spinto più in là la Frontiera al Cavallo Vapore che ha eretto ed unito di crocevia in crocevia l'America: "Manca solo il saloon.")
Christopher Nolan, là dove “Interstellar” ebbe inizio [e il Grande Rimosso - almeno parzialmente, per interposte V2, ed oltre a, per altri versi, John von Neumann, Subrahmanyan Chandrasekhar e Freeman Dyson - di questo “Oppenheimer” (parimenti a quella specie/sorta d’interpretabile - un po' forzatamente - come un’onirica comparsata, con "un anticipo tremendo", dell'Enola Gay trasvolante... sulla Manica) è Wernher von Braun], coi pappi dei pioppi (fotografia in 70mm di Hoyte van Hoytema) che danzano nell’aria nei pressi della direttrice che da Los Alamos porta, passando per Berkeley, Princeton, Chicago e Manhattan (Project), ad AlamoGordo (iper-nonluogo in cui le sabbie desertiche di silicio e feldspato vetrificandosi al calor bianco divennero trinitite) vibrando (montaggio di Jennifer Lame) sul ritmo, l’agogica, la melodia, l’armonia, la dinamica e il timbro di Ludwig Göransson, fa, (quasi) tutto da sé (il supervisore agli effetti speciali Scott R. Fisher sta al 12° film del regista in 25 anni di carriera come Douglas Trumbull sta a "2001: a Space Odyssey" e "the Tree of Life"), quel che può, ovvero: un paradossalmente (in quanto la realtà è costituita per lo più da vuoto) solido, anche se non sperticatamente insolito, film IMAX-eastwoodiano nella realizzazione (fin dal nucleo oltre che lungo le orbite del guscio esterno), pieno zeppo di metaforoni, pur’anche sostenuti da un’architettura "random"-mnemonico-jazzistica...
- scindere l’atomo e frantumare bicchieri; Oppie a colori, Strauss (che in pratica qui ricopre il ruolo che in futuro avranno alcuni carabinieri dei NAS, alcuni magistrati della Procura di Roma e alcuni giornalisti de l'Espresso nei confronti di Ilaria Capua: invece che virus in questo caso si esportano isotopi, e così come i primi non serviranno a creare epidemie i secondi non servono, non servivano e non saranno serviti a costruire armamenti nucleari, ma bensì, "addirittura", a sviluppare la ricerca per la medicina nucleare in campo diagnostico e terapeutico) in bianco e nero (in un paio di occasioni le posizioni lungo l’asse della Storia s’incrociano invertendosi: la bellezza della punteggiatura e della sintassi cinematografica) e Truman (che, congedandolo porgendogli un fazzoletto per il sangue sulle mani e le lacrime dagli occhi, pronuncia la “o” di Oppenheimer - il genio, il coordinatore, il guru-sfinge, il vitellone, la divinità vedica, il piagnone, il non-Nobel, l'organizzatore, il dongiovanni - nel modo sbagliato, allungandola in accentuazione) altamente desaturato; il celeberrimo passo della Bhagavad-Gita declamato durante un orgasmo; alcune delle conversazioni avvenute realmente riportate con dialoghi accurati e veritieri (non ultima l’aviotraversata verso la libertà e la salvezza di Bohr, più il particolare - del tutto inventato con un mash-up sincretico - del morso schrödingeriano che ha rischiato di dare alla mela spalmata/inoculata con cianuro di potassio e destinata a Blackett); il Signature Martini; eccetera eccetera -
...che ne stempera la stolida ingombranza, e soprattutto, dimentico del giocattolone “Tenet”, sceneggia e dirige, basandosi in larga parte sulla biografia “American Prometheus: the Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer”, scritta da Kai Bird e Martin J. Sherwin e pubblicata nel 2005 (e che a sua volta possiede una fitta bibliografia di una ventina di pagine e un apparato di note che si sviluppa per una novantina), una storia, strutturalmente tripartita come “Dunkirk”, ma ramificata lungo un arco temporale ben più vasto (da metà anni ‘20 a metà anni ‘60), che trova shyamalanicamente la sua (dis)soluzione con l’ultima parola/inquadratura oppenheimer-einsteiniana, "proprio" così come, a loro volta e contestualizzando il tutto, facevano, convergendo verso il loro momentum/punctum/quantum, “Memento”, “the Prestige” e “Inception” (anche se forse, lasciando perdere la bolsa trilogia batmaniana, il film della carriera dell’autore di “Following” che - incongruentemente, in superficie e per assurdo - più assomiglia a questo è - il “non” suo - “Insomnia”).
- - - - - - - - - - I N I Z I O I N T E R M E Z Z O - - - - - - - - - -
“Siamo arrivati troppo tardi”, disse Emilo Segré. Quella minchietta di Hitler s’è sparato in testa, Berlino e Dresda sono rase al suolo. Poi, per inerzia fatale lungo il falsopiano della Storia, ecco 334 B-29 in volo su Tokyo (100.000 persone vaporizzate in tempeste di fuoco) versus 6 chilogrammi e rotti di plutonio-239 ad arrostire i mostri di Gila (Heloderma suspectum) del New Mexico. Gotta light? L’aggeggio, l’arnese, l’affare: esplode.
La Sacra Trinità di protone, neutrone ed elettrone al meglio delle loro capacità. Il Grande Scoppio arriva al punto di osservazione, posto a 30 chilometri dall’epicentro della deflagrazione, Ground Zero, sull'alta torre di estrazione che non scava petrolio ("There Will Be Blood"), ma Squarcia la Realtà, circa 1 minuto dopo il Grande Lampo. La notte si trasforma in giorno e l’Essere Umano è diventato Morte, Distruttore di Mondi, mentre già risuona nell’aria la pendereckiana trenodia - il canto/lamento funebre - per le vittime che verranno. Un anno e mezzo prima, Jean Tatlock, impegnata nel “togliere il fardello di un'anima paralizzata da un mondo in lotta”, dirà - "come" Ettore Majorana (e/o Paul Ehrenfest), presago teorico-quantistico di quel che verrà - addio al futuro: “Sono disgustata da tutto…”. Lo spazio-tempo collassa: la Storia non è finita, ma precipita costantemente con un abbrivio e un’inerzia fatali. La reazione a catena si rivela essere psicologica, politica, sociale: incontrollabile, non come quelle atomiche a fissione (uranio, plutonio) e termonucleari a fissione-fusione (idrogeno), sino a che il Poseidon (Status-6) equipaggiato con una sporca bomba gamma (cobalto-60) non si mette a scodinzolare impaziente come una remora attaccata al fianco del Belgorod, al placido culmine di uno dei CrossRoads (le Isole Vergini - i nomi che diedero loro gli Arawak e i Kalinago con loro si sono estinti - del buen retiro non sono le Aorokin Majel di Bikini) della Storia. Ma intanto, nel frattempo di un orizzonte degli eventi ideale, sotto agli alami populus, Tyke, che da adulta si chiamerà Toni, sta gattonando. E qualcuno intona, in quel medesimo continuum spazio-temporale, o in un altro quando-e-dove, sovrapponendosi al flusso delle vite che scorrono: “...some sunny day!”
- - - - - - - - - - - F I N E I N T E R M E Z Z O - - - - - - - - - - -
La Seconda Guerra Mondiale è finita: entra in scena la Guerra Fredda (quella che porterà alla proverbiale Quarta Guerra Mondiale combattuta con pietre e bastoni, cormacmcarthyano isotopo 60 del cobalto permettendo). FDR viene “sostituito” da Truman ("Ho sentito che sta lasciando Los Alamos. Che cosa ne dovremmo fare?" - "Restituirlo agli indiani.") ed Eisenhower, ma incredibilmente la Genbaku Bungaku avrà sino ad oggi una bibliografia relegata al solo Giappone, e quel pericoloso pagliaccio di Joseph McCarthy viene ostracizzato e consegna il testimone al Metodo Hoover di Boris Pash: ma ecco che David L. Hill ripaga Strauss, fuor di processo, con la sua stessa moneta. E ciò che a tal proposito crea più stizza è che Strauss può anche essere tutto sommato impilato nella categoria "banalità del male", ma - sfogliatane la biografia - non certo in quella della "pura malvagità": Nolan inventa quel "sussurrarsi addosso" da malabolgia dantesca fra Oppenheimer ed Einstein in riva al lago a Princeton, così miserabilmente malinterpretato da Strauss (a causa della sua debolezza di carattere, soprattutto), mentre di vero c'è (e magari narrativamente ciò sarebbe pure bastato, ma forse "non" dal PdV cinematografico) che Oppenheimer lo derise pubblicamente di sponda e fioretto, da collega a collega commissario della Commissione per l'Energia Atomica, durante un'udienza del 1949 davanti al Congresso (“My own rating of the importance of isotopes is that they are far less important than electronic devices, but far more important than, let us say, vitamins.”), e proprio la melmosa onda lunga del maccartismo - con McCarthy al tempo già proscritto dai più - consentì a Strauss di mettere in piedi quella ottusamente "furbesca" baracconata.
Interpretazioni maiuscole - talune buone e talaltre ottime, e fra di esse una manciata meritevoli di un Oscar (nel senso vagamente buono del termine) o per lo meno di una pacca sulla spalla - di Cillian Murphy (J. Robert Oppenheimer), Robert Downey Jr. (Lewis Strauss), Matt Damon (Leslie Groves), Emily Blunt (Katherine "Kitty" Puening in Oppenheimer), Florence Pugh (Jean Tatlock), David Krumholtz (Isidor Isaac Rabi), Tom Conti (Albert Einstein), Benny Safdie (Edward Teller), Casey Affleck (Boris Pash), Rami Malek (David L. Hill), Gary Oldman (Harry S. Truman), Kenneth Branagh (Niels Bohr), Josh Hatnett (Ernest Lawrence), Macon Blair (Lloyd K. Garrison), Dane DeHaan (Kenneth Nichols), Tony Goldwin (Gordon Gray), Christopher Denham (Klaus Fuchs), Guy Burnet (George Eltenton), Jefferson Hall (Haakon chevalier), James D'Arcy (Patrick Blackett: "I bombardamenti atomici non sono stati l'ultimo atto della Seconda Guerra Mondiale, ma il primo atto della Guerra Fredda con la Russia."), Jason Clarke (Roger Robb), James Remar (Henry L. Stimson: "Il bombardamento di Tokyo ha ucciso centomila persone, soprattutto civili. Mi preoccupa un'America in cui facciamo queste cose e nessuno protesta."), Scott Grimes (consulente di Strauss), David Dastmalchian (William L. Borden) e Matthew Modine (Vannevar Bush).
E poi Enrico Fermi (Danny Deferrari) - "Qualcuno vuole scommettere sul possibile incendio dell'atmosfera?" (il film s'intitola "Oppenheimer" non "i Ragazzi di Via Panisperna") -, Werner Heisenberg (Matthias Schweighöfer), Richard Feynman (Jack Quaid) - col parabrezza del pick-up al posto degli occhiali con vetro affumicato da saldatore, ma quasi senzabonghi -, Luis Alvarez (Alex Wolff), Leo Szilárd (Máté Haumann) - non è presente nel film, essendo un'osservazione fatta in un'intervista del 1960, ma questa citazione ne racchiude il senso su scala umana, apocalisse planetaria (guerre termonucleari, epidemie virali, intelligenze artificiali, surriscaldamento globale, brillamenti solari ipermassivi e un misto di questa pentalogia di fattori naturali ed antropici) a parte: "Let me say only this much to the moral issue involved: Suppose Germany had developed two bombs before we had any bombs. And suppose Germany had dropped one bomb, say, on Rochester and the other on Buffalo, and then having run out of bombs she would have lost the war. Can anyone doubt that we would then have defined the dropping of atomic bombs on cities as a war crime, and that we would have sentenced the Germans who were guilty of this crime to death at Nuremberg and hanged them?" -, George Kistiakowsky (Trond Fausa), Hans Bethe (Gustaf Skarsgård), Kurt Gödel (James Urbaniak) - che sarebbe ("dopo" Nikola Tesla e come Alan Turing e Ludwig Wittgenstein) un ottimo ipotetico prossimo progetto nolaniano -, Lyndon B. Johnson (Hap Lawrence), e, fuori campo, Hiroito (che, da nascente a calante, visse quasi più di tutti: tra i personaggi protagonisti, i co-protag. e i ruoli/caratteri secondari del film l'unico oggi in vita è Peter, il figlio maggiore di Oppenheimer), JFK, Hiroshima e Nagasaki.
Avete fatto voi questo orrore, Dottore?
Recensione (completa del picassiano olio su tela 81x60 del 1931: "Femme Assise aux Bras Croisés").
Nota. Questa la traduzione della frase (che ho citata nel testo, ma che non è presente nel film d Nolan) pronunciata da Leó Szilárd nel 1960 in un'intervista a U.S. News and World Report: "Lasciami dire solo questo sulla questione morale coinvolta: Supponiamo che la Germania avesse costruito per prima due bombe e noi neanche una. E supponiamo che la Germania ne avesse sganciate una, diciamo, su Rochester e l'altra su Buffalo, ma poi avendo finito le bombe avesse perso la guerra. Qualcuno potrebbe mettere in dubbio che noi allora avremmo definito crimine di guerra sganciare bombe atomiche sulle città, e che a Norimberga avremmo condannato a morte i tedeschi colpevoli di tale crimine, impiccandoli?"
Uniformi a righe, pavimenti a scacchi, calze a rete.
Il moto rettilineo uniformemente accelerato dalla forza di gravità planetaria, e dalla Storia: il percorso che portò dalla Repubblica di Weimar (parziale “oasi” di libertà artistica e sessuale mentre la politica del pòppolo “tutt’intorno” collassava implodendo su sé stessa fino a raggiungere la massa critica ed esplodere nel Terzo Reich) alla Messa in Riga (GleichSchaltung).
Esercizio. Calcola l’altezza da cui è caduto il grave (corpo) conoscendo la costante di accelerazione e il tempo impiegato: ‘na ventina di metri e poco meno, ovvero: h = ½ * g * t², là dove “g” è l’accelerazione naturale di gravità che sulla Terra è di 9,8 m/s² e “t” sono gli spannometrici (ed aggiustati) 2 secondi contati (male) dalle ragazze tra il momento del rilascio in caduta libera del petardo e quello del suo scoppio una volta impattato col suolo a fine corsa.
Ma questo è Cinema, e il corpo scompare. (Poi Goebbels, una dozzina d’anni dopo, per rendere defunti sé stesso e famiglia sprecò cianuro e proiettili inaugurando il maggio del 1945: una corda, ad esempio, poteva essere riciclata e riutilizzata migliaia di volte.)
Il film termina così, con un’impasse, senza sfracellamenti (e “Peccato!”, gridano i più...). Ci penseranno le due elezioni parlamentari del 1932 e le due del 1933 a smuovere un po’ le cose, con l’ultima a fissarle per “sempre” (sempre quella stessa dozzina d’anni, finiti - Sturm und Drang - in macerie).
E da questa prospettiva potrebbe essere inteso come un bacio della buonanotte (quello che la signorina von Bernburg invece che sulla fronte dà sulla bocca a Manuela), “premonitore” e d’addio, alla Germania (trucidante e smembrata) che verrà.
“Mädchen in Uniform” (1931), opera d’esordio dietro alla MdP (davanti ad essa aveva recitato in 3 titoli alpini del “cinema di montagna” di Arnold Frank con Leni Riefenstahl) dell’austro-ungarica attrice e direttrice teatrale tedesca di origini ebree Leontine Sagan (1889-1974), qui supervisionata produttivamente dal pioniere del cinema muto Carl Froelich (1975-1953) – cui seguiranno altri due lungometraggi co-firmati da esule (abbandonò la Germania immediatamente dopo il difficile percorso che ebbe il qui trattato suo debutto da regista) acclimatata nel Regno Unito (“Men of Tomorrow” del 1932 con Zoltan Korda e “Gaiety George” con George King), stato insulare di quattro nazioni in una delle quali, l’Inghilterra, proseguì e consolidò la sua carriera producendo spettacoli sugli assiti dei palcoscenici di Manchester e del West End londinese, per poi alla fine trasferirsi definitivamente in Sud Africa, dove aveva vissuto da bambina, concludendo là la sua attività artistica co-fondando il Teatro Nazionale di Joannesburg –, scritto con F. D. Andam (1901-1969, nato Friedrich Dammann) da Christa Winsloe (1888-1944), autrice della pièce alla base della sceneggiatura, “Gestern und Heute” (“Ieri e Oggi”), allestita a Berlino con Gina Falckenberg nel ruolo della protagonista Manuela e, in una prima versione, “Ritter Nérestan” (“il Cavaliere Nérestan”), a Lipsia con la stessa Hertha Thiele, che poi la incarnerà anche su pellicola con pista sonora (nata solo tre anni prima, e qui utilizzata benissimo), è, “paradossalmente”, un lavoro pienamente figlio del proprio tempo, che contempla, trascrive e deflagra lo zeitgeist: basti ricordare “Cabaret” di Bob Fosse (da Christopher Isherwood).
Più o meno bipartito in un senso, quello spaziale [c’è un esterno, che rimane costantemente e permanentemente fuori campo, in un’extradiegesi ipermalinconica (compaiono solo alcuni fotogrammi statuo-colonnari appena “fuori le mura” volutamente non del tutto contestualizzati nel paesaggio, nel brevissimo “prologo” senza logos, che contiene anche un fulmineo/fulminante campo-controcampo ultra metaforico tra i soldati e le educande), e un interno, abitato dalle studentesse, dalle docenti (insegnanti/istitutrici e preside/direttrice), dall’apparato domestico (i reparti cucina, sartoria, lavanderia e infermeria) e dai visitatori (i parenti in visita delle collegiali appartenenti alla più o meno medio-altolocata borghesia e le mecenati altezze reali in ispezione di cortesia), e sviluppato architettonicamente (e narrativamente) su più piani, scale, aule, stanze, dormitori, ballatoi], e tripartito in un altro, quello temporale (l’arrivo di Manuela al collegio; la rappresentazione teatrale del “Don Karlos, Infant von Spanien” - a proposito d’acerbi Tempesta e Impeto - di Friedrich Schiller; la segregazione di Manuela), “Mädchen in Uniform”, da un certo qual PdV “anticipa” di due anni l’anarchismo rivoluzionario dello “Zéro de Conduite” di Jean Vigo, ed è una delle prime volte in cui si verga coi sali d’argento una libertaria istanza LGBTQ+, nel caso specifico d’omo(poli)sessualità lesbica (recentemente, per entrambi gli aspetti, si potrebbe citare, tra i tanti “successori”, il bel “the Falling” di Carol Morley).
Fotografia (un bianco e nero contrastato m’al contempo naturalistico) di Reimar Kuntze (1900-1949) e Franz Weihmayr (1903-1969) nel non del tutto inusuale per l’epoca formato 1.20:1 (6:5), un aspect ratio utilizzato ad esempio dal MovieTone (registrazione ottica di un audio) brevettato da Theodore Case e poi acquistato da William Fox, montaggio del comunista Oswald Hafenrichter (1899-1973), qui alle prime esperienze (finirà poi anche lui alla London Film di Korda, e si occuperà tra gli altri del taglia e cuci di “the Third Man” di Reed/Greene/Welles/Selznick), ma già iperconsapevole, e musiche di Hanson Milde-Meissner (1899-1983).
Ottimo cast che comprende, oltre alla ventitreenne Hertha Thiele (1908-1984), che, come detto, interpreta la quattordicenne Manuela von Meinhardis, e la sua coetanea Dorothe Wieck (1908-1986), che impersona l’educatrice von Bernburg, vi sono Emilia Unda (1879-1939), la prussiana comandante in capo del conservatorio di giovinette, Hedy Krilla (1899-1984), la baciapile, ed Ellen Schwanneke (1906-1972), Ilse, una delle compagne di Manuela, che getta il crocifisso a terra e se ne va (mentre un’altra inspirando farà saltare i bottoni della divisa e un’altr’ancora s’alzerà sulle punte dei piedi per suonare la campanella d’allarme).
“Le piccole tedesche di Mädchen in Uniform non hanno ancora su loro stesse e nelle loro espressioni che un accenno di femminilità. Sono veramente delle bambine, delle bambine sincere […] Da parte mia, ritengo la realizzazione di Mädchen in Uniform un perfetto capolavoro di tatto e di misura.” – Colette, da “Colette Nous Parle de Jeunes Filles en Uniforme” (“Pour Vous”, 5 maggio 1932), traduzione italaiana tratta da “la Vagabonda dello Schermo - Colette e il Cinema” di Paola Palma (Esedra, Padova, 2015).
Nota. Dopo aver assistito al film ho praticato lo sport da poltrona del cercare le date di morte del cast artistico e tecnico principale ed ogni volta, e sono la maggioranza, che queste non cadevano nel periodo compreso tra il 1939 e il 1945 ho tirato (per carità, qualcuno sarà pure stato un nazista fatto e finito, eh) un respiro di sollievo. Vi sono però una marea di eccezioni – a parte Emilia Unda, deceduta a 60 anni nel 1939 a Berlino, ma per cause naturali, dato che nel 1935 ebbe due ictus (fonte: “Hugo Häring - the Organic Versus the Geometric” di Peter Blundell Jones, una biografia sul marito architetto) – riguardanti membri del cast e delle troupe artistiche e tecniche secondari, a partire dall’assistente alla regìa Walter Supper (1887-1943), suicida con la moglie ebrea dalla quale non aveva divorziato (stavano per essere arrestati entrambi), ma soprattutto è la storia di Christa Winsloe, uccisa per errore, superficialità e grettezza con la compagna Simone Gentet da dei partigiani francesi nell’estate del 1944 in Borgogna mentre le due, abbandonata la Costa Azzurra per un ordine di evacuazione immediata, stavano cercando di raggiungere la sorella della drammaturga in Ungheria, a colpire.
I. “Il triangolo no”, ovvero: “Milioni di anni di evoluzione, vero? Vero?” (EWS).
“È stato quando ho posato per la prima volta gli occhi su di te che ho iniziato a pensare a me stessa.”
Nel 2018 una versione alternativa del borghese nucleo famigliare (pallidamente patriarcale) di “Post Tenebras Lux” è sopravvissuto a sé stesso [lo si scopre dopo il folgorante – nonostante sia formalmente e stilisticamente identico a quello del film precedente, e pure al contempo quanto di più distante da esso dal PdV del contenuto e della sostanza – incipit (un’evoluzione assestantesi rispetto a quello di PTL: pro-logos) en plein air di puro cinema...
...al lavoro attraverso una camera a mano ammortizzata ed attrezzata con grandangoli estremi ch’esplorando i volti in relazione tra loro dispongono a piacimento (de)i relativi corpi kechiche-dumontiani (prima bambini e poi ragazzi, e che nel finale verranno sostituiti dalla bestiale animalità ferina “priva” di linguaggio dei Bos taurus) muovendoli in primo piano lungo sublimi traiettorie libere d’ogni tracciato come fossero la controparte antropomorfa dei rinverditi e selvaggi coni vulcanici punteggianti l’ecotonale territorio sino all’orizzonte del paesaggio incorniciato da vignettature oltre che d’arcobalenici lens flare lubezki-malickiani] avviando un allevamento di tori da corrida (quattro anni dopo alcuni stati messicani, compreso il distretto della capitale, sospenderanno gli spettacoli di tauromachia).
II. “Amore Mio Aiutami”, ovvero: “Dramma della Gelosia (Tutti i Particolari in Cronaca)”.
“All’inizio ho sofferto in silenzio per molti anni. Ora tu non sei in grado di sostenere il mio percorso.”
La coppia di sposi (nella finzione e nella realtà) formata dal protagonista (interpretato dallo stesso regista, sceneggiatore, montatore e produttore Carlos Reygadas, qui per la prima volta davanti alla MdP) Juan (medesimo nome di quelli di PTL e di “Stellet Licht”) e dalla deuteragonista [interpretata da Natalia López, montatrice di professione (oltre a SL/LS e PTL anche “Jauja”), oltre che regista di “Robe of Gems”, ed anch’ella al suo esordio assoluto da attrice, mentre in PTL la co-protagonista era un’altra Natalia, impersonata da Nathalia Acevedo] Ester (quas’identico nome del personaggio principale di “Luz Silenciosa”), nuestro tiempo (Sordi-Sonego-Pinelli & ScolaAge-Scarpelli con 50 anni di “ritardo”) docet, è – su richiesta post-colpa di lui – aperta (lei gli restituisce - sembra a manetta - il “favore” dell’antico tradimento, che ogni tanto pure lui perpetua, ma con meno convinzione), sino a quando questa sorta di vessata utopia privata si sfalda perché lei gli tace l’ultima scappatella con un gringo (Phil Burgers) come sempre concordata e favorita da lui, scatenando domande prima represse con malcelata noncuranza e poi fatte deflagrare alimentando rovelli bonelleschi: il ridicolo involontario viene stemperato dall’estatica liricità piena di grazia e brutalità, tanto (in/dis)umana quanto zoocentrica.
“Nella migliore delle ipotesi, ha bisogno di affermare sé stessa; in un caso intermedio, vuole vendicarsi di me; nella peggiore delle ipotesi, ti desidera così tanto che ti ama davvero.”
La dormiente e in potenza violenza domestica (principalmente del maschio contro la femmina, piuttosto che del ranchero datore di lavoro verso i suoi stipendiati cowboy e colf/babysitter, entrambe comunque strutturali e rappresentate come ed in quanto tali) è sempre in sottofondo e dietro l’angolo, m’a scorrere saranno, più androidi che ginoidi, solo le lacrime [oltre che le viscere squartate di un asinello da tiro incornato e sventrato, per colpa di alcuni operai inesperti e/o ubriachi, da un toro - la scritta “ningún animal fue lastimado en la realización de esta película” è chiara, ma la scena in questione, sostanzialmente bipartita, con un equino prima in piedi e vivo (ed apparentemente protetto come un caballo de picar) e poi un altro (?), intabardato allo stesso modo, riverso al suolo e incornato, ma già chiaramente morto, è fatta realisticamente benissimo -, mentre nell’epilogo (per forza di cose e di natura muto, e quind’in parte dicotomico contraltare al prologo) un altro toro, anch’esso incornato e poi rotolante giù da una scarpata, è palesemente già cadavere in partenza e probabilmente spinto giù da un carrello elevatore imboscato dalla distanza elevata e dalla prospettiva angolata, anche se subito dopo in cima al crinale, gettando un indifferente sguardo verso il basso da lontano, compare al posto del muletto il vero maschio alfa avversario che l’ha sconfitto].
IV. «“La borghesia, il proletariato, la lotta di classe!”, cazzo!»
Il Reygadas scrittore, attore e regista ce la mette proprio tutta per far apparire il suo alter ego come un cretino fatto e finito, un idiota da competizione e un coglione da esposizione (immaginatevi una via di mezzo tra Mattia Santori e Lodo Guenzi o Diego Fusaro e Francesco Giubilei o Giovanni Donzelli e Galeazzo Bignami - ho dato in pasto a ChatGPT di OpenAI le suddette caratteristiche e i nomi che m’ha cavato fuori questi sono - che si ritira in campagna per avviare un allevamento di alpaca e struzzi) e gli va dato atto che - setacciando il tutto dall’autoindulgenza - ci riesce benissimo, e anche proprio per questo la lotta di classe in “Nuestro Tiempo” è rappresentata in tutto il suo latente livore né più né meno che in “Batalla en el Cielo” e in “Post Tenebras Lux”.
V. Di tutte queste albe e tramonti e di tutta questa musica nell’aria.
Ho una chiave quindi apro la porta ed entro. È buio ed entro. È più buio ed entro. (Mark Strand)
Fotocinematografia di Diego García (“Too Old to Die Young”, “Causeway”) e Adrian Durazo (“Robe of Gems”), già collaboratori - il primo come direttore della fotografia e il secondo come operatore alla macchina e direttore della seconda unità - sul set di “Wildlife”, che coadiuva alla perfezione tutte le istanze manieristico-sperimentali d’autore: molto interessanti le sequenze - non innovative, ma significative - sull’adeguarsi dei bastoncelli all’assenza di una fonte percepibile di luce, sugli scorci “impossibili” dei camera-car “alternativi” con le go-pro posizionate tra il cofano e il motore e tra le sospensioni e il sottoscocca (mentre dal lettore CD dell’automobile diegeticamente scorre “the Carpet Crawlers” dei Genesis) o il 2.39:1 montato s’un dronelicottero d’alta quota che si rivelerà essere, mentre s’aprono i portelloni della fusoliera, il carrello di un Boeing in manovra d’atterraggio vespertin-serotino all’Aeropuerto Internacional de la Ciudad de México sfociante – dopo aver sorvolato lungo la propria rotta Riserve della Biosfera e Parchi Nazionali (Iztaccíhuatl-Popocatépetl, el Tepotzteco e le Cumbres del Ajusco e della Sierra Nevada) e, ben distinguibili, lo Stadio del la Ciudad de los Deportes (football e rugby, discipline sportive che in minimale parte qui e in parte maggiore in PTL hanno una loro importanza) quanto quello della Plaza de toros México in cui si svolgono le corride – sul ritrovato murales dipinto da Diego Rivera (consorte di Frida Kahlo e autore del celeberrimo "Epopeya del Pueblo Mexicano") al Cárcamo de Chapultepec rimasto sott’acqua, con tanto di axolotl, per quarant’anni, e sulla “persistenza” della narrazione veicolata (oltre che da lettere, chat, tele/videofonate, con un approccio e una consapevolezza multi-metamediale pari solo a “TÁR”), da lunghi piani sequenza a macchina da presa semi-fissa con lentissimi carrellli/zoom in avanti mentre un mash-up di dispositivi d’inventiva incongruità tra i quali il voice over di un narratore paradossalmente onnisciente (Rut Reygadas, la vera figlia di Carlos Reygadas e Natalia López, e già indimenticabile protagonista del potentissimo prologo archetipico/mitopoietico di “Post Tenebras Lux”, che qui con il fratello Eleazar e il più grande Yago Martínez interpreta la discendenza della coppia nell’auto-finzione cinematografica) e al contempo inattendibile/inaffidabile (è una bambina che legge un copione adulto-poetico il cui significato non può comprendere).
L'unica scena che a pelle ho trovato un po' "gratuita" perché "sciatta", nella quale la casual-semplicità non riesce a soverchiare il "catchy" dando al tutto un senso di faciloneria, è quella con la ripresa del cristallo di quarzo piazzato in p.p. di fronte al capezzale del conoscente/amico moribondo: ma in fondo è solo per descrivere l'ambiente, come col buddha sopr’al comodino o coi grilli nel terrario in vaso di vetro.
Altresì, come "sempre" in lavori come questi, risulta inevitabile che vi siano alcuni più o meno lunghi momenti nei quali la sindrome da "i Mostri - Scenda l'Oblio" (Risi, Age, Scarpelli, Petri, Scola, Maccari) salti fuori (tipo "Hm, quel pavimento in cotto è bello, ma non lo metterei mai in cucina, anche se è una casa di campagna!") per prendere temporaneamente il sopravvento.
Poi, qualunque opera che contenga, utilizzi, rispetti e valorizzi “Islands” dei King Crimson con la cornetta di Mark Charig non può ch’essere un capolavoro.
Ed eseguita per l'occasione dal vivo sul set durante le riprese, c’è pure “Halloween” di Jesús Balthazar Hernández Ramos in arte El Muertho de Tijuana, la versione degli Estados Unidos Mexicanos di Daniel Johnston.
VI. “Aho Mitakuye Oyasin” (“Siamo Tutti Connessi”, aka “Tutto il Mondo è Paese”), ritornello (epiclesi laica) di molte preghiere e canti Lakota Sioux.
Ma qui: che Messico! E che nuvole! Sembra di stare sugli olmi-piavol-tarkovskyani prati di Santa Valeria a Caglio nella porzione brianzola del Triangolo Lariano (Giovanni Segantini - "Alla Stanga" - 1885-'86; olio su tela, 170 x 389,5 cm).
Tre piani (con ascensore), e un film piatto? Tre storie, e un film (contr'ogni mazzantin-castellittitudine) lineare, limpido, coerente, classico e paradossalmente dinamico. "Guasto" è lo zeitgeist.
Nanni Moretti (comunque prima il nome e cognome, sempre, ché il film lo vediamo lo stesso, signor Dino Risi, anche se la crasi fra l’alter-super-ego Michele Apicella e la copia carbone amorale di Silvio Berlusconi non si leva di mezzo né di torno: epperò, quand’improvvisamente lo fa, ecco che… Eh già!) con “Tre Piani” (e due lacune, intervalli e divari di un lustro ciascuno), traslando assieme alle fide Federica Pontremoli e Valia Santella un’oper’altrui (e questa è una prima volta per il regista più autoreferenziale del circondario che del soggetto originale ha fatto costantemente sin dagli esordi l’affidabile detonatore della propria arte), l’omonimo ("Shalosh Komot") ed altrettanto freudianamente tripartito romanzo epistolare di Eshkol Nevo, firma e filma, senza esagerazioni metaforiche veicolate mediante una rappresentazione gestalticamente scenografica eventualmente troppo spinta di Es (una vetrata sfondata), Io (in fuga) e Super Io (una gran bella terrazza senz’abusi edilizi), quello che potrebbe essere definito il suo primo vero (“Caos Calmo” era sì molto suo, così come “il Portaborse” e “la Seconda Volta” - tutti esempi questi di film tratti da soggetti altrui preesistenti: romanzi, trattamenti, diari -, m’altrettanto no: diamo ad Antonello Grimaldi quel ch’è suo, qualunque cosa sia) film (prodotto da Sacher, Fandango, RAI e le Pacte) “alla francese” (e non è un complimento) della sua cinquantennale (e la cosa è letteralmente inconcepibile: come passa il tempo quando ci si diverte!) carriera, in pratica “il Caimano”, “Habemus Papam” e “Mia Madre”, dopo l’intermezzo di “Santiago, Italia”, privati (prima dell’eterno ritorno in grande stile attraverso questi territori col successivo “il Sol dell’Avvenire”) di qualsivoglia intervento autobiografico esplicito e di qualsiasi dispositivo metacinematografico diegetico ed extra-diegetico (“la Stanza del Figlio”, in pratica: solo che allora - a parte il passaggio dagli Hare Krishna al flash-mob tangheiro - si trattava di un cambio di paradigma nel suo cinema, maggiore persino rispetto a quello compiuto a suo tempo con “la Messa è Finita”), e questo è un complimento senz’alcuna contropartita d’applicare verso i citati predecessori diretti, e la sua opera più, se pur parzialmente, e dopo tanta fatica, consolatoria (e questo è un dato di fatto neutro, coadiuvato dalla fotografia urban-naturalistica di Michele D’Attanasio e dalle piovaniche musiche di Franco Piersanti), riuscendo nell’intento di dare corpo e volto attoriali (Margherita Buy, sul filo della sommessa perfezione di gran mestiere; e accanto a lei, dicotomici, un bravo Riccardo Scamarcio, mai sopra le righe, e una come al solito consapevolmente straniante, ricercatamente grezza e fuor d’ogni riga Alba Rohrwacher; e poi, non uno fuori posto e tutti rimarcabili, in ordine sparso: Elena Lietti, Adriano Giannini, Anna Bonaiuto, Paolo Graziosi, Denise Tantucci, Alessandro Sperduti, Tommaso Ragno, Stefano Dionisi,Teco Celio, Francesco Acquaroli, Sergio Pierattini, Francesco Brandi, Gea Dall’Orto e Roberto De Francesco) ai personaggi che si raccontano e che vengono raccontati dalle pagine dello scrittore israeliano: la prestazione recitativa di Moretti raggiunge il picco quando è sdraiato a terra cercando di proteggere testa e corpo dai calci e quando più tardi esce definitivamente di scena fuori campo: non è una battuta di cattivo gusto: nel primo caso torna utile il suo passato atletico-sportivo (raccogliersi a conchiglia) e nel secondo, in un ultimo atto dadaista, viene messa in evidenza, con la scrittura, la regìa e il montaggio di Clelio Benevento – in due parole: la sintassi letterario-cinematografica (tipo Llewelyn Moss che scompare fuori campo tanto nel romanzo di McCarthy quanto nel film dei Coen) – tutta l’ingombrante, iperriconoscibile, stridente ed identitaria performance precedente.
An (non “la”, ma “una”, ovvero: quando il nome proprio diviene - sin, ovviamente, dalla seconda metà degli anni ‘00 del XVII secolo - sostantivo) English Orël-Sibirska Lady Macbeth: un matrimonio, quello fra Inghilterra e Russia, stranamente (non esiste alcun paese al mondo a cui Londra non abbia mosso guerra) riuscito.
Liberamente (l'epilogo diverge de jure, ma in fondo non de facto: ad esempio, giustappunto per quanto concerne il finale, una differenza sostanziale risiede nel fatto che qui la protagonista è incinta, mentre nel libro ha partorito da un anno) tratta – come l’opera lirica di Sostakovic e Preis del 1934 e il film di Wajda del 1962 – dalla novella di Leskov del 1865 (quasi un quarto di secolo dopo, separato da un braccio di mare tanto dalla Russia quanto dall’Inghilterra, Strindberg porterà in scena - dopo averla scritta “per il cassetto”, che ben presto assunse le dimensioni del mondo quas’intero - “la Signorina Julie”, tragedia in atto unico che può esserne considerata al contempo un compendio/corollario, una variazione sul tema e un’antitesi), “Lady Macbeth”, l’opera prima nel lungometraggio (dopo i corti “Christ’s Dog”, “In Mid Wickedness” e “Best”) di William Oldroyd (in attesa di “Eileen”), (ri-)scritta da Alice Birch {che poi sarà co-sceneggiatrice con Emma Donoghue e lo stesso regista del “the Wonder” di Sebastian Lelio [interpretato sempre da Florence Pugh nel ruolo di protagonista, qui (col cast principale completato dagli ottimi Christopher Fairbank e Naomi Ackie e dai bravi Cosmo Jarvis e Paul Hilton) quasi agli esordi (aveva già girato “the Falling” e la 1ª stag. di “Marcella”, mentre il botto avverrà tre anni dopo con “MidSommar” per giungere poi all’eterogenea “consacrazione” - vuoi artistica, vuoi pecuniaria - di “Dont’ Warry Darling”, “Black Widow”, “Oppenheimer” e “Dune: Part Two” con, nel mezzo, “Outlaw King”, “the Little Drummer Girl”, “Little Women” e “A Good Person”) e/ma già completamente padrona del mestiere], creatrice della serie “Dead Ringers” basata sul romanzo di Wood & Geasland e sul film di Cronenberg & Snider e adattatrice per Mahalia Belo del “the End We Start From” di Megan Hunter}, prodotta da Fodhla Cronin O'Reilly (“Ammonite”), fotografata (tra interni ed esterni è sempre comunque il corpo di Pugh ad essere al centro del fuoco, là dove cadendo convergono le linee di prospettiva) da Ari Wegner (“In Fabric”, “the Power of the Dog”, “the Wonder”, “Eileen”), montata (percettibilmente benissimo) da Nick Emerson (“Daphne”, “Pin Cushion”, “Greta”, “Emma”, “Eileen”) e musicata (molto bene) da Dan Jones (“Shadow of the Vampire”, “Dead Set”), rifulge di una invidiabile sapienza tanto compositiva del quadro animato (rigore formale mai fine a sé stesso) quanto organizzativa del flusso narrativo (e per questo sarà molto interessante scoprire cosa e come sarà “Eileen” con Thomasin McKenzie), riuscendo persino a svicolare dalle proprie parossistiche – ché di tragedia nel senso letterale del termine si tratta: senza prologo, ma in medias res, né parodo né stasimi, ma strutturandosi grazie “solo” a vari episodi e ad un esodo in spegnendo – derivazioni “orrorifiche” (à la kieslowski-piesiewicz, “certo”) controbilanciandole con un finale, per l’appunto, scientemente “barrylyndoniano” e privo di deus ex machina che non sia l’assestarsi muto della magione acquisita, col corrimano della ringhiera della scala interna già consunto dall’uso di mani (sepolte, quelle dei proprietari e dei "Bullington", o disertrici, quelle della servitù) oramai svanite.
Catherine, che un tempo non molto lontano fu comprata all'asta del bestiame, adesso, accusando un consunto dalla colpa Sebastian e una strutturalmente innocente Anna, per salvare sé stessa e il frutto del suo ventre, dicotomica pendaglio da forca upper class, ché le due cose spesso e volentieri sono immiscibili, con la seconda che scaccia la prima, e pure a furor di pòppolo, si porta entrambe le mani al grembo tanto a metaforica protezione del nascituro quanto per ergerlo come salvacondotto e scudo. Una culla!, serve una culla!
“Lady Macbeth”, ovvero: un breve film sull’uccidere di quando la lotta di classe viene “stemperata” con la psicopatologia criminale.
Insomma: Shakespeare + Marx + Freud, solo che il delinquente assassino (principale) non prova alcun senso di colpa (men che meno edipico, nonostante il momento più tenero sia la rievocazione da parte della protagonista, verso il pre-adolescente tutelato, della propria madre) e la politica è convergenza evolutiva: rimane Shakespeare (e dintorni).
“To the cross, to the prison, to the grave, to the sky.” (To the empty manor, to the full womb, to the quantum cradle.)
Con Stefanie Martini, Emma Appleton, Rory Fleck Byrne, Hugh O'Conor, Ayvianna Snow
In streaming su Rai Play
Come (ripristinando il VE Day e così forse salvando il mondo da una versione peggiore della nostra, ché le vie dell'inferno sono lastricate di buone intenzioni portate a termine) ci venne risparmiata l’opera omnia di quel fottuto cazzone di Reginald Watson.
Con Henry Zebrowski, Brea Grant, Justin Benson, Jeremy Gardner, Ashley Song, Nicola Masciotra
The Ten Year Itch, or: Big Bad Wolf/Bear/Lion, aka the Porcupine Man, of Georgia.
Senti, Hank, non esiste una dannata città in tutto questo dannato mondo in cui non ci sia qualcuno che dica di aver visto qualcosa che non può spiegare. Ogni lago ha un mostro lacustre. In ogni foresta c'è una scimmia grande e pelosa. Cristo, potrei chiedere a un centinaio di persone, solo in questa città, e la metà di loro dirà di aver visto un ufo o un fantasma. Merda, la maggior parte di loro dirà di averli visti entrambi, nonostante 500 anni di scienza dura non abbiano trovato nemmeno un briciolo di prova per nessuno dei due. Neanche un frammento. Ma questo è ciò che facciamo. Sai, riempiamo gli spazi vuoti di ciò che non capiamo. Questa è la natura umana. Abbiamo lasciato che la nostra immaginazione disegnasse volti sui rumori nel buio fin da quando vivevamo nelle caverne. E disegniamo sempre denti aguzzi.
«Voglio dire, cosa è più folle? Credere a ogni singola coincidenza che vedi o semplicemente ignorarle tutte? […] Insomma, statisticamente è impossibile che non avvengano coincidenze.»
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