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Libri A(ni)mati / 68: “Souvenirs Entomologiques - Cinquième Série” di Jean-Henri Fabre (1897) – "Tutto muore affinché tutto viva."
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Libri A(ni)mati / 68: “Souvenirs Entomologiques - Cinquième Série” di Jean-Henri Fabre (1897) – "Tutto muore affinché tutto viva."

Quanta metafisica per un po’ di sterco ovino!

Giunti alla lettura della qui presentata Quinta Serie (1897) dei Ricordi (Souvenir) Entomologici (1879-1907) di Jean-Henri Fabre (1823-1915: il naturalista autodidatta moriva in Provenza e August Sander immortalava in Renania-Palatinato i Tre Contadini sulla Strada per il Gran Ballo della Prima Grande Guerra Mondiale: terminava l’Ottocento ponendo le basi per i primi vagiti dell’Era Atomica) c’è poco da aggiungere a quanto già posto in calce alle quattro precedenti (i link per accedere a quelle pagine li trovate qua sotto): perdura l’affabulazione divulgativo-narratoria da parte dell’autore e l’ammirazione – punteggiata da ricorrenti storcer di froge rispetto ai pelosi e, non solo col senno di poi, ma pure con quello d’allora, ottusi attacchi alla Teoria dell’Evoluzione postulata oramai quasi quarant’anni prima da Charles Darwin in “On The Origin of Species” - da parte del lettore ammaliato.

Mi ci perdo.
O invece mi ci ritrovo.

Protagonisti di questa serie sono coleotteri, emitteri e mantidi, ovvero scarabei stercorari, geotrupidi, ginnopleuri, ontofagi, cicale, mantis, iris, ameles ed empuse: argomento cardine, al tempo stesso fulcro e armatura, come sempre: l’istinto animale (insufflato negl’insetti sin dal Carbonifero, per Fabre, ma rimane il punto: chi è il propalatore di quel fiato divino?, mentr’invece opera della selezione casual-naturale del più adatto, per Darwin): al netto della fuorviante frizione con l’evoluzionismo, le evidenze osservate, annotate e divulgate da Fabre sono trasmesse grazie a una dote di rara dedizione, intelligenza e capacità deduttiva e “restitutiva” verso il suo pubblico (a distanza di 125 anni ancora brulicante).

Sono necessarie delle prove. Eccole.

Souvenirs Entomologiques - Cinquième Série - 1897” di Jean-Henri Fabre, contenuto in “Ricordi di un Entomologo - Volume Terzo”, Adelphi, 2023, collana Biblioteca, n. 746 (traduzione di Francesco Bergamasco; brossura rilegata a filo refe, copertina flessibile a quattro alette; 742 pagg., € 42.00).

 

 

Volumi precedenti, presenti e futuro-prossimi:

- “Souvenirs Entomologiques” (Ricordi Entomologici - Volume I - Prima Serie) di Jean-Henri Fabre (1879): “La vita, ci dice la fisiologia, è una continua distruzione.”
- “Souvenirs Entomologiques” (Ricordi Entomologici - Volume I - Seconda Serie) di Jean-Henri Fabre (1882): “Un Harmas, un Fazzoletto di Terra: Hoc Erat in Votis.”

- “Souvenirs Entomologiques” (Ricordi Entomologici - Volume II - Terza Serie) di Jean-Henri Fabre (1886): “Dulces (moriens) reminiscitur Argos.”
- “Souvenirs Entomologiques” (Ricordi Entomologici - Volume II - Quarta Serie) di Jean-Henri Fabre (1891): “Mens Agitat Molen” (et Vice Versa).

- “Souvenirs Entomologiques” (Ricordi Entomologici - Volume III - Quinta Serie) di Jean-Henri Fabre (1897): “Tutto muore affinché tutto viva.” 
- “Souvenirs Entomologiques” (Ricordi Entomologici - Volume III - Sesta Serie) di Jean-Henri Fabre (1899): “xxx”.  

Playlist film

 

La vita di Jean-Henri Fabre, un professore liceale di matematica dal modesto stipendio, insofferente verso le rigide regole scolastiche d'indottrinamento del luogo e del tempo, la Provenza (la Francia, l'Europa, il Mondo) della seconda metà del XIX secolo, credente cattolico, baudelairesco flâneur e naturalista (entomologo, ornitologo, biologo, chimico, eccetera) autodidatta che non accettò mai la teoria dell'evoluzione, ma fu elogiato da Charles Darwin per il suo indomito e pervicace spirito di osservazione e deduzione verso il comportamento - governato dall'istinto - del regno animale, riassunta in questa transalpina pellicola in B/N del dopoguerra.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

 

La vita di Jean-Henri Fabre, naturalista ed entomologo francese autodidatta, attivo nella seconda metà dell'ottocento, il secolo della rivoluzione francese e di quella industriale, e celebre per il suo contributo sugli studi riguardanti il comportamento degli insetti che gli valsero riconoscimenti accademici, condensata in questo (introvabile?) sceneggiato RAI in B/N degli anni settanta.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

 

♣ ♣ ♣  Gli SCARABEI nella Letteratura e nella Musica (ché con la Pittura e la Scultura il discorso si allargherebbe troppo) - Un florilegio minimo.  ♣ ♣ ♣

 

— Può darsi che abbiate udito parlare di un certo capitano Kidd. Io considerai subito la figura di questo animale come una specie di firma geroglifica, giocando sulle parole. Dico firma, perché il posto che occupava sulla pergamena suggeriva naturalmente questa idea. E il teschio, sull’angolo diagonalmente opposto, aveva nello stesso modo l’aria di uno stampo, un sigillo. Ma fui crudelmente deluso dall’assenza del resto, del corpo medesimo di quello che immaginavo fosse un documento.

— Suppongo che speravate di trovare una lettera fra lo stampo e la firma?

— Qualcosa del genere. Il fatto è che mi sentivo irresistibilmente invaso dal presentimento di una immensa fortuna. Il perché non lo saprei dire. Era forse, in fin dei conti, un desiderio piuttosto che una vera e propria credenza; ma lo credereste che le assurde parole di Jupiter, che lo scarabeo era d’oro massiccio, avevano avuto una grande influenza sulla mia immaginazione? E poi la serie di incidenti e coincidenze era veramente straordinaria. Avete osservato per quale fortuito caso tutti questi avvenimenti dovevano essere accaduti il solo giorno dell’annata che abbia fatto abbastanza freddo da accendere il fuoco, e che senza il fuoco e l’intervento del cane al momento preciso in cui avevate la pergamena in mano, non avrei mai preso conoscenza del teschio e cosí non avrei mai posseduto questo tesoro? 

 

Edgar Allan Poe - "the Gold-Bug" - 1843 ("lo Scarabeo d'Oro", traduzione di Delfino Cinelli).

  

 

To John Beetle(s): Vanessa Paradis, "Scarabée" (Étienne Roda-Gil & Franck Langolff), da "M&J" (1988).

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

 

“Ben non aveva visto occhi, però qualcosa scintillava nel fondo dei pozzi di carbone che erano quelle orbite corrugate, qualcosa come i gelidi gioielli negli occhi di uno scarabeo egizio. E benché il vento tirasse dalla parte sbagliata, gli era sembrato di sentire odore di cannella e spezie, di sudari putrescenti in tessuti di droghe misteriose, sabbia, sangue così antico da essersi ormai prosciugato in scaglie di ruggine…”.

 

Stephen King - "It" - 1986 (traduzione di Tullio Dobner).

 

Recensioni: Chapter One e Chapter Two

  

 

"Sacro Scarabeo" per fare rima con la fermata d'interscambio Dateo (arciprete brefotrofiale dell'VIII secolo) delle stazioni del Passante Ferroviario e della Linea M4 della Metropolitana: Baustelle, "Milano È la Metafora dell'Amore", da "Elvis" (2023).

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

 

La costruzione del nido, custode della prole, rappresenta la più alta manifestazione delle capacità dell’istinto. Ce lo insegna l’uccello, architetto ingegnoso; ce lo ripete l’insetto, le cui doti sono ancora più variegate. Ci dice: «La maternità è la suprema ispiratrice dell’istinto». Preposta alla salvaguardia della specie, più importante della conservazione degli individui, la maternità suscita mirabili facoltà di previsione anche nell’intelletto più pigro; è il focolare tre volte santo in cui maturano e poi a un tratto rifulgono quegli inimmaginabili bagliori psichici che ci danno la parvenza di una ragione infallibile. Più la maternità si impone, più l’istinto cresce.

Sotto questo aspetto, meritano la nostra attenzione soprattutto gli imenotteri, che all’apice del loro sviluppo si fanno carico delle incombenze della maternità. Tutti questi, che le inclinazioni istintive rendono degli eletti, preparano per la discendenza vitto e alloggio. Diventano maestri di una miriade di attività a beneficio di una prole che i loro occhi composti non vedranno mai e che tuttavia la facoltà di previsione materna conosce benissimo. C’è chi si fa cotoniere e fila otri di ovatta; chi si inventa cestaio e intreccia canestri con frammenti di foglia; l’uno si trasforma in muratore, e costruisce stanze di cemento e cupole di ciottoli; un altro avvia un laboratorio di ceramica dove con l’argilla plasma eleganti anfore, orci, vasi panciuti; un altro ancora si dedica all’arte del minatore e scava nel terreno misteriosi ipogei in cui regna una tiepida umidità. L’allestimento dell’abitazione richiede un’infinità di mestieri analoghi ai nostri, spesso persino a noi sconosciuti. Si passa poi ai viveri dei futuri neonati: cumuli di miele, favi di polline, depositi di prede sapientemente paralizzate. In simili lavori, il cui unico scopo è assicurare il futuro della prole, rifulgono, stimolate dalla maternità, le più alte manifestazioni dell’istinto.

Nel resto della serie entomologica, le cure materne sono nel complesso assai elementari. Deporre l’uovo in un luogo adeguato, dove la larva possa trovare, a suo rischio e pericolo, vitto e alloggio: questo è tutto, grosso modo, nella maggior parte dei casi. A chi viene allevato in maniera così rozza, non servono capacità particolari. Licurgo aveva bandito dalla sua repubblica le arti, colpevoli di fiaccare i costumi. Così, fra gli insetti cresciuti spartanamente, sono bandite le ispirazioni superiori dell’istinto. La madre si libera delle tenere sollecitudini verso il neonato, e le prerogative dell’intelletto, fra tutte le migliori, si indeboliscono, si spengono, a tal punto è vero che la prole è fonte di progresso, sia per l’animale, sia per noi.

Se l’imenottero ci ha sorpreso con le sue grandi premure nei riguardi della discendenza, gli altri insetti che abbandonano la propria alle alterne vicende della sorte potrebbero sembrarci al confronto di scarso interesse. Questi sono la quasi totalità; la fauna dei nostri paesi, almeno per quanto ne so io, offre solo un altro esempio di insetti che preparano provviste e alloggio per la prole, come fanno gli insetti che raccolgono miele e quelli che sotterrano cesti di prede.

E, caso strano, chi compete in tenerezze materne con le api, specie che bottina sui fiori, altri non è che lo scarabeo stercorario, il quale vive di sporcizia e ripulisce i prati insozzati dalle greggi. Per ritrovare madri devote e di istinti generosi bisogna passare dalle profumate corolle dell’aiuola al mucchio di sterco lasciato dal mulo sulla strada maestra. La natura pullula di opposti simili. Che cos’è per lei ciò che per noi è bello o brutto, pulito o sudicio? Con l’immondizia, la natura crea il fiore; da un po’ di letame ricava il chicco, per noi benedetto, del frumento.

Nonostante il sordido lavoro che svolgono, gli scarabei stercorari occupano una posizione molto rispettabile. Per le dimensioni, in genere imponenti; la severa livrea, impeccabilmente lucida; la forma rotondetta, raccolta in uno spessore ridotto; i bizzarri ornamenti, sia della fronte, sia del torace, che fanno splendida figura nelle scatole del collezionista, soprattutto quando alle specie locali, il più delle volte nere come l’ebano, vengono ad aggiungersi alcune specie tropicali, in cui brillano i lampi dell’oro e i bagliori del rame levigato.

Gli scarabei stercorari sono ospiti assidui delle greggi; così alcuni di loro emanano un dolce odore di acido benzoico, l’aroma degli ovili. Le loro usanze pastorali hanno colpito i nomenclatori, che troppo spesso poco attenti, ahimè, all’eufonia, nell’occasione si sono ricreduti e hanno messo in cima alle loro definizioni i nomi di Melibeo, Titiro, Aminta, Coridone, Alessi, Mopso. Vi compare tutta la serie delle denominazioni bucoliche rese famose dai poeti antichi. Le egloghe di Virgilio hanno offerto il loro vocabolario per celebrare gli scarabei. Per trovare una nomenclatura altrettanto poetica bisognerebbe risalire alla delicata eleganza delle farfalle. Vi risuonano, tratti dall’accampamento greco e da quello troiano, i nomi epici dell’Iliade. Forse tale impronta guerriera è un po’ eccessiva per questi pacifici fiori alati i cui costumi non ricordano in nulla i colpi di lancia di Achille e degli Aiaci. Più felice è la denominazione bucolica riservata agli stercorari, che ci rivela la caratteristica principale dell’insetto, la frequentazione del terreno da pascolo.

Il capofila dei manipolatori di sterco è lo scarabeo sacro, le cui strane manovre attiravano già l’attenzione del fellah nella valle del Nilo qualche migliaio di anni prima della nostra èra. Quando, all’arrivo della primavera, innaffiava il suo fazzoletto di terra coltivato a cipolle, il contadino egizio vedeva di tanto in tanto passargli vicino un grosso insetto nero che, procedendo a ritroso, rotolava in fretta una palla di escrementi di cammello. Guardava, sbalordito, l’aggeggio che rotolava come lo guarda oggi il contadino provenzale.

Non può non rimanere sorpreso chi si trovi per la prima volta davanti allo scarabeo, il quale, con il capo in basso e le lunghe zampe posteriori in alto, fa del suo meglio per spingere la grossa pallottola, causa di frequenti e goffi ruzzoloni. Davanti a un simile spettacolo, l’ingenuo fellah di certo si chiedeva che cosa potesse essere quella palla, e perché mai l’animale nero la facesse rotolare con tanta foga. Il contadino di oggi si pone la stessa domanda.

Nell’epoca antica dei Ramsete e dei Thutmosi si insinuò la superstizione: si vide nella sfera che rotolava l’immagine del mondo e della sua rivoluzione diurna; e allo scarabeo furono tributati onori divini: è lo scarabeo sacro dei naturalisti moderni, così chiamato in ricordo della sua gloria passata.

Il bizzarro pillolario fa parlare di sé da sei-settemila anni, ma conosciamo a sufficienza le sue abitudini più intime? Sappiamo a che cosa di preciso gli serva la palla? Sappiamo come allevi la sua prole? Niente affatto. Le opere più autorevoli tramandano sul suo conto errori grossolani. 

 

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Ecco ciò che possiamo stabilire con certezza: lo scarabeo nasce storpio; la sua condizione mutila è originaria.

Sia pure, risponderà la teoria in auge, lo scarabeo è mutilo dalla nascita; ma i suoi lontani antenati non lo erano. In conformità con la regola generale, possedevano una struttura integra sin nel modesto particolare delle dita. È accaduto che alcuni abbiano logorato questo organo delicato, ingombrante e inutile nel loro duro compito di scavatori e di carrettieri; e poiché ne traevano giovamento, questa amputazione accidentale l'hanno trasmessa in eredità ai loro discendenti, con grande beneficio della stirpe. L'insetto attuale approfitta del miglioramento ottenuto attraverso una lunga serie di antenati che, incalzati dalla lotta per la vita, hanno reso sempre più stabile una condizione vantaggiosa nata dal caso.
Oh teoria ingenua, che trionfi nei libri ma sei cosi sterile dinanzi ai fatti, stammi a sentire ancora un po'. Se per lo scarabeo, che tramanda fedelmente di generazione in generazione la zampa divenuta casualmente storpia in epoche remote, la mancanza delle dita anteriori fosse un bene, che accadrebbe agli altri arti se anche questi dovessero casualmente perdere la loro ultima appendice, sottile filamento senza forza, quasi inutile, e causa, vista la sua delicatezza, di fastidiose lotte con le asperità del terreno?
Poiché non si arrampica ma cammina soltanto, appoggiandosi sulla punta di un bastone alpino, intendo dire sul robusto uncino collocato all'estremità della zampa; poiché non deve aggrapparsi con gli artigli a qualche ramo sospeso come fa il maggiolino, lo scarabeo avrebbe, cosi sembra, tutto da guadagnare a liberarsi delle quattro dita rimanenti, separate dal dito principale, inerti durante gli spostamenti, inoperose durante la fabbricazione e il trasporto della pallottola. Sì, sarebbe un progresso, per la semplicissima ragione che minor presa si offre al nemico meglio è. Resta da sapere se il caso produce talvolta una condizione del genere.
La produce, e molto spesso. Verso la fine della bella stagione, in ottobre, quando l'insetto ha esaurito le sue forze a scavare, trasportare pallottole e plasmare pere, i mutilati, invalidi del lavoro, sono la grande maggioranza. Sia nelle mie gabbie, sia all'aperto, vedo amputazioni di ogni genere. Alcuni hanno perso completamente il dito nelle quattro zampe posteriori; altri ne conservano un moncone, un paio di articoli, uno solo; i più fortunati hanno ancora qualche arto integro.
Questa è la mutilazione cui fa appello la teoria. E non è un evento che si verifichi di tanto in tanto: ogni anno, quando si ritirano nei quartieri d'inverno, gli storpi prevalgono sui sani. Durante gli ultimi lavori, non sono più impacciati di quelli che sono stati risparmiati dalle difficoltà della vita. Negli uni e negli altri, la medesima agilità nei movimenti, la stessa abilità nell'impastare la galletta che permetterà loro di sopportare con filosofia sottoterra i primi rigori dell'inverno. Nel lavoro di stercorari, i monchi non sono da meno degli altri.
Questi amputati si riproducono: passano la brutta stagione sottoterra; si svegliano in primavera, risalgono in superficie e assistono per la seconda volta, talora persino per la terza, alla grande festa della vita. I loro discendenti dovrebbero mettere a profitto un miglioramento che, ripetendosi ogni anno da quando al mondo esistono gli scarabei, ha certo avuto il tempo di consolidarsi e di trasformarsi in un'abitudine saldamente acquisita. Non è così. Quando rompono il guscio, tutti gli scarabei senza eccezione sono provvisti dei quattro tarsi regolamentari.
Ebbene, teoria, che cosa ne pensi? Per le due zampe anteriori, offri una parvenza di spiegazione, che le altre quattro zampe confutano senza appello. Non scambierai forse le tue fantasie per verità?

[Qui Fabre confonde, da una parte, per dirla con Jacques Monod, il Caso con la Necessità, e, dall’altra, Darwin con Lamarck, mischiando con quella dell’evoluzione l’errata teoria della trasmissibilità ereditaria dei caratteri acquisiti; NdA.]

 

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Qual è dunque la causa della mutilazione originaria dello scarabeo? Confesso candidamente di non averne idea. Tuttavia questi due arti monchi sono davvero strani; tanto strani, nella interminabile serie degli insetti, da avere indotto persino i più grandi maestri in errori incresciosi. Ascoltiamo innanzitutto Latreille, il principe dell'entomologia descrittiva. Nella sua memoria sugli insetti dipinti o scolpiti sui monumenti dell'antico Egitto, cita gli scritti di Orapollo, unico documento che i papiri abbiano conservato a gloria dell'insetto sacro.
«Ciò che dice Orapollo sul numero delle dita di questo scarabeo» scrive «vorremmo quasi relegarlo nel novero delle fantasie: secondo lui le dita sono trenta. Tuttavia, per il modo in cui egli considera il tarso, il calcolo è ineccepibile, perché esso è composto da cinque articolazioni; e se si ritiene ciascuna di queste un dito, considerato che le zampe sono sei e che ciascuna di queste termina con un tarso di cinque articoli, gli scarabei chiaramente non possono avere che trenta dita».
Domando scusa, esimio maestro: gli articoli sono in tutto solamente venti, perché le due zampe anteriori sono prive di tarsi. Lei si è fatto trascinare dalla legge generale. Ha perso di vista la singolare eccezione, che certamente le era nota, e ha detto trenta, soggiacendo per un istante alla legge, con tutto il peso che essa possiede. Sì, l'eccezione le era nota al punto che l'immagine dello scarabeo riprodotta nella sua memoria, disegnata a partire dall'insetto e non dai monumenti egizi, è irreprensibile: non ha tarsi sulle zampe anteriori. L'errore è scusabile, poiché l'eccezione è veramente strana.
Nel suo volume sui lamellicorni di Francia, Mulsant riprende Orapollo, assegnando trenta dita all'insetto, sulla base del numero dei giorni che il sole impiega a percorrere un segno zodiacale. Riprende la spiegazione di Latreille. Fa di più. Ascoltatelo; «Calcolando ogni articolo di tarso come un dito, si converrà che l'insetto era stato esaminato molto attentamente».
Esaminato molto attentamente! Da chi? Da Orapollo? Ma andiamo! Da lei, maestro, sì, cento volte sì. Eppure la legge, nella sua assolutezza, l'ha condotta per un istante fuori strada; l'ha condotta fuori strada, e in modo molto più grave, anche quando nel suo disegno dello scarabeo sacro lei ha riprodotto l'insetto con i tarsi sulle zampe anteriori, tarsi simili a quelli delle altre zampe. Anche lei, sempre così scrupoloso nelle descrizioni, è stato vittima di una distrazione. La regola generale le ha fatto perdere di vista la singola eccezione.
Che cosa ha visto Orapollo? A quanto pare ciò che noi vediamo oggi. Se, come tutto sembra indicare, la spiegazione di Latreille è valida, se l'autore egiziano conta per primo trenta dita sulla base del numero degli articoli dei tarsi, la ragione è che egli ha eseguito il calcolo mentalmente partendo dai dati offerti dalla situazione generale. Orapollo ha commesso uno scivolone non così imperdonabile se, circa mille anni dopo, lo hanno compiuto anche maestri come Latreille e Mulsant. La vera colpevole in tutto questo è la struttura così particolare dell'insetto.
«Ma» si potrebbe replicare «perché Orapollo non si sarebbe accorto di come stavano veramente le cose? Forse, ai suoi tempi, lo scarabeo possedeva i tarsi di cui oggi è privo. Potrebbe averlo cambiato il paziente lavoro dei secoli».
Per rispondere all'obiezione trasformista, aspetto che mi venga presentato un vero scarabeo contemporaneo di Orapollo. Gli ipogei che custodiscono così religiosamente il gatto, l'ibis e il coccodrillo probabilmente ospitano anche l'insetto sacro. Io dispongo solo di qualche immagine che riproduce lo scarabeo quale è inciso sui monumenti o scolpito nella pietra dura come amuleto delle mummie. L'artista antico rappresenta l'insieme con notevole fedeltà; ma il suo bulino e il suo scalpello non si sono occupati di particolari minuscoli come i tarsi.
Sebbene possa contare su pochissimi documenti simili, dubito fortemente che le sculture e le incisioni permettano di risolvere il problema. Anche se si scoprisse da qualche parte un'immagine con i tarsi anteriori, la questione non farebbe passi avanti. Si potrebbe sempre chiamare in causa l'errore, la distrazione, il gusto per la simmetria. Se qualcuno continua a dubitare, soltanto l'insetto antico e reale può convincerlo. Resto in attesa, certo fin d'ora che lo scarabeo del tempo dei faraoni non fosse diverso dal nostro.

[Ed ecco un altro errore (increscioso, per citare egli stesso) nel quale incorre Fabre, forse facilitato in questo dalla sua vena anti-evoluzionista (la “obiezione trasformista” se l’è inventata lui di sana pianta, perché nessun evoluzionista ragiona s’una scala temporale così ridotta, adirittura ad una manciata di secoli!, sapendo bene che le forze naturali agiscono invece - a meno che non si tratti di un ambiente molto circoscritto come quello di un’isola minuscola o di una selezione innaturale guidata dall’essere umano stesso, ad esempio per quanto riguarda le razze degli animali d’allevamento e da compagnia – lungo una scala temporale ben più ampia, nell’ordine degli eoni) che ne offusca l’invece altrimenti acutissimo ed integerrimo intelletto. La spiegazione è oltremodo semplice e ce la fornisce la Natura stessa: basta osservare bene l’insetto da vicino! Come scrive per altri versi Fulvio Giachino nel suo Insetti: Dei e Demoni - gli Insetti nella Cultura Umana: Simboli, Miti, Leggende, Religione e Folklore (edito nel 2022 per i tipi dalla sezione Books della veronese WBA Project), dando ragione ad Orapollo l’Egiziano: «Un'altra caratteristica morfologica dello scarabeo sacro che nella noosfera egizia si è legata agli astri sono le "dentellature" presenti sulle zampe: "Ogni scarabeo ha trenta dita perché il mese è di trenta giorni, durante i quali il sole levandosi compie il proprio corso." Chiaramente gli scarabei non posseggono trenta dita, anzi non posseggono in alcun modo dita, ma le parti distali del secondo e del terzo paio di zampe posseggono cinque tarsomeri, mentre le tibie del primo paio di zampe posseggono cinque "denti". Sommandoli tra di loro si ottengono le 30 "dita" citate da Orapollo nel brano sopra riportato; gli egizi si basavano su un calendario solare di 30 giorni, trovando riscontro nella morfologia dell'insetto.»; NdA.]

 

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L'istinto, che in condizioni normali ci stupisce per la sua infallibile lucidità, non ci sorprende di meno per la sua ottusa ignoranza quando sopravvengono condizioni inconsuete. Ogni insetto ha un lavoro in cui eccelle, una serie di azioni logicamente coordinate nelle quali è un autentico maestro. In questo ambito, la sua prescienza, che non conosce sé stessa, è superiore alla nostra scienza, che conosce sé stessa; la sua ispirazione inconsapevole soverchia la nostra consapevole ragione. Ma allontaniamolo dal suo sentiero naturale, e di colpo l'ottenebramento subentra al bagliore della luce, che, una volta spenta, niente riuscirà a riaccendere, neanche lo stimolo più potente del mondo, la maternità.

 

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Ecco ora il rovescio della medaglia. L'uovo viene deposto, e nel sotterraneo tutto è in ordine. La madre esce. La catturo nel momento in cui sta uscendo; estraggo la pera o l'ovoide; metto l'opera e l'artigiana una accanto all'altra sul terreno in superficie, nelle condizioni di poco prima. La pallottola va seppellita con prudenza, ora, o sarà tardi. All'interno si trova l'uovo, delicato essere che sotto la sua fine guaina potrebbe guastarsi per un colpo di sole. Un quarto d'ora di esposizione alla vampa della canicola, e tutto è perduto. Che cosa farà la madre in un frangente così rischioso?
Assolutamente nulla. Non sembra neanche accorgersi della presenza dell'oggetto per lei tanto prezioso il giorno precedente, quando l'uovo non era ancora stato deposto. Zelante all'eccesso prima della deposizione, dopo diventa indifferente. L'opera compiuta non è più affar suo. Se al posto della pera, dell'ovoide, ci fosse un sasso, l'insetto vi presterebbe la stessa attenzione. La madre ha un unico pensiero: andarsene. Lo capisco dai suoi andirivieni intorno alla cinta che la tiene prigioniera.
Così agisce l'istinto: tenace nel seppellire il blocco inerte, abbandona alla superficie il blocco animato. Per lui, l'opera da compiere è tutto; l'opera compiuta non è più niente. Vede il futuro, ignora il passato.

 

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Gli ontofagi non attaccano briga; e in caso di pericolo si limitano a fingersi morti raccogliendo le zampe sotto il ventre.
Le loro armi sono dunque semplicemente decorative, un civettuolo ornamento maschile. A chi è meglio agghindato va la palma della vittoria, secondo la legge della lotta per la sopravvivenza. Se a noi sembrano strani questi spadoni sul naso, loro sono di diverso parere, e i più bizzarri sono i preferiti. Inoltre il più piccolo tubercolo, formatosi per caso, è un sovrappiù di bellezza che può incidere sulla scelta fra due pretendenti. Quelli che hanno gli ornamenti più belli conquistano le madri, fanno figli e trasmettono alla stirpe il piccolo corno, l'escrescenza che è all'origine del loro trionfo. Così si è gradualmente formata, così è stata trasmessa, perfezionandosi di continuo, la decorazione che l'entomologo oggi ammira.
Stando all'evoluzionista, la pupa dell'ontofago risponde: «Sul dorso ho un accenno di corno, embrione di un ornamento tenuto in grande considerazione fra noi, come testimonia il Bubas bison, che se ne fa una superba protuberanza a forma di prua; lo testimoniano anche diversi parenti esotici che prolungano il loro corsaletto in un magnifico sperone; ciò che possiedo io è sufficiente a introdurre una modificazione nei miei simili. Se io conservassi la mia gobba, graziosa innovazione, caccerei i miei rivali negli ultimi posti; sarei la preferita, creerei una discendenza, e la mia razza, portando a compimento e perfezionando il mio tentativo, vedrebbe l'estinzione di questo vecchiume fuori moda. Perché la mia escrescenza dorsale deve avvizzire, restando inutile? Perché il mio sforzo, ripetuto ogni anno da secoli, non consegue mai il risultato promesso?».
Ascolta, cara la mia ambiziosa. Certo, la teoria afferma che ogni acquisizione fortuita, per quanto piccola, viene trasmessa e si ingrandisce se si dimostra utile; ma non fare troppo assegnamento su tale affermazione. Non dubito che ornamenti più cospicui potrebbero procurarti dei vantaggi. Dubito, e molto, che il tempo e l'ambiente siano efficaci fattori di trasformazione. Faresti meglio a credere che, nata in epoche remote, con un callo transitorio, continui e continuerai a nascere con questo abbozzo di gobba senza alcuna possibilità di renderla stabile, di indurirla ricavandone un corno e di ottenere un ornamento in più per il tuo abito nuziale.

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Uomini e scarafaggi, siamo fatti tutti a immagine di un prototipo immutabile: le condizioni variabili della vita ci cambiano un po' in superficie, mai nella struttura. Il verderame dei secoli altera le medaglie ricoprendole di una patina; ma non può sostituire la loro legenda o la loro immagine originaria con un'altra. Niente mi darà l'ala dell'uccello, tanto desiderabile sui terreni fangosi degli uomini; così pure niente ti elargirà, quando sarai adulta, il trionfale pennacchio che la tua escrescenza di pupa sembra annunciare. 

 

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[Qui Fabre, immediatamente dopo aver più o meno inconsapevolmente sottoscritto Darwin in pieno, tenta di smentire pure sé stesso utilizzando il solito espediente retorico del mettere in bocca al proprio nemico parole ch’egli mai ha pronunciato. “Ciò che possiedo io è sufficiente a introdurre una modificazione nei miei simili” è un’affermazione antiscientifica che non fa i conti con l’indifferenza del Caso e con la Necessità non guidata dalla consapevolezza; NdA.]

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

 

Questa maggior presenza degli scarabei, almeno nella mia regione, non potrebbe essere determinata dalla longevità dell'insetto adulto? Io penso di sì. Mentre gli altri insetti godono delle gioie della bella stagione soltanto una generazione alla volta, loro vi sono invitati insieme, il padre accanto ai figli, le figlie accanto alla madre. A parità di fertilità, sono dunque rappresentati in numero doppio.
E per il servizio reso lo meritano davvero. L'igiene generale esige la scomparsa di ogni elemento infetto nel più breve tempo possibile. Parigi non ha ancora risolto il tremendo problema dei suoi rifiuti, che diventerà prima o poi questione di vita o di morte per la mostruosa città. Sorge il dubbio che il centro dei lumi sia destinato a spegnersi un giorno fra i miasmi di un suolo saturo di marciume. Ciò che un agglomerato urbano di alcuni milioni di uomini non riesce a ottenere con tutto il suo patrimonio di ricchezze e talenti, il più piccolo villaggetto lo ha a disposizione senza fare fatica, o senza nemmeno darsene pensiero.
Prodiga di cure per la salubrità della campagna, la natura è indifferente, se non addirittura ostile, al benessere delle città. Essa ha creato per i campi due categorie di risanatori, che nulla stanca e nulla disgusta. Gli uni - mosche, silfidi, dermestidi, necrofagi, isteridi - sovrintendono alla dissezione dei cadaveri. Sbranano e smembrano, distillano nel loro stomaco i residui della morte per restituirli alla vita.
Una talpa sventrata dall'aratro imbratta il sentiero con le sue viscere già violacee; una biscia giace sul prato, schiacciata dal piede di un passante che credeva, lo sciocco, di fare opera meritoria; un uccellino implume caduto dal nido si è schiantato, poveretto, ai piedi dell'albero che lo ospitava; migliaia di altri resti analoghi, provenienti da ogni dove, sono sparsi qua e là, e rischiano di provocare danni con le loro esalazioni, se nulla interviene a riportare l'ordine. Non temete: appena un cadavere viene segnalato da qualche parte, i piccoli becchini accorrono. Lo lavorano, lo svuotano, lo spolpano fino all'osso, o almeno lo lasciano disseccato come una mummia. In meno di ventiquattr'ore, talpa, biscia o uccellino saranno scomparsi, e l'igiene sarà soddisfatta.
Stesso entusiasmo nell'incombenza da parte della seconda categoria di risanatori. La campagna ignora quei gabinetti pubblici che odorano di ammoniaca in cui, in città, si soddisfano le meschine necessità. Un muricciolo non molto alto, una siepe, un cespuglio: questo è tutto ciò che chiede il contadino come riparo quando desidera appartarsi. Potete immaginare a quali incontri vi esponga una simile disinvoltura. Sedotto dalle rosette dei licheni, dai cuscinetti di muschio, dai ciuffi di semprevivo e da altre delizie che abbelliscono le vecchie pietre, vi avvicinate a ciò che sembra il muro di sostegno del terreno di una vigna. Ah! Ai piedi del riparo adornato in maniera così civettuola, quale orrore, copiosamente elargito! Fuggite: licheni, muschi e semprevivo non vi attirano più. Il giorno dopo tornate. La cosa è scomparsa, il luogo è lindo: gli scarabei stercorari sono passati di là.
Preservare la vista da incontri sgradevoli troppo frequenti è uno dei compiti minori di questi prodi; a loro è affidata una missione più elevata. Sappiamo dalla scienza che gli agenti dei più temibili flagelli dell'umanità si trovano in organismi minuscoli, i microbi, compagni delle muffe, agli estremi confini del regno vegetale. Durante le epidemie, questi terribili germi pullulano in numero incalcolabile nelle deiezioni. Contaminano l'aria e l'acqua, alimenti originari della vita; si diffondono sulla nostra biancheria, sui nostri vestiti, sul nostro cibo propagando così il contagio. Tutto ciò che hanno insudiciato va distrutto con il fuoco, sterilizzato con corrosivi, seppellito.
Prudenza vuole che non si lascino mai a lungo gli escrementi sulla superficie del terreno. Sono innocui? O sono pericolosi? Nel dubbio meglio farli sparire. Questo sembra aver capito la saggezza antica, molto prima che il microbo ci spiegasse quanto sia necessaria la vigilanza in questo campo. I popoli orientali, più esposti di noi alle epidemie, avevano leggi categoriche sull'argomento. Mosè, echeggiando nella fattispecie, a quanto pare, la scienza egizia, ha codificato il comportamento da seguire quando il suo popolo errava nel deserto dell'Arabia. «Avrai anche un posto fuori dell'accampamento» dice «e là andrai per i tuoi bisogni. Nel tuo equipaggiamento avrai un piolo, con il quale, quando ti accovaccerai fuori, scaverai una buca e poi ricoprirai i tuoi escrementi.»
Disposizione di serio interesse nella sua ingenuità. E da credere che se l'Islam avesse adottato una precauzione del genere e un'altra simile in occasione dei grandi pellegrinaggi alla Caaba, La Mecca non sarebbe stata ogni anno focolaio di colera, e l'Europa non avrebbe avuto bisogno di montare la guardia sulle rive del Mar Rosso per proteggersi dal flagello. Incurante dell'igiene come l'arabo, uno dei suoi antenati, il contadino provenzale non sospetta il pericolo. Per fortuna è all'opera lo scarabeo, fedele seguace del precetto mosaico. Spetta a lui far sparire la materia piena di microbi, a lui seppellirla. Accorre munito di strumenti di scavo più raffinati del piolo che l'israelita doveva portare al cinturone quando bisogni urgenti lo spingevano fuori del campo; appena l'uomo se ne va, scava un pozzo in cui la materia infetta, ormai innocua, scompare.
I servigi resi da tali seppellitori sono molto importanti nell'igiene dei campi; e noi, che siamo i principali interessati a questo infinito lavoro di depurazione, degniamo questi prodi appena di uno sguardo sprezzante. Il linguaggio popolare affibbia loro nomi disdicevoli. È la regola, pare: fate del bene e sarete misconosciuti, diffamati, lapidati, schiacciati sotto il tacco come testimoniano il rospo, il pipistrello, il riccio, la civetta e altri assistenti che ci chiedono soltanto un po' di tolleranza in cambio del loro aiuto.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

 

Messo in conto un certo numero di errori per difetto o per eccesso, inevitabili in un ambito così poco compatibile con misurazioni precise, dalla mia indagine emerge con molta chiarezza un punto: i geotrupi sono accaniti seppellitori; la quantità di materiale che introducono sottoterra supera largamente quella di cui hanno bisogno. Poiché gli insetti, grandi o piccoli, che in grado diverso partecipano a questo lavoro sono legioni, è chiaro che la depurazione del terreno ne risente molto e che l'igiene generale deve rallegrarsi di avere al proprio servizio un tale esercito di ausiliari. Del resto, i seppellimenti riguardano le piante e, di riflesso, una quantità di esistenze. Ciò che il geotrupe sotterra e abbandona il giorno dopo non è perduto, tutt'altro. Nel bilancio del mondo nulla va perso, il tota le dell'inventario è costante. La piccola zolla di letame sepolta dall'insetto renderà lussureggiante il cespuglio di graminacea lì accanto. Passa una pecora, bruca il fascio d'erba. Tanto di guadagnato per il cosciotto che mangerà l'uomo. L'attività dello scarabeo stercorario ci avrà procurato una forchettata saporita.
Con la nostra brutta abitudine di riferire tutto a noi stessi, è già qualcosa. E molto di più se la riflessione ci libera da questo punto di vista angusto. Nell'inestricabile concatenazione delle esistenze, è impossibile elencare tutti quelli che, da vicino o da lontano, ne trarranno beneficio. Immagino la capinera che imbottirà il pagliericcio del suo nido con minute stoppie macerate dalla pioggia e dal sole; il bruco di qualche farfalla che fabbricherà la sua teca intrecciando i residui delle stesse stoppie; le piccole melolonte che brucheranno le antere della graminacea; i minuscoli tonchi che tra sformeranno i semi maturi in culle di larve; le tribù di afidi che si stabiliranno sotto le foglie; le formiche che andranno ad abbeverarsi ai cornicoli zuccherati di questo gregge.
Fermiamoci qui. L'elenco sarebbe interminabile. Dall'attività agricola dello scarabeo stercorario, seppellitore di concime, trae vantaggio un mondo intero, le piante innanzitutto e poi chi vive sfruttando le piante. Un mondo piccolo, piccolissimo quanto si vuole, ma in fin dei conti non trascurabile. E con simili nonnulla che si compone il grande integrale della vita, così come l'integrale dei geometri si compone di quantità prossime allo zero.

 

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♣ ♣ ♣  Le CICALE nella Letteratura e nella Musica (ché con la Pittura e la Scultura il discorso si allargherebbe troppo) - Un florilegio minimo.  ♣ ♣ ♣

 

EsopoLa FontaineTrilussaRodari...

 

"Un tempo, prima che nascessero le Muse, le cicale erano uomini. Ma quando acquer le Muse e comparve il canto, alcuni uomini furono colpiti a tal punto dal piacere che continuavano a cantare, trascurando cibi e bevande, e argersene morivano. Da loro spunto la stirpe delle cicale alle quali le Muse hanno concesso il privilegio di cantare fino alla morte senza aver mai bagno di nutrirsi e poi di salire fino a loro per riferire su chi le onori sulla Tema e quale in particolare onori fra di loro. A Tersicore additano chi le ha reso onore nei cori, e così lo rendono a lei più caro; a Erato chi le ha reso onore nei carmi amorosi; e così alle altre secondo la forma di onore che è propria di ciascuna. Alla più anziana, Calliope, e a quella che viene dopo di lei, Urania, riferiscono di coloro che trascorrono la vita nella filosofia e rendono onare alla musica che è loro propria. Sono queste che, più di tutte le Muse, avendo cura del cielo e dei discorsi divini e umani, mandano un bellissimo suono di voce."

 

Platone - "Fedro" - 370 a.C.

[Versione contenuta in "Volario" di Alfredo Cattabiani del 2000 e riportata in "Insetti: Dei e Demoni" (op. cit.) di Fulvio Giachino del 2022.]

 

E poi lo scapigliato Giosuè Carducci nel pezzo di prosa autobiografica ("Gli ateniesi anche ne mangiavano: io mi contento di ammirarle.") de "Le «Risorse» di San Miniato al Tedesco e la Prima Edizione delle Rime" del 1882 in cui cita anche Aristofane, Virgilio e Ariosto...

 

E lo stesso Jean-Henri Fabre che dedica loro "la Cigalo e la Fournigo", un componimento apocrifo in provenzale (lingua che riassumendo si può così descrivere: un milanese che parla francese con accento ligure). 

 

E, da "Dal Golfo all'Etna" (1931), in "il Castello di Udine" (1934), citato da Claudio Vela in "le Cicale (e Altro Bestiario) della Cognizione", Carlo Emilio Gadda: «La malinconiosa cicala faceva più immensa e come vivente la luce.»

 

E ancora:

- La cicala, sull’olmo senz’ombre, friniva a tutto vapore verso il mezzogiorno, dilatava la immensità chiara dell’estate.
- Al passare della nuvola, il carpino tacque. [...] La robinia tacque.
- Le cicale, risveglie, screziavano di fragore le inezie verdi sotto la dovizie di luce, tutto il cielo della estate crepitava di quello stridìo senza termini, nell’unisono d’una vacanza assordante.
- Le cicale franarono nella continuità eguale del tempo, dissero la persistenza: andavano ai confini dell’estate.

- Le cicale, popolo dell’immenso di fuori, padrone della luce.

 

Per giungere a... va beh.

 

Cicala, oh!, cicala,
che suoni, e canti, maschio, il tuo rumore bianco
- amplificati schiocchi e vibrazioni a modulazione di frequenza sui 100 e passa decibel -
per tutte le femmine in ascolto, e per tutta l'estate,
mimetizzandoti sugli alti tronchi dei pini, dei lecci e degli ulivi
allietandomi i caldi e afosi pomeriggi lavorativi
riempiendomi la calma di vento delle domeniche oziose
accompagnandomi ostinata e fedele per tutte le ferie
(tu, mediterranea cosmopolita!)

Cicala, oh!, cicala:
esapode emittero cicadomorfo
venuto alla luce dopo anni - lustri! - di vita larvale ipogea
da un uovo ovoposto tra un termidoro e un fruttidoro oramai dimenticati
lasciando l'exuvia abbandonata seccarsi al sole
per vivere la tua vita di una sola stagione
(dal solstizio fra pratile e messidoro, senza, mai, raggiungere l'equinozio successivo).

Cicala, oh!, cicala,
dalle membranose ali trasparenti venate di scuro,
il corpo tozzo e sgraziato grigio-marrone
e il grosso capo bitorzoluto dagli occhi sporgenti.

 

Cicala, povera cicala,
imago delle vestigia d'antichi artisti
in egual misura dai mitopoietici fondatori greci e latini e dai nuovi vecchi poeti paludati in Arno
tanto derisa e incompresa (querula e noiosa)
quanto deificata e rivalutata (arguta e squillante accordatrice in lirica).

Cicala, presenza perpetua che collassi tutto il tempo del giorno bagnato da Sol,
da mane a sera, dal mezzodì al meriggio,
in un unico punto espanso, condensato
in un desolato - all'orizzonte riarso - spettro piatto perpetuo dell'onda di calma sonora.

Cicala, oh!, cicala,
friniscila!,
ché hai definitivamente rotto il cazzo.

 

 

Colapese & DiMartino - "Cicale" (da "i Mortali", 2020).

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

 

Tutto è in tutto, come diceva a suo tempo il pedagogo Jacotot. La velocità della metamorfosi ci conduce a una questione di gastronomia. Secondo Aristotele, le cicale erano un alimento molto apprezzato dai Greci. Non conosco il testo del grande naturalista: la mia biblioteca di campagnolo non è così ricca. Ho per caso sotto gli occhi un venerando libretto, ottimo per informarmi. E il commento di Mattioli a Dioscoride. Erudito di grande valore, Mattioli deve conoscere molto bene Aristotele. Mi ispira assoluta fiducia.
Ebbene, Mattioli dice: «Mirum non est, quod dixerit Aristoteles, cicadas esse gustu suavissimas antequam tettigometra rumpatur cortex». Sapendo che tettigometra, o «madre della cicala», è il termine antico con cui veniva indicata la ninfa, vediamo che, secondo Aristotele, le cicale hanno un sapore delizioso prima che si rompa la scorza o involucro della tettigometra.
Il particolare della scorza intatta ci chiarisce in quale stagione deve avvenire la raccolta dello squisito boccone. Non può essere d'inverno, periodo degli scavi in profondità, perché non vi è pericolo che la ninfa si schiuda. Non si raccomandano precauzioni completamente inutili. Dunque è d'estate, quando le ninfe escono dal sottosuolo e, se le si cerca con cura, si possono trovare sparpagliate sulla superficie del terreno. È questo l'unico momento in cui è veramente necessario controllare che la scorza sia ancora intatta. È anche il momento in cui affrettarsi nella raccolta e nei preparativi in cucina: la scorza si spaccherà di lì a pochi minuti.
Sono meritate l'antica fama gastronomica e l'appetitosa definizione suavissima gustu? È un'ottima occasione, approfittiamone: riportiamo in auge, se è il caso, il cibo elogiato da Aristotele. Rondelet, il dotto amico di Rabelais, si vantò di avere riscoperto il garum, la famosa salsa fatta con interiora di pesci frolli. Non sarebbe opera meritoria restituire le tettigometrae ai buongustai?
Una mattina di luglio, quando il sole già rovente invi- ta le ninfe di cicala a uscire dal sottosuolo, tutta la gente di casa, grandi e piccini, inizia le ricerche. Siamo in cinque a esplorare il terreno recintato, soprattutto i cigli dei viali, i punti più ricchi. Ogni volta che qualcuno trova una ninfa, per evitare di romperne la scorza la immergo in un bicchiere d'acqua. L'asfissia interromperà il processo di trasformazione. Dopo due ore di attenta perlustrazione, che ci fa tutti grondare di sudore, eccomi con quattro ninfe, non di più. Sono morte o mori- bonde nel liquido conservante; ma cosa importa, visto che sono destinate alla frittura!
Vengono preparate nel modo più semplice, così da modificare il meno possibile quel sapore che si dice sia delizioso: un goccio d'olio, un pizzico di sale, un po' di ci- polla, nient'altro. La cuisinière bourgeoise di Menon non contiene ricette più elementari. A pranzo, la frittura è distribuita fra tutti i cacciatori.
Viene dichiarata commestibile all'unanimità. D'accordo, siamo buone forchette e il nostro stomaco non ha pregiudizi. Le cicale hanno persino un vago sapore di gamberetto, che si può ritrovare, ancora più deciso, in uno spiedino di cavallette. Ma sono terribilmente coriacee, povere di succo; sembra di masticare un pezzo di pergamena. Non consiglierei a nessuno il cibo magnificato da Aristotele.
Certo, il celebre storico degli animali era in genere eccellentemente informato. Il suo allievo reale gli faceva arrivare dall'India, allora così misteriosa, le curiosità più stupefacenti agli occhi di un macedone; le carovane gli portavano l'elefante, la pantera, la tigre, il rinoceronte, il pavone, e Aristotele ne forniva una descrizione fedele. Ma, in terra macedone, l'insetto lo conosceva soltanto tramite il contadino, l'indefesso lavoratore della terra, che si trovava la tettigometra sotto la vanga e sapeva prima di tutti che ne sarebbe uscita una cicala. Nella sua immensa impresa Aristotele si comportava dunque un po' come in seguito Plinio, con molta più ingenua credulità. Ascoltava le chiacchiere di campagna e le trascriveva come documenti veritieri.
Il contadino è dovunque malizioso. Si fa volentieri beffe delle inezie che noi chiamiamo scienza; canzona chi si ferma davanti a una bestiolina da nulla; scoppia a ridere se ci vede raccogliere un ciottolo, esaminarlo, metterlo in tasca. Il contadino greco primeggiava in questa caratteristica. Dice all'abitante di città: la tettigometra è un cibo divino, dal sapore inarrivabile, suavissima gustu. Ma, stuzzicando l'ingenuo con quelle lodi iperboliche, lo metteva nell'impossibilità di soddisfare la sua brama poiché avrebbe dovuto necessariamente raccogliere il delizioso boccone prima che venisse rotto il guscio.
Forza, provate voi a raccogliere qualche manciata di tettigometrae mentre escono da terra per fare un piatto sufficientemente abbondante, quando la mia squadra di cinque persone ha impiegato due ore per trovare quattro ninfe in un terreno pieno di cicale. State attenti soprattutto, nel corso delle vostre ricerche, che si protrar- ranno per giorni e giorni, a non lasciare che si rompa la scorza, fenomeno che avviene nel giro di pochi minuti. A parer mio, Aristotele non ha mai assaggiato una frittura di tettigometrae; il mio pranzo ne è la prova. Aristotele ripete in buona fede qualche scherzo campagnolo. Il suo cibo divino è tremendo.
Ah! Quante ne potrei raccogliere anch'io sul conto della cicala, se stessi a sentire tutto ciò che mi dicono i contadini, miei vicini…

 

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È una fortuna che la cicala del frassino non segua i consigli degli evoluzionisti. Se, via via più entusiasta a ogni generazione che passa, riuscisse a sviluppare progressivamente una cassa di risonanza ventrale paragonabile a quella che le procurano i miei cornetti di carta, la Provenza, popolata di cacas, diventerebbe un giorno inabitabile.

 

[Ecco un altro esempio di come Fabre non comprenda, ed anzi equivochi del tutto, la funzione della spinta evolutiva; NdA.]

 

Recensione.

 

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♣ ♣ ♣  Le MANTIDI nella Letteratura e nella Musica (ché con la Pittura e la Scultura il discorso si allargherebbe troppo) - Un florilegio minimo.  ♣ ♣ ♣

 

L'argomento è soverchiamente vasto: con gli scarabei il cerchio è ristretto, con le cicale si allarga un bel po', ma con le mantidi l'impresa rischia il titanismo.

 

Mi limito ad inserire un'allegramente voluta schifezzuola - resa scientemente tale dal suo autore: è il suo bello e la sua ragion d'essere - che Nino Rota, su testo di Antonio Amurri, creò per e con Federico Fellini.

 

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Ah! Bestie feroci! Si dice che i lupi non si mangino fra loro. La mantide non ha di questi scrupoli; si delizia delle sue simili quando intorno a lei abbonda la sua preda preferita, la locusta. Presso le mantidi vige l'equivalente dell'antropofagia, spaventosa anomalia nell'uomo. 
Queste aberrazioni, queste voglie da bestia gravida possono raggiungere livelli ancora più rivoltanti. Osserviamo l'accoppiamento e, per evitare la confusione che regna in un gruppo numeroso, isoliamo le coppie sotto campane diverse. A ogni coppia la sua casa, nella quale nessuno arriverà a disturbare le nozze. Non dimentichiamo i viveri, che saranno sempre abbondanti, così da escludere la scusante della fame.
Siamo verso la fine di agosto. Il maschio, esile innamorato, ritiene il momento propizio. Scocca qualche occhiata verso la robusta compagna; gira il capo dalla sua parte, piega il collo, sporge il petto. Il piccolo muso appuntito è quasi un volto dominato dalla passione. In questa posizione contempla a lungo, immobile, l'amata. Lei non si muove, come indifferente. L'innamorato tuttavia ha colto un cenno di assenso, che io non sono riuscito a scorgere. Si avvicina; a un tratto stende le ali, che fremono in modo convulso. E la sua dichiarazione. Si lancia, lui gracile, sul dorso della gigantessa; si aggrappa meglio che può, trova una posizione stabile. In genere, i preliminari sono lunghi. Alla fine avviene l'accoppiamento, anch'esso lungo, talvolta tra le cinque e le sei ore.
Nulla fra i due coniugi immobili che meriti attenzione. Finalmente si separano, ma per unirsi ben presto ancora più strettamente. Il poveretto è amato dalla bella come principio che infonde la vita nelle ovaie, ma anche come selvaggina prelibata. Infatti in quello stesso giorno, o al più tardi il successivo, viene agguantato dal- la compagna che, secondo i consueti usi e costumi, gli rosicchia prima la nuca e poi lo mangia con metodo a piccoli morsi, lasciando solamente le ali. Qui non si tratta più di gelosia tra femmine all'interno di un harem, ma di depravata voracità.
Mi è venuta la curiosità di sapere quale accoglienza riserverebbe a un secondo maschio la femmina appena fecondata. Il risultato della mia indagine è scandaloso. In molti casi, la mantide non è mai sazia di amplessi e piaceri coniugali. Dopo una pausa di durata variabile, che abbia già deposto le uova o meno, accetta il secondo maschio, che poi divora come il primo. Gli succede un terzo maschio, che assolve la sua funzione, viene mangiato e scompare. Un quarto va incontro alla stessa sorte. In un periodo di due settimane vedo una stessa mantide consumare così fino a sette maschi. A tutti essa si concede, a tutti fa pagare con la vita l'ebbrezza delle nozze.
Orge simili, di diversa intensità, sono frequenti, benché ammettano qualche eccezione. Nelle giornate molto calde, piene di elettricità, sono quasi la regola. Con un clima simile, le mantidi hanno i nervi a fior di pelle. Sotto le campane popolose, le femmine si divorano reciprocamente più che mai; sotto le campane con una singola coppia, dopo l'accoppiamento i maschi vengono trattati più che mai alla stregua di semplici prede.
Per giustificare tali atrocità coniugali vorrei poter dire: quando è libera la mantide non si comporta così; esaurito il suo compito, il maschio ha il tempo di mettersi al sicuro, di fuggire dalla terribile compagna, considerato che, nelle mie gabbie, gli viene concessa una pausa che talvolta si protrae fino al giorno dopo. Non so che cosa avvenga realmente sui rovi, perché il caso, risorsa avara, non mi ha mai fornito informazioni sugli amori della mantide in libertà. Sono costretto a basarmi su quanto accade nelle gabbie, in cui le prigioniere bene esposte al sole, nutrite abbondantemente, alloggiate in spazi ampi, non sembrano soffrire affatto di nostalgia. Ciò che fanno qui, devono farlo anche in condizioni normali.
Ebbene, quanto accade nelle gabbie smentisce l'argomento del tempo concesso ai maschi per allontanarsi. Sorprendo un'orribile coppia isolata: il maschio, impegnato nella funzione riproduttiva, è strettamente avvinto alla femmina. Ma lo sventurato è senza capo; senza collo; quasi senza corpetto. L'altra, con il muso girato sulla spalla, continua a rosicchiare pacifica i resti del dolce amante. E questo troncone maschile, saldamente attaccato, continua a compiere il suo dovere! 
L'amore, è stato detto, è più forte della morte. L'aforisma, preso alla lettera, non ha mai ricevuto conferma più clamorosa. Un animale decapitato, amputato sino a metà petto, un cadavere, persevera nel voler trasmettere la vita. Lascerà la presa soltanto quando la compagna attaccherà il ventre, sede degli organi della riproduzione.
Mangiare l'innamorato dopo avere consumato il matrimonio, cibarsi del nano esaurito divenuto ormai inutile, lo si può anche capire in una certa misura nell'insetto non troppo scrupoloso in fatto di sentimenti; ma sgranocchiarlo durante l'atto supera tutto ciò che oserebbe concepire una fantasia crudele. Io l'ho visto, visto con i miei occhi, e non mi sono ancora ripreso dallo stupore.

 

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