La costruzione del nido, custode della prole, rappresenta la più alta manifestazione delle capacità dell’istinto. Ce lo insegna l’uccello, architetto ingegnoso; ce lo ripete l’insetto, le cui doti sono ancora più variegate. Ci dice: «La maternità è la suprema ispiratrice dell’istinto». Preposta alla salvaguardia della specie, più importante della conservazione degli individui, la maternità suscita mirabili facoltà di previsione anche nell’intelletto più pigro; è il focolare tre volte santo in cui maturano e poi a un tratto rifulgono quegli inimmaginabili bagliori psichici che ci danno la parvenza di una ragione infallibile. Più la maternità si impone, più l’istinto cresce.
Sotto questo aspetto, meritano la nostra attenzione soprattutto gli imenotteri, che all’apice del loro sviluppo si fanno carico delle incombenze della maternità. Tutti questi, che le inclinazioni istintive rendono degli eletti, preparano per la discendenza vitto e alloggio. Diventano maestri di una miriade di attività a beneficio di una prole che i loro occhi composti non vedranno mai e che tuttavia la facoltà di previsione materna conosce benissimo. C’è chi si fa cotoniere e fila otri di ovatta; chi si inventa cestaio e intreccia canestri con frammenti di foglia; l’uno si trasforma in muratore, e costruisce stanze di cemento e cupole di ciottoli; un altro avvia un laboratorio di ceramica dove con l’argilla plasma eleganti anfore, orci, vasi panciuti; un altro ancora si dedica all’arte del minatore e scava nel terreno misteriosi ipogei in cui regna una tiepida umidità. L’allestimento dell’abitazione richiede un’infinità di mestieri analoghi ai nostri, spesso persino a noi sconosciuti. Si passa poi ai viveri dei futuri neonati: cumuli di miele, favi di polline, depositi di prede sapientemente paralizzate. In simili lavori, il cui unico scopo è assicurare il futuro della prole, rifulgono, stimolate dalla maternità, le più alte manifestazioni dell’istinto.
Nel resto della serie entomologica, le cure materne sono nel complesso assai elementari. Deporre l’uovo in un luogo adeguato, dove la larva possa trovare, a suo rischio e pericolo, vitto e alloggio: questo è tutto, grosso modo, nella maggior parte dei casi. A chi viene allevato in maniera così rozza, non servono capacità particolari. Licurgo aveva bandito dalla sua repubblica le arti, colpevoli di fiaccare i costumi. Così, fra gli insetti cresciuti spartanamente, sono bandite le ispirazioni superiori dell’istinto. La madre si libera delle tenere sollecitudini verso il neonato, e le prerogative dell’intelletto, fra tutte le migliori, si indeboliscono, si spengono, a tal punto è vero che la prole è fonte di progresso, sia per l’animale, sia per noi.
Se l’imenottero ci ha sorpreso con le sue grandi premure nei riguardi della discendenza, gli altri insetti che abbandonano la propria alle alterne vicende della sorte potrebbero sembrarci al confronto di scarso interesse. Questi sono la quasi totalità; la fauna dei nostri paesi, almeno per quanto ne so io, offre solo un altro esempio di insetti che preparano provviste e alloggio per la prole, come fanno gli insetti che raccolgono miele e quelli che sotterrano cesti di prede.
E, caso strano, chi compete in tenerezze materne con le api, specie che bottina sui fiori, altri non è che lo scarabeo stercorario, il quale vive di sporcizia e ripulisce i prati insozzati dalle greggi. Per ritrovare madri devote e di istinti generosi bisogna passare dalle profumate corolle dell’aiuola al mucchio di sterco lasciato dal mulo sulla strada maestra. La natura pullula di opposti simili. Che cos’è per lei ciò che per noi è bello o brutto, pulito o sudicio? Con l’immondizia, la natura crea il fiore; da un po’ di letame ricava il chicco, per noi benedetto, del frumento.
Nonostante il sordido lavoro che svolgono, gli scarabei stercorari occupano una posizione molto rispettabile. Per le dimensioni, in genere imponenti; la severa livrea, impeccabilmente lucida; la forma rotondetta, raccolta in uno spessore ridotto; i bizzarri ornamenti, sia della fronte, sia del torace, che fanno splendida figura nelle scatole del collezionista, soprattutto quando alle specie locali, il più delle volte nere come l’ebano, vengono ad aggiungersi alcune specie tropicali, in cui brillano i lampi dell’oro e i bagliori del rame levigato.
Gli scarabei stercorari sono ospiti assidui delle greggi; così alcuni di loro emanano un dolce odore di acido benzoico, l’aroma degli ovili. Le loro usanze pastorali hanno colpito i nomenclatori, che troppo spesso poco attenti, ahimè, all’eufonia, nell’occasione si sono ricreduti e hanno messo in cima alle loro definizioni i nomi di Melibeo, Titiro, Aminta, Coridone, Alessi, Mopso. Vi compare tutta la serie delle denominazioni bucoliche rese famose dai poeti antichi. Le egloghe di Virgilio hanno offerto il loro vocabolario per celebrare gli scarabei. Per trovare una nomenclatura altrettanto poetica bisognerebbe risalire alla delicata eleganza delle farfalle. Vi risuonano, tratti dall’accampamento greco e da quello troiano, i nomi epici dell’Iliade. Forse tale impronta guerriera è un po’ eccessiva per questi pacifici fiori alati i cui costumi non ricordano in nulla i colpi di lancia di Achille e degli Aiaci. Più felice è la denominazione bucolica riservata agli stercorari, che ci rivela la caratteristica principale dell’insetto, la frequentazione del terreno da pascolo.
Il capofila dei manipolatori di sterco è lo scarabeo sacro, le cui strane manovre attiravano già l’attenzione del fellah nella valle del Nilo qualche migliaio di anni prima della nostra èra. Quando, all’arrivo della primavera, innaffiava il suo fazzoletto di terra coltivato a cipolle, il contadino egizio vedeva di tanto in tanto passargli vicino un grosso insetto nero che, procedendo a ritroso, rotolava in fretta una palla di escrementi di cammello. Guardava, sbalordito, l’aggeggio che rotolava come lo guarda oggi il contadino provenzale.
Non può non rimanere sorpreso chi si trovi per la prima volta davanti allo scarabeo, il quale, con il capo in basso e le lunghe zampe posteriori in alto, fa del suo meglio per spingere la grossa pallottola, causa di frequenti e goffi ruzzoloni. Davanti a un simile spettacolo, l’ingenuo fellah di certo si chiedeva che cosa potesse essere quella palla, e perché mai l’animale nero la facesse rotolare con tanta foga. Il contadino di oggi si pone la stessa domanda.
Nell’epoca antica dei Ramsete e dei Thutmosi si insinuò la superstizione: si vide nella sfera che rotolava l’immagine del mondo e della sua rivoluzione diurna; e allo scarabeo furono tributati onori divini: è lo scarabeo sacro dei naturalisti moderni, così chiamato in ricordo della sua gloria passata.
Il bizzarro pillolario fa parlare di sé da sei-settemila anni, ma conosciamo a sufficienza le sue abitudini più intime? Sappiamo a che cosa di preciso gli serva la palla? Sappiamo come allevi la sua prole? Niente affatto. Le opere più autorevoli tramandano sul suo conto errori grossolani.
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