La bellezza dell’800. Zero diritti. Paghe misere. Orari infiniti. Schiene spaccate. E se per caso a qualcuno dovesse mai venire in mente di protestare c’è sempre un bravo Bava Beccaris a disposizione…
Con Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Roger Hanin, Mario Brega, Angela Luce, Gérard Landry
Il Ventennio dei treni in orario. E dei favori agli industriali (dopotutto, sì tanto sostegno va pur ricompensato in qualche modo). E del niente sindacati, niente diritti, taci, sgobba e obbedisci.
L’immediato dopoguerra. I diritti possono attendere, c’è da lavorare, lavorare, lavorare. Licenziamenti liberi (“libera recidibilità”). Potere contrattuale dell’operaio inesistente. Stipendi bassi e lunghissimi turni di lavoro. Lavoro a domicilio. E tanti “ex-fascisti” che rimangono tranquillamente ai loro posti nelle aule di tribunale, nelle università, nei gangli dell’amministrazione statale come ciliegina sulla torta.
Anni ‘50-’60. Contratti ”atipici”; contratti a termine; instabilità; appalto di manodopera (compaiono già le false cooperative...); lavoro a domicilio, a cottimo e via discorrendo. Pare oggi, eh? Ma almeno si fa la legge sui licenziamenti individuali...
Fine ‘60-anni ‘70. Età di mezzo, tra ultime conquiste e inizio del riflusso. Statuto dei lavoratori. Art. 18. Shock petroliferi. Crisi del modello fordista. Entra, per la prima volta, al centro della discussione il concetto di “lavoro precario”. Nella scuola, negli ospedali, nell’agricoltura, anche nell’industria. Quasi impossibile conciliare lavoro e cura familiare per le donne...
E, ad altre latitudini, si sperimenta (con grande dispiego di metodi democratici, ca va sans dire) la nuova geniale ideologia economica: il neoliberismo dei Chicago Boys, ladies and gentleman.
Oh, yeah! Gli smaglianti, fantastici, fulgidi anni reaganian-thatcheriani. Passaggio definitivo ad una società post-fordista. Ristrutturazione generalizzata. Mito della “flessibilità”. Ciao ciao scala mobile. I governi Craxi promuovono il “lodo Scotti”; la legge n. 863 del 1984 (che introduce part-time, contratti di formazione e di solidarietà) e altre belle perle. Tutte volte, chiaramente, a rendere “finalmente” più “flessibili” gli strumenti per facilitare l’ingresso nel “mercato del lavoro”. E rispondere così al dramma della disoccupazione. Che, invece, in seguito esplode...
Gli anni ‘90 e l’inizio del nuovo millennio. Sprint per entrare nella magica terra di pace e prosperità dell’Europa unita. Strategie europee con al centro i pilastri di “occupabilità, imprenditorialità, adattabilità”. Con il pretesto aggiuntivo di doversi “adeguare a tali standard” tutti i governi, di destra e presunta sinistra, adottano svariate norme – dal protocollo Amato (1992) al pacchetto Treu (1997) – che danno adito “ad una politica dei redditi strettamente correlata alla riduzione del costo del lavoro e dell’inflazione”, oltreché ad un ulteriore flessibilizzazione (che tradotto significa precarizzazione).
Poi, anni 2000. “Patto per l’Italia”. “Legge Biagi” (2003) con la liberalizzazione di part-time; l’introduzione del lavoro intermittente, ripartito ed accessorio (pagato in voucher); l’abolizione della legge 262/1960 circa il divieto d’interposizione di manodopera. (La sentiamo la fragrante arietta democratica da anni ‘50, il ritorno, eh?)
2007-2014. Il tempo della crisi. Aggravamento ulteriore e senza precedenti di diseguaglianze e in particolare della povertà assoluta (anche nel caso un'occupazione la si trovi). Aumento abnorme di contratti atipici e persino del cosiddetto lavoro gratuito (come gli stage). Emigrazione sempre più consistente, alla ricerca di lidi migliori.
Con la scusa dello “stato d’eccezione” legato all’emergenza occupazionale e in generale economica, in nome del motto "nessuna crisi deva mai andare sprecata", diviene possibile spingere per l’approvazione di leggi come la Fornero (2012) e il Jobs Act (2014). Addio art. 18. Promozione della “flessibilità in entrata”. Liberalizzazione del tempo determinato e dei voucher. “Tutele crescenti”. Facilitati i licenziamenti.
2014 ad oggi. Continuo attacco pressoché trasversale a chi ha la “colpa”, chi mantiene l’”onta” d'esser povero. Quindi si limitano i voucher, ma poi si reintroducono. Si cerca uno strumento di sostegno nel reddito di cittadinanza ma poi lo si "quasi abolisce". Ci si lamenta di non trovare lavoratori, ma si pretende di pagarli 3€ all’ora. Si attaccano i giovani, peraltro a quanto pare sempre stravaccati sul divano, in quanto troppo "choosy" . Il salario minimo rimane una chimera (con la beffa aggiuntiva di contratti collettivi che in sostanza normalizzano delle paghe indegne). E via discorrendo. Di corsa, sparati, verso futuri nuovi splendidi orizzonti...
Ed ecco quindi che l’Italia, oggi, si trova messa perfino peggio di altri Paesi. Essendo, tra le altre cose, l’unica nazione europea nella quale i salari da inizio anni ‘90 in avanti sono addirittura diminuiti (campioni del mondo!).
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