"Cose permanenti e fondamentali come il lampo, non il lampione."
Matteo Meschiari, modenese classe ‘68, professore a Palermo e in giro per mezza Francia di, ebbene sì (p. 1), demo-etno-antropologia della comunicazione, della cultura e del paesaggio, pubblicante con Sellerio, Liguori, Quodlibet, Aracne, Exòrma, Armillaria, Meltemi, Mucchi, Milieu, Aguaplano, Hacca, Zona 42, Oèdipus, Aragno, Piano B, Logos, Pleistocity, eccetera eccetera, e co-autore/fondatore dei blog la Grande Estinzione e il Problema di Grendel, con questo “instant” pamphlet ponderato sul come non lasciarci travolgere dall’Antropocene, ma sopravvivere con esso raccontandolo e dunque – al contempo – comprenderlo e “gestirlo”, riesce – a volte anche esagerando, sbagliando, scentrando, confondendo, deragliando, ma sempre con una vena di acuta verità a marchiarne il, ebbene sì (p. 2), messaggio – ad imbastire e sviscerare un discorso agile e denso, suddiviso in 5 capitoletti più una premessa prolettica e una coda antologica
[costituita da una quarantina di exempla inveranti, tra i quali cito – e trovate poi voi, utilizzando la vostra memoria connettiva o i motori di ricerca, andando a comporre una vostra personale biblioteca del Futuro Anteriore, ovvero non prima della Trascendenza della Singolarità Tecnologica post-planetaria, ma della “fine”, o del reinizio della Storia della Vita Umana sulla Terra (quando in realtà, d’altronde, siamo ancora nel pieno dell'Era della Protesi) così come la conosciamo – le epopee mesopotamiche assiro-babilonesi di Gilgameš, quelle sassoni di Bēowulf e dell’Edda norrena, il nostro Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, e poi l’amato dall’autore J.R.R. Tolkien - al quale contrappone, ebbene sì (p. 3), Philip K. Dick e, per sinonimia di "genere", Valerio Evangelisti e persino Italo Calvino, boh! -, sino a Derek Walcott, William T. Vollmann, Jeff VanderMeer, eccetera eccetera],
che “attacca” il sistema letterario/editoriale italiano [il quale "però" parimenti comprende, senza compiere il giro di boa alfabetico, e nominando - io, non l’autore - scrittori per l'appunto sopra alla media, E.Affinati, E.Albinati, N.Ammaniti, P.Cognetti, P.Giordano (e la sua recente "Tasmania della Mente"), etc. - e, ma sì, virando, ecco A.Moresco, T.Pincio, A.Scurati, E.Trevi e D.Voltolini -, ma che, bisogna però precisare ed aggiungere, è pure “patria” d’adozione co-fondativa di movimenti quali il Solar Punk, per nient’e nulla embedded al mainstream da Salone del Libro e anzi motore di un ottimismo sapienziale] per proporre una nuova idea di immagin-azione peninsulare alternativa, un “kit di sopravvivenza poetica”, non solo resiliente, ma "addirittura" performante il mondo.
Nota. Nel prologo, che parte da una Chauvet cinematografica e dunque non/a-platonica per giungere a una Linea Gotica lindoferrettiana e quindi non più “reale”, ad un certo punto compare questo paragrafo: “Ogni soluzione narrativa che sta saturando l'immaginario collettivo non sembra uscire dallo schema “villaggio → zona salva” vs “mondo → contagiato”. Una narrazione all'antrace che ha guidato più o meno consapevolmente anche la gestione pubblica, fisica e mentale di Covid-19. Ma si è visto, la Quarantena non ha funzionato. Non solo perché i furbi e gli omertosi sono incapaci di agire collettivamente, o perché l'economia locale e globale detta le regole, ma perché nessuno sta offrendo alle persone disorientate delle contronarrazioni per agire. Non bastano statistiche o misure di sicurezza a tranquillizzare la gente, perché la gente non è più la plebaglia rurale del Settecento o il gregge non pensante. Ci vuole qualcosa di convincente, che superi il magro descrittivismo un po' imbecille in cui sono rimasti intrappolati i politici e gli intellettuali italiani.” Parole sante (Agamben è citato direttamente, Cacciari - che, come il suo collega filosofo, capisce un emerito cazzo di biologia e zoologia, e men che meno di sinistra, costantemente in bilico tra il "ci fa" e il "ci è", ma che al contempo, come altri, ha ragione da vendere su una mole di altre cose, ad esempio sul 41-bis inflitto ad Alfredo Cospito: proprio come il classico orologio rotto - no), però a me - cui “piace” pensare o, meglio, credere di “essere” la “gente” - son bastati i numeri per pre-dichiarare finito a metà aprile 2020 il fastidiosamente utile coprifuoco: https://www.FilmTV.it/PlayList/715250: Tales from the Couch (Making Them UnComfortable). O, per altrettale conoscenza delle cose, sputtanare, ai primi di Marzo 2020, il fu indimenticato @champagne1, colui che, e cito, in-ospedale-ci-lavora(va): https://archive.is/hnKXZ [ricordiamo qui, a imperitura memoria, l'ipse dixit "...virus che non si può combattere con un vaccino (che nei virus a RNA è impossibile)...": Katalin Karikó ci lavorava da trent'anni, ma per "scrivo su filmtivvù e per hobby lavoro in ospedale facendo rivoltare John Belushi nella tomba" era impossibile, eh!].
"Il presente è distopico. Ma il futuro è fantastico."
Colophon. Matteo Meschiari – “Antropocene Fantastico - Scrivere un Altro Mondo” – Armillaria, Milano, 2020 (brossura cucita a filo refe con copertina a quattro ante, 138 pagine, 12.00 euro).
Primo luogo possibile. Una ragazza o un ragazzo di 30.000 anni fa entra in una grotta profonda. La lampada a grasso vacilla, mol- tiplica rilievi e cavità, ombre e brillamenti degli accidenti rocciosi, crepe. Le dita sulla pietra viscida seguono i solchi delle unghiate di un orso delle caverne. Gocciolii. Echi di passi. Vuoto. Poi, all'improvviso, la monotonia cromatica del calcare si spezza, appaiono macchie nere, rosse, tratti violenti ma compressi in un ordine temporaneo, gemme e feti d'immagini, e infine, grandiosi, immensi, devastanti, arrivano i corpi dei mammut riflessivi, dei bisonti arroganti, dei cavalli liberi, dei felini vagamente antropomorfi che tendono agguati all'occhio e al cuore di chi li guarda. Questa grotta profonda è la letteratura, è il passato ciclico che da Neanderthal a Platone a Vico abita con immagini la caverna del nostro cranio, è la tana dove Grendel, che è il presente dell'Antropocene, si preme le orecchie per non ascoltare pieno di invidia, geloso, i canti nella reggia di Hrothgar. →
→ Questi canti, sull'inizio dell'uomo e dei paesaggi terrestri, sono ciò che ci ha salvato dalla Glaciazione, dal Diluvio, dal Contagio. Sono i canti che carsici riappaiono come fontanili in qualche romanzo contemporaneo, in un poema dei margini, nei sogni della Quarantena o in un film di serie B, in un videogioco. Sono la speranza. Ma Grendel non può sopportare il clear song of skilled poet, perché la cosmogenesi che viene cantata a Heorot è appunto quella che ha bandito il suo corpo deforme di mostro, generato da Caino, negli angoli senza luce e senza festa del mondo. Così, un po' Grendel un po' Beowulf, lo scrittore nell'Antropocene deve fare i conti con la caverna. Ogni alternativa coincide con la fine. Ogni fine è un inizio solo se si ricomincia a narrare. L'Antropocene sarà fantastico o non lo vedremo finire mai.
Secondo luogo possibile. Salgo in Appennino ma l'Appennino non c'è più. Tutto è l identico a prima. Le faggete, i denti di arenaria, le nevi residuali. Ma l'Appennino non è più lì perché qualcosa mi impedisce di fare ponte tra quello che ho sotto gli occhi e quel lo che in più di quarant'anni si è raccolto, tra desiderio e memoria, nel mio paesaggio mentale. Le cucine delle osterie sono ancora calde, le piste tra i cuscini di foglie sono le stesse che percorrevano i manipoli celtici o le brigate partigiane, l'odore del fumo dai comignoli è quello di mio padre e di mio nonno. Ma l'Appennino è scomparso. Non posso più contare su di lui, vaporizzato. Dall'alto del Crinale guardo la cappa lenticolare sopra Modena, sul polo ceramico, sulla Pianura padana. Ma non è solo la nube delle polveri sottili e delle zattere di CO, alla deriva sopra cervelli e polmoni. È come il 1962, come se una nuova Rachel Carson collettiva avesse scoperchiato il vaso di Pandora su una verità inconfutabile: non c'è angolo della Terra che sia salvo. Ieri erano le molecole di DDT, oggi è il virus pandemico, che sta impattando come un iceberg di panna contro il Titanic di pastafrolla delle coscienze.
Fino a sei mesi fa l'Appennino era per me quello della Resistenza, delle strade ducali, di Lazzaro Spallanzani, dei viaggiatori del Grand Tour, di Annibale e Silla, degli insediamenti neolitici e paleolitici, dei ghiacciai scomparsi, delle balene fossili. Ma [...].
Ecco: tutto il pamphlet è il tentativo, in gran parte riuscito, di esplicitare quel "ma".
Tra i generi in scadenza c'è anche la Favola Nera, un mix tra Gothic/Horror Novel e semplificazione dell'intreccio in fabula, un esperimento che ha le ore contate per l'incapacità o la sciatteria nell'inventare un folklore davvero radicato in un territorio reale, per non saper fare eziologia ed etnografia a monte, per l'uso stereotipato degli archetipi. Negromanti e corvi, morti oscure e pseudoleggende della nonna funzionano la prima volta ma solo se abbinate all'eterno escamotage dell'assenza di invenzione: la lingua, la voce, la letterarietà. Però, dopo un tentativo-esordio che raccoglie qualche recensione e pochissime vendite, l'autore deve cambiare genere e reinventarsi in qualcosa di più normale.
L'alterità è una costruzione culturale, ideologica, politica. Quale alterità viene costruita nel romanzo [o film; NdR] che avete in mano? È legata all'idea di collasso (ambientale, sociale, cognitivo)? È in risonanza con la contemporaneità, recepisce lo zeitgeist, oppure si riferisce a una visione del mondo precedente? Questa visione aggiunge qualcosa di nuovo alla riflessione sulla crisi del sistema-Terra? Quale prospettiva incarna? Eurocentrica? Occidentale? Antropocentrica? Patriarcale? Bianca? Il libro [o film; NdR] che avete in mano è un romanzo dell'Antropocene se almeno un personaggio o una qualche scena centrale mettono in crisi un sistema identitario tradizionale verso una nuova idea di 'persona', umana o non-umana. Tratti indicativi sono lo shift ontologico, la confusione delle barriere tassonomiche, gli sconvolgimenti di scala, il crollo di identità. In questo senso ibridi, mutanti, teriomorfi, simbionti, megafauna, alieni, materie instabili [e virus; NdR] sono l'evoluzione heisenberghiana e antropocenica di zombie, vampiri e licantropi del vecchio sistema tolemaico. Se invece l'identità del personaggio è quella di un uomo che va verso i cinquanta e che ha perso il buon vento nell'arcipelago coniugale, lavorativo e sociale, allora 'Antropocene' è al massimo il nome del suo cane.
Con Mackenzie Davis, Himesh Patel, Matilda Lawler, David Wilmot, Nabhaan Rizwan
Tag Fantascienza, Storia corale, Distopia, Lotta per la sopravvivenza, Mondo, Futuro
Bios o Zoé? Vita animale, umana, oltreumana? Vita corporea, psichica, spirituale? Nuda vita, grado zero? Pura esistenza biologica? Ogni interpretazione scientifica, filosofica e antropologica del concetto di vita è oggi in collisione con l'Antropocene, in particolare con i suoi due corollari capitali: Sopravvivenza ed Estinzione. Un romanzo dell'Antropocene non può non essere impostato su questo doppio spettro. Ovviamente un paesaggio apocalittico, una comunità di sopravvissuti, un ambiente ostile o una causa distruttiva non sono elementi narrativi indispensabili. L'estinzione può essere quella di una singola specie animale, di un'abilità cognitiva, di una specificità culturale, così come la sopravvivenza può essere quella di un singolo indivi duo nella foresta, di un batterio incapsulato nel permafrost, di una calligrafia medievale. Ma il tratto distintivo del romanzo dell'Antropocene è che sopravvivenza ed estinzione sono funzioni narrative, non sono un tema tra i tanti, sono il motore della storia, sono la storia.
Perché tutto comincia davvero con gli animali. Lo spiega Paul Shepard in due libri essenziali, The Tender Carnivore and the Sacred Game e Thinking Animals. Semplificando, l'ipotesi di Shepard è che il cervello umano si sia modellato per farci inseguire fisicamente e mentalmente gli animali da cacciare. Competenze spaziali e competenze simboliche sono due aspetti complementari di un'unica evoluzione cognitiva. Se voglio prendere un animale non posso limitarmi a terreno concreto, devo anche pensarlo, specialmente perché gli animali vanno via, seguirlo sul non sono disponibili sempre nello stesso luogo come un frutto che cresce su un albero, un termitaio-menhir, un nido pieno di uova. Per cacciarli devo immaginarli, devo anticipare le loro mosse, devo agire mentalmente come loro, devo calarmi nella loro etologia vissuta, devo pensarli mentre pensano, devo essere loro. L'origine preistorica dell'animismo è questa. Non uomini che sognano altri uomini morti, come pensava Edward B. Tylor, ma uomini che cercano animali e conferiscono loro una personalità per renderli più facili da pensare nella loro intenzionalità cosciente. In questo senso gli animali ci hanno regalato l'invisibile, ci hanno spinto a raffinare il pensiero simbolico e a guardare il mondo come se fosse immerso in una complessità narrata. Da allora, dal remoto Paleolitico, le cose non sono cambiate. Continuiamo a immaginare scenari, pensieri e azioni altrui, mondi alternativi. Questa capacità cognitiva, che alcuni chiamano vicarianza, è strettamente legata - forse è la stessa cosa - al nostro essere uno storytelling animal, un animale che inventa storie per decriptare la complessità del mondo.
Con Willem Dafoe, Sam Neill, Sullivan Stapleton, Frances O'Connor, Callan Mulvey, Dan Wyllie
La spettralità ha attraversato tutto il pensie- ro del Novecento ma è solo da poco che un inquinante dell'aria ha attaccato le sinapsi dell'immaginario collettivo e ha relegato i fantasmi di cui parlavano Derrida o Žižek in una wunderkammer obsoleta. Questo in- quinante è il crollo percepito del futuro [...].
La prima intrusione del cuore è l'inizio del film The Hunter di Daniel Nettheim del 2011, Willem Dafoe è un mercenario che accetta di andare in Tasmania per conto di una compa gnia di biotecnologie per recuperare il DNA di un animale considerato estinto, il Thylacinus cynocephalus, la tigre della Tasmania, un marsupiale carnivoro il cui ultimo esemplare noto è morto in cattività nel 1936 e che, appunto come un fantasma, continua periodicamente a essere avvistato nelle aree più selvagge dell'isola. Nel film, Dafoe inserisce una chiavetta USB nel portatile e parte un video - che si può trovare facilmente in rete - girato nel lo zoo di Hobart nei primi Anni Trenta del Novecento. Nel ralenti zoppicante della pel licola il misterioso marsupiale si muove come uno xenomorfo di Hans Reudi Giger, bilanciandosi a volte sulla lunga, sgraziata coda come un canguro, spalancando quasi disarticolata e, a volte, per un istan te, guardando in macchina come una Medusa australe. Personalmente sono rimasto una bocca folgorato, trafitto da parte a parte, come se mi fossi affacciato su un abisso temporale pieno di presenze che non riescono a darsi pace. Spoiler: nel film Dafoe ucciderà l'animale, ma solo per non farlo cadere nelle mani della compagnia di biotecnologie che contava di ricavare dal suo DNA una neurotossina da utilizzare in ambito bellico. Ultimo della sua specie, l'animale non fugge, china la testa e si lascia uccidere, e con lui muore per sempre una parte incalcolabile di noi. Ma quale?
Qualche giorno fa ho pensato che fosse tempo di muoversi. Così ho iniziato un viaggio spettrale e doloroso nel mio personale Antropocene. Ho acquistato The Birds of America di John James Audubon, un volume 40x60, 6 chili di peso, con 150 tavole dell'edizione postuma del 1858 riprodotte ad altissima definizione. Audubon, allievo di Jacques-Louis David a Parigi, esploratore, naturalista, illustratore, è un personaggio mitico, un padre fondatore dell'idea di wilderness in America, ma per noi oggi è anche un medium, una Madame Blavatsky dei boschi che può metterci in connessione instabile con un mondo di fantasmi. Molti degli uccelli e dei mammiferi disegnati da Audubon sono ancora visibili in Nord America, ma per quanto ancora? Guardando le sue tavole gloriose e malinconiche sembrano già tutti estinti, perché quello che invece è certamente scomparso è il grande spazio americano, la sua inimmaginabile vastità interiore per chi lo percepiva con gli occhi del nuovo arrivato. →
→ Quello che noi possiamo fare, allora, subito, è allestire un bivacco in qualche Groenlandia della mente, ritrovarci tra pochi amici onesti e sussurrare i nomi di animali e di piante che, già da ora, senza che lo sappiamo, sono la metonimia zombie di un cosmo concluso.
Kong: Skull Island è un blockbuster del 2017. Alcune scene di azione rasentano il grottesco, ma ce n'è una, più riflessiva, che crea una specie di pausa nel ritmo agitato della narrazione. Dopo che la Grande Scimmia ha finito di massacrare i Cavalleggeri dell'aria, un gruppo di civili attraversa l'Isola del Teschio costeggiando una greve palude. Nel mezzo della palude c'è un'isola che ospita degli aironi bianchi, che all'improvviso si alzano in volo, disturbati da qualcosa. A quel punto l'isola si muove, emerge dall'acqua ruscellante e, da un'inquadratura più larga, capiamo che si tratta di un immenso bovide, o cervide, o tutte e due le cose, una specie di incrocio tra un bufalo d'acqua e un Megaceros. Il campo si allarga, diventa panoramico, a sinistra c'è il gruppo di minuscoli umani, a destra la montagna di carne muscolosa con muschi-pelliccia e alghe a strascico impigliate tra le corna. [...]
Pensiamo a Lascaux 18.000 anni fa e a Çatalhöyük 9.000 anni fa. Anche qui abbiamo piccoli uomini di fronte a grossi animali. Ecco perché la scena del mega-bufalo in Skull Island apre un pozzo che non è solo 'stupore' o 'portento' ma mitopiesi: siamo di fronte alla narrazione di un incontro archetipico tra antropomorfi e zoomorfi, le armi sono protesi cognitive, la faglia creativa del simbolo è attiva su scala geologica. Chi oggi si priva del sostegno dell'antropologia non potrà mai mettere in connessione la contemporaneità del romanzo con l'epoca primaria in cui l'uomo ha cominciato a raccontare storie. Lo scrittore [o lo sceneggiatore e/o regista; NdR] che non diventa un po' antropologo, analogamente, si isola in un flusso interrotto, non riesce a esplorare il presente nelle sue forti implicazioni cosmografiche.
Tornano allora in mente le parole di John Berger sulla marginalizzazione e scomparsa degli animali dalla vita quotidiana: «In un mondo governato dalla logica capitalistica, la perdita storica di cui gli zoo sono testimonianza è ormai irreparabile». Mancano gli animali, con il grumo di echi notturni e di simboli inconsci che ci aiutavano a dialogare con noi stessi. Secondo Berger è la vita invisibile degli animali a essere rappresentata adesso in alta definizione, una vita troppo veloce o troppo piccola o troppo lontana per essere colta dall'occhio umano: ancora fantasmi. In una fotografia del National Geographic contiamo i peli statici della criniera del leone, ma il suo odore che attorciglia lo stomaco è sostituito dal racconto di una selvatichezza patinata, estinta. L'animale non terrorizza più, non ci sono più tiranni a portata di mano, lo spauracchio del terrorismo non funziona più come un tempo, dov'è dunque il terrore come arma di persuasione di massa? In assenza del Terrore dei terrori, del Felino dei felini che divorava gli Australopitechi nella savana - cioè noi prima di noi -, ci siamo fatti bastare terrori minori, quello di essere poveri, grassi, malati, il terrore dello straniero, della crisi, del colesterolo, della solitudine. →
→ Ma adesso, finalmente, è arrivato il terrore globale, il Virus, mentre imperterriti continuiamo a produrre milioni di morti animali nella filiera del cibo che ha generato il disastro.
I sogni ci servono, non solo per fare i conti con il possibile, ma per ridisegnare la trama narrativa del reale. Scrivere dovrebbe essere come sognare, nel senso che tutti sognano e tutti dovrebbero scrivere per proseguire i propri sogni da svegli, con carta e penna, o davanti alla luce azzurra di uno schermo. Rinunciare alle proprie facoltà narrative innate in ossequio a un sistema che promuove la conventicola, che si vuole professionalizzante, che ama generare labirinti di merito e privilegio, è una resa cognitiva e umana abbastanza tragica.
Quale passato si annida nel futuro? In che cosa Paleolitico e Antropocene si somigliano? La parola Antropocene è irritante, un'irritazione che viene essenzialmente dalla sua proteiforme adattabilità ai contesti, dalla sua eccessiva carica di seduzione e facilità d'uso. Ma, concettualmente, quello che non convince è la sua perenne atmosfera alla Blade Runner, il suo sapore di futuro a tinte fosche, reale ma banale, come una quinta teatrale fissa, scontata. L'esperienza di Covid-19 ha smentito ogni visione distopica: l'Antropocene è qui senza mutare la percezione del presente. Anzi. Nei comportamenti e nelle atmosfere il presente è venato più di preistoria che di fantascienza. Filosofi oscurantisti [*] e virologi impotenti ci fanno sentire in un passato immaginato più che in futuro promesso.
Con Timothy Dalton, Jonathan Pryce, Stephen Rea, Twiggy, Julian Sands, Phyllis Logan
Sogno: l'attività onirica è un luogo di emersione e risoluzione dello stress, un apparecchio simulazione di paure, di insicurezze, di desideri. Chi dialoga molto con il proprio lato notturno è una persona più consapevole dei propri limiti e delle proprie capacità nel mondo diurno. Il sogno è anche la zona instabile dove il mistero parla per simboli, dove le combinazioni simboliche si dilatano al di fuori delle convenzioni sociali e culturali, dove il prelinguistico riemerge per mettere allo scoperto faglie e fratture che tendiamo a schermare e negare. Per andare a caccia nel Pleistocene il linguaggio non era essenziale, proprio come si può costruire un violino senza bisogno che il maestro racconti all'allievo come si fa: basta guardare, imparare osservando, imitare. Se il linguaggio esiste non è per risolvere problemi pratici come trovare il cibo, ma per prolungare anche di giorno l'attività onirica notturna. I sogni sono utili in molti modi. Possiamo aspettare la notte per averli, ma l'esito non è garantito. Invece con le parole possiamo sognare sempre, cioè immaginare. Basta leggere una poesia di Dylan Thomas, ad esempio, per capire di che cosa sto parlando.
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