E come ogni fine/inizio anno mi trovo a fare il bilancio dei film che ho gustato nei dodici mesi precedenti alla data di "giudizio". Ricco è stato l'anno trascorso di visioni che hanno ampliato la mia cultura e placato (almeno sempre e solo in parte) la mia sete di cinema. Vi propongo l'elenco de I MAGNIFICI SETTE.
Una perla registica e di sceneggiatura che regala sorrisi e angosce, riflessione e spensieratezza in un modo unico di cui solo Pasolini era capace. Una delle opere più poetiche del cinema italiano.
David Lynch imbastisce una pellicola complessa ma bella e coinvolgente. Parte da tre personaggi per poi incastrare di conseguenza tutti gli altri, intrecciandoli in una rete di avvenimenti e situazioni. Un racconto in rewind che trascina fin da subito, costellato di immagini inizialmente senza senso e di cui solo alcune, alla fine, avranno una spiegazione, a volte neanche troppo plausibile, ma va bene così.
L’esordio alla regia di Pasolini è stravolgente, talmente tanto che per chi come me si approccia alla sua filmografia in ordine cronologico partendo proprio da questa pellicola si chiede: possibile che oltre a questo si possa fare di meglio?
Re per una notte arriva dopo lo straordinario Toro Scatenato di cui riprende almeno la parabola umana di colui che al vertice un attimo prima, un attimo dopo finisce al tappeto, nel modo unico in cui solo il maestro Martin Scorsese riesce a farlo.
Il racconto dei Coen è il succo della società incivile, della normalità che accompagna i gesti di violenza anche senza uno scopo; è la disgregazione di un’epoca e quel suo scorrere lento, almeno per la prima parte della coinvolgente visione, è quasi un modo per frenare l’inarrestabile declino. Un film non perfetto, un film che non è bello quanto il capolavoro Fargo ma capace di descrivere ciò che deve nel modo in cui vuole.
Dopo L’imbalsamatore, Garrone torna a rappresentare la solitudine che ammala. L’egoismo egoico che eleva le proprie necessità al di sopra di ogni bene comune o altrui, ogni scelta fatta senza mai pensare all’altro ma esclusivamente e se stessi, in una forma di possessione malata che annichilisce. Vittorio è prima lui vittima, succube di una mente che non riesce a controllare, quasi mai al passo con quella di Sonia, legata al passato, a quella che le piaceva essere e che ha permesso che le scivolasse di dosso; ma il suo vittimismo si alterna con l’essere carnefice volontario e divertito, affamato della fame altrui.
Melancholia, questo pianeta blu della distruzione, altro non è se non la depressione, la malinconia che affligge gli uomini, in modo così netto e deciso che arriva a distruggere il pianeta in cui essi vivono, allontanandoli dalla zona di confort costruitasi e lasciandogli, a difesa, solo una capanna di rami e amore. Lars von Trier, ancona una volta, si fa provocante provocatore di un'opera ben costruita, capace di affligere d'angoscia come solo lui attraverso le sue opere è capace di fare.
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