Pochi titoli (quattro in realtà, che l'ultimo non andrebbe contato) e di non grandi ambizioni (che - attenzione - non è un pregiudizio sulla qualità, ma una constatazione sulla quantità). È il rabbocco che chiude l'offerta festiva, che si prepara a un weekend lungo e finale e, si spera, affollato nelle sale cinematografiche. Il meglio distribuito sarà l'horror M3GAN, con 371 schermi, mentre tutti gli altri - compreso il più blasonato del quartetto, ovvero Close, Grand prix della giuria a Cannes - stanno ampiamente sotto i 100 schermi.
Lukas Dhont è belga, ha 31 anni, ha girato due lungometraggi. Il primo ha vinto la Caméra d'Or come miglior opera prima a Cannes 72. Il secondo - ovvero questo - è andato oltre: inserito nel concorso principale, ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria. Un esordio davvero potente. E mentre il primo film, Girl, raccontava del coraggio e della fatica di una giovanissima ragazza trans decisa a diventare una ballerina, questo affronta la relazione prima idilliaca e poi tremendamente drammatica tra due amici simbiotici di tredici anni.
Non c'è più bisogno che le bambole - grandi protagonisti di un vera filone dell'horror - siano possedute o indemoniate. È arrivata la robotica e ad animarle è ora l'intelligenza artificiale. È il caso di M3GAN, il film di Gerard Johnstone, e della bambola che ne è protagonista: un prototipo, dalle meravigliose capacità di apprendimento e di interazione, che viene offerta dalla progettista alla nipote di cui è diventata tutrice. Con conseguenze inattese e inimmaginabili.
L'origine del male: sarebbe questa la traduzione letterale del titolo del terzo film di Sébastien Marnier, confezionato in armonia con i precedenti. E se al principio fu il Verbo, all'origine del male sta il suo contrario, la menzogna, che si insinua all'interno delle relazioni di una ricca famiglia dove una figlia illegittima, da sempre assente, decide di presentarsi per la prima volta.
Non è Mission il film del regista Hlynur Palmason, anzi ne è in un certo senso l'antitesi, la negazione. Qui come là c'è un uomo, un prete, che si addentra in una natura selvaggia - l'isola Islandese, allora possedimento danese - per portare il verbo divino. Ma c'è di mezzo una macchina fotografica - oltre a farsi portatore del Vangelo il prete ha infatti ambizioni documentaristiche - e invece di portare redenzione andrà incontro alla sua stessa corruzione.
Alla sua terza prova dopo Winter Brothers (2017) e A white, white day (2019), Palmason conferma la sua mano felicemente classica: il ritratto di un Islanda dura e ostile gli è valso il premio della SNCCI, che lo ha designato Film della Critica a Cannes 75.
A trent'anni da Io speriamo che me la cavo, il film di Lina Wetrmüller tratto dal libro omonimo del maestro elementare Marco Tullio Sperelli, il documentario di Giuseppe Marco Albano torna a verificare come davvero sia andata poi ai sogni e alle speranze dei giovani protagonisti di quel film, infilandosi nella vite di quei piccoli attori ormai cresciuti. Film in tour in poche sale, con la prima proiezione a Napoli.
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