Super-cafona, iper-etnica, poli-ginica e ultra-marxista: “Savage Beauty”, creata per Netflix South Africa da Lebogang Mogashoa, è una tamarrata sesquipedalica in 6 episodi da 45 minuti l’uno che si conclude con un cliffhanger (ad oggi la serie è ancora in attesa di un eventuale rinnovo).
Comunque un merito indiscutibile – oltre ad insegnare che un “click” xhosa può essere anche un insulto pesante, a sdoganare l’espressione “(selling your) pussy for peanuts” e a ricordar(ci) che il mondo è pieno di Ruby, mogli n. 3 – ce l’ha, “Savage Beauty”: ti lascia addosso un’insopprimibile voglia di correre a comprare una Jaguar.
Sì, poi si potrebbe ulteriormente argomentare che anche prodotti come questo servono a dimostrare che il razzismo è diventato un problema secondario in tutto il SudAfrica, dalla suburba di Johannesburg ai frangenti marosi di Cape Town, in quanto le persone sono tutte talmente uguali dal PdV epidermico (e non certo da quello economico) che anche i possessori di un alto livello di melanina possono essere ritratti come cattivi duri e puri senza rimedio alcuno, ma il vero punto è che – oltre a Dumisani Mbebe, Nthati Moshesh, Mpho Sebeng, Jesse Suntele, Oros Mampofu, Nambitha Ben-Mazwi, Angela Sithole e John Ncamane, poi – c’è, oh!, lei: Rosemary Zimu…
Con A.C. Abadie, Gilbert M. 'Broncho Billy' Anderson, George Barnes, Justus D. Barnes
Florilegio minimo di cinema sudafricano (che, dopo una prima espansione da metà anni '80, a partire dalla fine degli anni '90 e poi lungo tutto il corso degli anni zero ha espresso un crescendo continuo, giungendo sino ad un primo acme, prodromo alla "iper"-produzione odierna, nel 2009 con "District 9" di Neill Blomkamp).
"The Great Kimberley Diamond Robbery" ("Die Groot Diamantroof van Kimberley"), aka "The Star of the South" (1911), di R.C.E. Nissen.
Miriam Makeba (Johannesburg, 4 marzo 1932 – Castel Volturno, 9 novembre 2008).
In my native village, in Johannesburg There is a song that we always sing when a young girl gets married It's called The Click Song by the English Because they can't say Ngqothwane...
Con Monique Rockman, Carel Nel, Alex van Dyk, Anthony Oseyemi
Apostolo del contagio piuttosto che della cura, l’Uomo Finferlo, misticante luddista scatenato, va alla conquista del mondo ingabbiato, ovvero: quando sulle carni umane fruttificano arcimboldescamente gli ascocarpi.
L’Ophiocordyceps unilateralis è un fungo ascomicete che parassita principalmente le formiche del genere Camponotus, e in particolare la specie leonardi: una volta che le spore sono penetrate negli stigmi (le tubuliformi aperture - spiracoli tracheali - che collegano l’ambiente aereo esterno con la circolazione linfatica interna atta allo scambio ossigeno/anidride carbonica) dell’involontario e inconsapevole ospite iniziano a rilasciare degli enzimi che ne corrodono l’esoscheletro rendendolo terreno di coltura per le ife del micelio (apparato vegetativo fungino) che, crescendo all’interno del corpo dell’imenottero, dopo un paio di giorni ne prende il totale controllo a livello nervoso facendolo allontanare dalla colonia e indirizzandolo verso un luogo più umido adatto alla crescita e fruttificazione del micete obbligandolo ad ancorarsi sul posto serrando le mandibole s’una foglia o s’un picciolo e bloccandogliele permanentemente.
«Per conoscere il futuro dell’umanità osserva le scimmie in cattività: l’accumulo aggressivo di risorse limitate, l’imposizione gerarchica attraverso la violenza sessuale: l’habitat umano assomiglia sempre più a una gabbia.»
Monster Movie di alloctona (qui autoctona) disseminante invasione singola («the Thing»), virulenta (la saga di «Alien») e più gradualmente progressiva («Monsters»), IperOggetto & Zona del Cambiamento («Annihilation») – un Tempo del Sogno figlio del bush (arbusteto) australiano che qui si sposta dalle EverGlades (paludi salmastre) floridensi (ecozona neartico-subtropicale) alle foreste continentali (temperato-montane) sudafricane, sull’orlo sud della Grande Scarpata, affacciato sui due oceani, il Cape Fold Belt/Mountains –, Post-Apocalittico («the Survivalist»), qui declinato col prefisso «pre», Horror micorrizico («In the Earth») di parassitismo autoctono («the Bay», «November», «the Head Hunter», «the Beach House») e body invasion (qui alloctono e abduttivo: «HoneyMoon»), con ulteriori eterogenee assonanze quasi puramente figurative («AntiChrist», «Hagazussa», «MidSommar»), e meno dirette dal PdV contenutistico (dall’elaborazione del lutto per la perdita di un figlio da parte dei genitori a quella verso una moglie e madre, entrambe «streghe»), «Gaia», l’opera d’esordio nel lungometraggio cinematografico (dopo alcuni cortometraggi, episodi di serie e film tv, fra i quali l’immediatamente precedente «Rage») di Jaco Bower, scritta dal sodale Tertius Kapp e da loro prodotta col collaboratore Jorrie van der Walt, che firma (passando dal 4:3 al 16:9 e viceversa, a seconda del mood) anche la direzione della fotografia (mentre il montaggio è di Leon Visser e le ottime musiche sono di Pierre-Henri Wicomb: ed entrambi, assieme a parte del quartetto componente il cast ristretto in piena epoca d'espansione epidemica del SARS-CoV-2 – e mi riferisco in particolare alla brava, ma con qualche incertezza da condividere con la regìa sul set, Monique Rockman, e all’ottimo Carel Nel, reso Abramo dalla Dea Madre/Moglie, ché invece il giovane e - nonostante la conseguente isacchitudine del suo personaggio - promettente Alex van Dyk e il ben più navigato Anthony Oseyemi sono alla loro prima esperienza con la crew –, completano una squadra che lavora di concerto da tempo), girata in parchi, riserve e santuari forestali sudafricani, con una capatina a Cape Town, e parlata per la gran parte del tempo in afrikaans, è un horror di soft-sf sui generis che assembla/combina, racchiude e proviene da diverse fonti, e nel farlo perde un po’ di peculiarità, senza però pagare un prezzo troppo caro in fatto di usurante reiterazione di tematiche - veicolate attraverso atmosfere (effetti speciali prostetici di Clinton Smith e gradevole uso diegetico dei droni nel prologo) non ottusamente gore/splatter - legate alla fantascienza ambientalista.
Apostolo del contagio piuttosto che della cura, l’Uomo Finferlo, misticante luddista scatenato, va alla conquista del mondo ingabbiato, ovvero: quando sulle carni umane fruttificano arcimboldescamente gli ascocarpi.
"City Lovers" (1982), mediometraggio scritto e diretto da Barney Simon, tratto dall'omonimo racconto di Nadine Gordimer (1943-2014) pubblicato sul New Yorker del 13 ottobre 1975.
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