Velvet Goldmine
- Drammatico
- USA, Gran Bretagna
- durata 123'
Titolo originale Velvet Goldmine
Regia di Todd Haynes
Con Jonathan Rhys-Meyers, Ewan McGregor, Christian Bale, Toni Collette
“Pieces of Her” - là dove “pieces” sta per i qui senz’altro famigerati flashback utilizzati come una vera e propria side story ed “her” sta per la come sempre in ogni occasione magnifica Toni Collette -, il “thriller domestico” in 8 ep. da 40’-50’, col finale da 60’ (che sono davvero troppi: il prodotto non ha così tanto da dire, e avrebbe potuto dirlo molto meglio utilizzando la metà del tempo, anche se una cosa, però, è certa: guardare e ascoltare Toni Collette al lavoro vale la pena, sempre), creato e showrunnerizzato da Charlotte Stoudt (che proviene da HomeLand, House of Cards e Fosse/Verdon, che sono tutte serie, quali più, quali meno, “rigonfie”), e da lei scritto con altri 5 sceneggiatori traendolo dal recente (2018) romanzo omonimo di Karin Slaughter, ha dalla sua parte soprattutto l’appena - ma giammai troppo - citata prestazione attoriale di Toni Collette, e in seconda istanza tanto il fattore “singola regìa”, che vede posizionarsi dietro alla MdP - assieme al parimenti unico direttore della fotografia, Ole Birkeland (“Utopia”, “Tales from the Loop”) - la molto brava Minkie Spiro (Downton Abbey, Z: the Beginning of Everything, One Mississippi, Her and Now, Better Call Saul, Kidding, the Deuce, Barry, the Plot Against America e il prossimo “il Problema dei Tre Corpi” versione bianca/occidentale), quanto quello musicale, con la colonna sonora originale scritta dagli stakanovisti e qualitativamente parlando altrettant’ottimi Danny Bensi e Saunder Jurriaans (non mi ci metto neanche a stendere una loro filmografia, e ne valga uno per tutti: “Enemy”), con le song preesistenti che vanno da “Undercover of the Night” dei Rolling Stones a “Rapture” dei Blondie, passando per un recupero prezioso, vale a dire la “Marcy’s Song” di Jackson C. Frank (una vita ch’è l’epitome del tragico puro) nella cover version che John Hawkes canta live in “Marta Marcy May Marlene” di Sean Durkin.
Dal canto suo, la co-protagonista Bella Heathcote (“Dark Shadows”, “the Neon Demon”) ce la mette tutta, ed è anche molto brava, ma non basta: il suo personaggio, per com’è scritto, e non in quanto tale, nella sua essenza, rasenta troppo spesso la fastidiosità. Mentre è sempre un piacere ritrovare Joe Dempsie (“Skins”, “This Is England”, “Game of Thrones”), Terry O’Quinn (“Heaven’s Gate”, “Alias”, “West Wing”, “Lost”) e Gil Birmingham (“Hell or High Water”, “Wind River”, “YellowStone”). Chiudono il cast Jessica Barden, David Wenham e un’interessante Mia Artemis.
Rinviate le riprese nel 2020, nel 2021 i dintorni di Sidney nel Nuovo Galles del Sud australiano hanno sostituito la canadese Columbia Britannica nell’interpretazione della Louisiana.
“Pieces of Her” vuol far parte del consesso ristretto del cinema adulto, ma non ce la fa: abita il genere, lo commistiona col drama, ma collassa sotto al peso dellle sue stesse vaste intenzioni: spiace non darle la sufficienza, men che piena [**¾ - 5½], ma così è.
Avrei desiderato, o per lo meno voluto, aggiungere qualcos’altro in più riguardo a questa mini-serie che (“non”) termina con un “non”-cliffhanger, ma, come diceva quello a proposito di quell’altro: “Non mi viene in mente nulla.” (E no, non sto utilizzando la reductio ad hitlerum per un serial di fascia media di Netflix. O forse sì, ma ci sono altri problemi al mondo, eddai, ‘sù.)
Però questa è anche una playlist su Toni Collette, e quindi: eccola (ed ecco le altre).
Girlhood (cinema):
1. Linda Manz
2. Toni Collette
3. Noomi Rapace
4. Aubrey Plaza
5. Mia Goth
Titolo originale Velvet Goldmine
Regia di Todd Haynes
Con Jonathan Rhys-Meyers, Ewan McGregor, Christian Bale, Toni Collette
Titolo originale 8 1/2 Women
Regia di Peter Greenaway
Con John Standing, Toni Collette, Natacha Amal, Manna Fujiwara, Vivian Wu
Titolo originale The Sixth Sense
Regia di M. Night Shyamalan
Con Haley Joel Osment, Bruce Willis, Mischa Barton, Toni Collette, Olivia Williams
"Auch!"
(Non metto una finestra AV, ma solo un link diretto, per quelli che ancora non sanno chi è Keyser Söze, chi ha incastrato Roger Rabbit e chi ha paura di Virginia Woolf.)
Titolo originale The Hours
Regia di Stephen Daldry
Con Nicole Kidman, Julianne Moore, Meryl Streep, Allison Janney, Ed Harris, Claire Danes
Titolo originale In Her Shoes
Regia di Curtis Hanson
Con Cameron Diaz, Toni Collette, Shirley MacLaine, Anson Mount, Richard Burgi
Forse, tutto sommato, la sua intepretazione migliore.
Titolo originale United States of Tara
Con Diablo Cody, Toni Collette, John Corbett, Rosemarie DeWitt, Keir Gilchrist
Tag Commedia, Femminile, Psicanalisi, Famiglia, USA, Anni duemiladieci
Titolo originale Hereditary
Regia di Ari Aster
Con Toni Collette, Gabriel Byrne, Alex Wolff, Ann Dowd, Milly Shapiro
L'inarrestabile messa in abisso dell'inutile (ma dilettevole) in cui qualcuno perde la testa: il regista.
Con qualche rallentamento e molta suspense, il primo respiro di compensazione lo si tira dopo 40 minuti e due funerali. E da lì in poi la domanda è: dove si vuole andare a parare? Per com'è costruita l'azione…fino a quei dati punto e momento, e con quei dati a disposizione, tutto è tanto plausibile quanto accadibile, persino la razionalità. Poi, intorno all'ora, un uno-due: che spreco, se almeno… No, niente, nulla, così è.
E dunque: “the Exorcist”? “Rosemary's Baby”? “the Shining”? E ancora, dopo W.Friedkin, R.Polanski e S.Kubrick: Sam Raimi, un certo côté argentiano, M. Night Shyamalan (l'elemento "nascosto" sullo sfondo dell'inq.ra che poco a poco, sotto traccia, piano piano, si palesa costituente e attore principale dell'azione), e...sulla fiducia per il futuro...Robert Eggers? Certo che no: “Hereditary” è solo la miniatura di tal Cinema.
È l'interpunzione di un grimaldello/passepartout e la traslitterazione onomatopeica del suono Q della lingua Xhosa, "Glock", in seno a un discorso un po' più ampio: il genere horror.
Con i casualmente summenzionati esordi e opere seconde di David Robert Mitchell, Jennifer Kent e Robert Eggers, il primo lungometraggio dopo una serie di corti del regista e sceneggiatore Ari Aster ha a che spartire qualcosa: dalle stupidamente utilizzate in modo pretenziosamente e sfocatamente “disturbante” nudità (sostanza e contenuto veicolato attraverso la forma e lo stile) come nell'ingenuo e pretenzioso “It Follows”, all'insensatezza, declinata attraverso due prevalenti dispositivi differenti, dello spirito/sostanza/contenuto/significato, in “Babadook” (l'inaccettabilmente compromissoria e arrendevole morale finale), e della tecnica/forma/stile/significante, in “Hereditary” [l'inarrestabile messa in abisso dell'inutile (ma dilettevole), dalla quale invece Robert Eggers con “the Vvitch” si salva in pieno grazie alla riduzione all'osso dell'evidenza ostentata].
Ciò che invece salva il film dalla messa in abisso - fisica - è il suo essere - consapevolmente o meno, “non” importa - totalmente cazzoide/cazzone.
Toni Collette (anche prod. esec.), che forse ha mai avuto quell'exploit che davvero si sarebbe meritata [ovviamente, dato il tema: “the Sixth Sense”, e poi: “Velvet GoldMine”, “8½ Women”, “About a Boy”, “In Her Shoes” (la sua prova migliore), “Little Miss Sunshine”, “TowelHead”] e che da almeno più di un lustro (dopo la grande prova di “Unites States of Tara”) non ha avuto parti di rilievo, qui è di una bravura mostruosa (che riproporrà in "WanderLust"), tanto sottile quanto sbracata.
Gabriel Byrne (anche prod. esec.), la sempre brava Ann Dowd [carriera trentennale ("Olive Kitteridge"), e oramai iconica Aunt Lydia], l'esordiente Milly Shapiro e in parte il giovane Alex Wolff le tengono testa. Poi, qualcuno la perde (spoiler: il regista).
Fotografia di Pawel Pogorzelski, montaggio di Jennifer Lame (noahbaumbachiana d.o.c.g.) e Lucian Johnston, musiche del grande Colin Stetson che qui si diverte tanto a pigiare sul pedale dell'acceleratore quanto ad utilizzare sullo spartito l'evidenziatore giallo fluorescente.
Marchio A24 Films, una garanzia (ad oggi, ancora enormemente più nel bene che nel male: American Honey, the Ballad of Lefty Brown, the Bling Ring, the Disaster Artist, Enemy, Ex Machina, First Reformed, the Florida Project, A Ghost Story, Good Time, High Life, How to Talk to Girls at Parties, InTo the Forest, It Comes at Night, the Killing of a Sacred Deer, Krisha, Lady Bird, Lean On Pete, Life After Beth, the Lobster, Room, the Rover, the Sea of Trees, Spring Breakers, Swiss Army Man, Tusk, Under the Skin, Under the Silver Lake, the Vvitch, WoodShock).
Gli effetti digitali messi a ricreare uno sciame di mosche tipo vecchia pellicola puntinatamente rovinata sono...giustamente (?)...irritanti.
* * ¾ (***)
Titolo originale Wanderlust (2018)
Con Toni Collette, Steven Mackintosh, Zawe Ashton, Joe Hurst, Paul Kaye
Tag Drammatico, Coppia, Vita di coppia, Famiglia, Gran Bretagna, Anni duemiladieci
“WanderLust”, un'esplorazione del desiderio e un romantico Grand Tour sentimentale (un giringiro attorno Eros e Thanatos, due autentici, potenti psicofarmaci), non è una serie cicatrizzante, lenitiva. Però s'insedia insinuandosi sotto pelle e andando a titillare e grattare là dove la ferita - che si sta, più o meno, rimarginando - prude.
Flirting with Disaster (Amoreggiare col Disastro).
Scrivere la trama di un film o di una serie come di un romanzo mi sfianca, m'ammorba, m'ammazza. Ma grazie al Culo, l'energia che (s)muove il multiverso, vi sono gli alia sapien(te)s del wiki-mondo, e allora affidiamoci ad essi, no? Toh: “Una terapeuta cerca di salvare il suo matrimonio dopo un incidente in bicicletta che la induce a rivedere la relazione con suo marito.” E...no, come non detto. Lasciamo perdere i minus haben(te)s [ai mentecatti (quando sento/leggo “i films”* mi cascano le balls e fracasserei heads) all'ascolto: il latino (s. m.), così come l'inglese e tutte le lingue straniere (pl. f.) rispetto a quella del testo in essere, non deve essere pluralizzato, aka declinato al “dal >1 all'∞”] e vediamo di sudare un po', suvvia. Mumble-mumble... E quindi ecco allora che: “Una terapeuta cerca di salvare il suo matrimonio - che ha generato tre figli, due femmine e un maschio - dopo che il lungo stop forzato dall'attività sessuale coniugale (in verità iniziato, fuor d'ipocrisia, già molto prima dell'infortunio, ma qui inteso col beneplacito d'entrambi come catalizzatore e innesco concreto dei reali problemi pregressi) causato da un incidente in bicicletta la induce a rivedere, al principio, con l'insorgere della voglia di girovagare (WanderLust: forte desiderio o impulso a vagare) nella lussuria, dal punto di vista prettamente (ma non “meramente”) sessuale, e in séguito, su più larga scala, la relazione con suo marito.” Ri-ecco. È già un po' meglio. Per lo meno in attesa del 5° ep. nel quale altro rimosso verrà alla luce dopo essere balenato in lampanti bagliori fugaci ma indelebili attraverso brevi inserti di ritagli di montaggio innestati nel continuum (del) mainstream**.
* E dopo la gestalt liquida del wiki, il treccani***-zeitgeist: “Anni fa Renzo Arbore, rifacendo il verso a chi, per malinteso snobismo o per ingenua faciloneria, pronunciava films, bars, pullovers, sports, sibilava in modo strafottente quella innaturale (per la morfologia italiana) esse finale.”
** “La regia è da tv contemporanea, troppo elaborata e piena di canzoni indie.” - R.Manassero, filmtv.press (e improvvisamente l'angolo della mia biblioteca dedicato a Edgar Reitz s'è trasformato nella raccolta completa dell'annata 1992-'93 di TV Sorrisi e Canzoni).
*** E sì, anche tu andresti a cercare / le parole sicure per farti ascoltare:
per stupire mezz'ora basta un libro di storia, / io cercai di imparare la Treccani a memoria,
e dopo maiale, Majakowsky, malfatto, / continuarono gli altri fino a leggermi matto.
Due sedie poltronate vis-à-vis in vece dell'agrippinica cislonga: dopo Toni Collette (Joy Richards) da Sophie Okonedo (Angela Bowden), altri terapeuti terapeutizzati seriali: Lorraine Bracco (Jennifer Melfi) da Peter Bogdanovich (Elliot Kupferberg) in “the Sopranos”, Mads Mikkelsen (Hannibal Lecter) da Gillian Anderson (Bedelia Du Maurier) in “Hannibal” e Assi Dayan/Gabriel Byrne/Sergio Castellitto da Gila Almagor/Dianne Wiest/Licia Maglietta in “BeTipul / In Treatment / In Terapia”…
Interludi(c)o.
Lui, vedendola arrivare da lontano: «Oh, cazzo...»
Lei, avvicinadoglisi: «Per caso conosci “the Kraus Project”?»
Lui: «Sssì! Ehm... Lo conosco, sì. Ed è...forte!»
Lei: «In pratica è una raccolta di saggi.»
Lui: «Sì... Una sorta, sì. Franzen ha sgobbato parecchio per tradurre queste dense dissertazioni austriache di questo tizio chiamato Kraus, una specie di autore satirico dell'inizio del XX secolo...»
Coro Greco 1: «Sta succedendo davvero?»
Lei: «L'hai letto?»
Lui: «Quasi tutto, sì... Cioè... Voglio dire... Non la maggior parte, ma...quasi.»
Lei: «Ok. Grazie. »
E niente, da lì in poi le cose si son fatte un po' confuse perché sono venuto, ma poco dopo la serie ha ripreso a scorrere normalmente, perciò.
Lei se n'è andata. Lui sta ritornando dagli amici.
Coro Greco 2: «Cazzo che roba! Ho visto male io o quei due hanno flirtato?»
Coro Greco 3: «È stato sicuramente uno dei peggiori [“dullest”; NdT] flirt che abbia mai visto.»
Coro Greco 2: «Non c'è storia: lei ti vuole!»
Coro Greco 1: «Cosa?»
Coro Greco 2: «Ti manca solo di scoparla.»
[Ovviamente, a naso, la Vera Storia d'Amore sarà tra Lui e Coro Greco 3.]
Nothing's Gonna Hurt You, Baby (Non c'è niente che possa farti male, piccol-a/o).
Creata e scritta dal commediografo e sceneggiatore (suo è l'adattamento per il cinema di “the Sense of an Ending”, il piccolo capolavoro di Julian Barnes, poi messo in scena - coi volti di Jim Broadbent e Charlotte Rampling - non memorabilmente da Ritesh Batra) inglese Nick Payne, classe 1984 - e penso ad Alan Bennett, Ian McEwan (“SaturDay”), Yasmina Reza, Herman Koch, Phoebe Waller-Bridge -, attivo sugli assiti da una dozzina d'anni e qui alla sua prima prova col mezzo televisivo, coadiuvato splendidamente dai due registi Luke Snellin (ep. 1-3) e Lucy Tcherniak (ep. 4-6), dalla fotografia di Ben Wheeler, dal montaggio di Gary Dollner e Johnny Rayner, dalle musiche originali elettro-minimali di Peter Broderick (che si manifestano prepotenti nel devastante, epifanico, calibratissimo 5° ep., un lungo assolo a due fra Toni Collette e Sophie Okonedo) e da quelle non orginali - per un totale di (fino a metà ci sono arrivato da solo, oltre la metà mi ci ha accompagnato TuneFind) una sessantina di pezzi - di Cigarettes After Sex (“Nothing's Gonna Hurt You Baby”), Joan as Police Woman, Elbow, This Mortal Coil (la splendida, lynchana, inflazionatissima “Song to the Siren” di Tim Buckley e Larry Beckett: ma...con che coraggio?), Chuck Berry, Otis Redding, Nick Cave & the Bad Seeds, Weyes Blood (“Everybody's Talkin'” di Fred Neil), Michael Nau, Vetiver, Ron Gallo, Bill Withers, La Femme, Eurythmics (“Here Comes the Rain Again”: Annie Lennox by Toni Collette), Aldous (Hannah) Harding, She Keeps Bees, Sandy Denny, This Is the Kit, Temples, Warren G, Jamie Woon, BadBadNotGood, Curtis Harding, Maggie Rogers, Joe Goddard, MarthaGunn, Rhye, Alice Boman, Andy ClockWise, Agnes Obel, Chapelier Fou, the Acorn, Loyle Carner, Jelani Blackman, Benjamin Clementine, Jeremy Warmsley, Nick Mulvey, Khruangbin, Trentemøller, the Dead Weather, Ulyimate Painting, INXS, Department of Eagles, Wet Wet Wet, East 17, Spice Girls, Stormzy, etc..., “WanderLust”, prodotta da Drama Republic per BBC e NetFlix, è un proditto adulto, pensato, sensato: siamo dalle parti di Big Love, the Big C, FleaBag, One Mississippi...
Greg Gonzalez, Joan Wasser, Elizabeth Fraser, Guy Garvey, Nick, Chuck, Otis...? Sì, certo! Ma anche Ron!
Toni Collette (“the Sixth Sense”, “Velvet GoldMine”, “8½ Women”, “About a Boy”, “In Her Shoes”, “Little Miss Sunshine”, “TowelHead”, “Hereditary”), dopo la grande prova di “United States of Tara”, si prende di nuovo tutto il tempo (6 ep. da 55'-60' l'uno) e lo spazio (pp.p. insistiti a riempire il quadro) necessari per delineare, dipingere, interpretare, impersonare un carattere reso profondo e tridimensionale da questa full immersion di realismo psicologico e impersonificazione creativa.
Al suo fianco, un fantastico (e a me quasi semi-sconosciuto fino ad ora) Steven Mackintosh, coniuge, Celeste Dring, Emma D'Arcy e Joe Hurst (bravissimi), figli, una magnifica Zawe Ashton e un ottimo Thoros of Myr, pardon, Paul Kaye, amanti, Isis Hainsworth, compagna di scuola, e Sophie Okonedo, in fiammeggiante sottrazione, la controparte. E ancora, a chiudere: Royce Pierreson, Kate O'Flynn, William Ash, Anastasia Hille, Jeremy Swift...
- “La cosa più strana era... La cosa più strana, probabilmente, era...la quantità di gente che...prima, ah!, non avevo mai incontrato!, che mi diceva quanto avesse amato mia mamma... Mi dicevano quanto per loro fosse stata meravigliosa... Era gente che aveva lavorato con lei, o con cui andava a ballare...”
- “Perché era strano?”
Il brufoloso punto nero della situazione: se BBC One trasmette l'ottimerrima “WanderLust” Rai 1 caca fuori emetiche scemenze come "i Bastardi di PizzoFalcone" e "Braccialetti Rossi" e inutili innocue bazzecole derivat(iv)e quali "Tutto Può Succedere" e "Tutti Pazzi per Amore".
“WanderLust” (dal mittel-hoch-deutsch di “wandern”, esplorare, e “lust”, desiderio), un romantico Grand Tour sentimentale (un giringiro attorno Eros e Thanatos - due autentici, potenti psicofarmaci -, cos'altro, se no?), non è una serie cicatrizzante, lenitiva. Però s'insedia insinuandosi sotto pelle e andando a titillare e grattare là dove la ferita - che si sta, più o meno, rimarginando - prude.
(***¾) * * * * (¼)
Titolo originale Velvet Buzzsaw
Regia di Dan Gilroy
Con Jake Gyllenhaal, Billy Magnussen, Toni Collette, John Malkovich, Natalia Dyer
“Il giudizio andrebbe giudicato” (aka: “Chi controlla i controllori?”), ovvero: “All the Dease in L.A.” (con prologo a Miami).
“Velvet BuzzSaw” - a mezza via tra “le Vacanze Intelligenti” di Alberto Sordi (in “Dove Vai in Vacanza?”, 1978) e “the Square” (2018) di Ruben Östlund - non è un horror, non è un grottesco, non è un arty. Insomma: non-è? Beh, no. È-icchia...
“Something truly god damn strange is going on here!”
Lo sceneggiatore (FreeJack, Chasers, the Fall, Real Steel, Kong: Skull Island) e regista di propri script (il mesto “NightCrawler”, quella che rimane ad oggi la sua opera migliore, “Roman J. Israel, Esq.”, e questo “Velvet BuzzSaw”) Dan Gilroy, fratello minore di Tony [sceneggiatore per altri registi (Dolores Claiborne, the Bourne Identity / Supremacy / Ultimatum, State of Play, Rogue One, the Great Wall) e regista di proprie sceneggiature (Michael Clayton, Duplicity e, scritto col fratello, the Bourne Legacy)] e gemello di John, montatore (per i due fratelli, come qui, e Pacific Rom, Suicide Squad, Rogue One), alla sua opera terza, complice il carta bianca di Netflix, svacca allegramente.
“Tutta l'arte è pericolosa.” [Tutta la critica è pericolante e pen(s)osa.]
Nel vasto campo delle Opere d'Arte Maledette (con derivazioni fantastiche o no), senza scomodare il backovic-carpenteriano “la Fin Absolue du Monde”, in ambito recente si pensi a “Ostatnia Rodzina” (the Last Family) di Jan P. Matuszynski su Zdzislaw Beksinski. Ma ciò che si avvicina più al film di Dan Gilroy, non per tono ma per tematiche, è senz'altro il buon “Duma Key” di Stephen King.
“La critica è così riduttiva ed estenuante.”
Jake Gyllenhaal (Donnie Darko, Brokeback Mountain, Jarhead, Zodiac, Brothers), la cui carriera recente è quanto di più eterogeneo si possa immaginare [il dittico villeneuvesco (“Enemy” e “Prisoners”) e l'esordio dietro alla MdP di Dan Gilroy (“NightCrawler”), il blockbuster puro (il sequel - Far from Home - dell'ennesimo reboot - HomeComing - relativo a SpiderMan ad opera di Jon Watts all'interno del Marvel Cinematic Universe officiante l'inizio della “Fase Quattro”), il mainstream più (“End of Watch” di D.Ayer, “Southpaw” di A.Fuqua, “Everest” di B.Kormakur) o meno (“Source Code” di Duncan Jones - in cui compare il Cloud Gate di Anish Kapoor -, “Demolition” di J.-M.Vallée, “Life” di D.Espinosa, “Stronger” di David Gordon Green) muscoloso, il cinema più (“the Sisters Brothers” d J.Audiard) o meno (“Nocturnal Animals” di Tom Ford) d'autore, l'indie/sundance (“WildLife” di Paul Dano) e lo sperimentalismo grottesco/iperreale by Netflix (“Okja” di Bong Joon-ho, e, ma solo in parte, questo “Velvet BuzzSaw”)], con questa performance appena sfornata non raggiunge le inusitate vette del Johnny Depp di “Mortdecai” e “Tusk”/”Yoga Hosers”, ma insomma...
“Noi non vendiamo beni duraturi, noi vendiamo percezioni. Fragili come bolle di sapone.”
Completano il cast, tra i resisi defunti la Rhodora di Rene Russo (moglie dell'autore; “Get Shorty”, “NightCrawler”), punita dal titolante tatuato ricordo simbolo di quand'er'ancora un'artista, la Gretchen di Toni Collette (“the Sixth Sense”, “About a Boy”, “In Her Shoes”, “United states of Tara”, “Hereditary”, “WanderLust”) e la Josephina di Zawe Ashton (“WanderLust”), e tra i sopravviventi la Coco di Natalia Dyer (“Stranger Things”) - che si salva perché artista non lo è mai stata - e il Piers di John Malkovich (Being…), che si salva perché per il momento, artista, lo sta ancora ridiventando, immerso nel processo creativo (dopo aver pittato uno dei quadri più brutti mai visti dai tempi di Mutandari e Staccolanana), pur se (es)temporaneo, tra Pollock, Miró e (resi sinuosi) Mondrian in versione mandala monocromi ed Ennio Doris autografi.
“Scrivere di musica è come ballare di architettura.”
Personaggio ed opera d'arte a sé stante: la magnifica fotografia di Robert Elswit [oltre ai due fratelli Gilroy, tutto P.T.Anderson, e “Good Night, and Good Luck” e “Suburbicon” (G.Clooney), “Syriana” e “Gold” (S.Gaghan), “the Burning Plain” (G.Arriaga), “the Men Who Stare at Goats” (G.Heslov), “the Town” (B.Affleck), “the Night Of” (R.Price, S.Zaillian, J.Marsh, P.Moffat)].
Ottimi trucchi scenici artigianali [à la “Confessions of a Dangerous Mind”: il paragone m'è sorto immediato, e poi scopro che, toh, lo scenografo è lo stesso, il veterano (due Spielberg - “E.T.” e “Always” -, tutto Clooney e il prossimo “1906” di Brad Bird) James D. Bissel], coadiuvati dal digitale.
Musiche di Marco Beltrami e Buck Sanders. Le opere di Dease sono create - dipinte su tela e cartoncino - da Saxton Brice.
Nel film compaiono reali pitture, installazioni e fotografie di Lucian Freud, Jeff Koons, Andy Warhol, Andreas Gursky...
“A bad review is better than...”. No review.
Titolo originale Unbelievable
Con Susannah Grant, Lisa Cholodenko, Toni Collette, Merritt Wever, Annaleigh Ashford
Tag Poliziesco, Femminile, Casi giudiziari, Stupro, USA, Anni duemila
True Detective.
Creata [con due scrittori: Michael Chabon (“i Misteri di Pittsburgh”, “Wonder Boys”, “le Fantastiche Avventure di Kavalier e Clay” e “il Sindacato dei Poliziotti Yiddish”) e Ayelet Waldman], scritta (i primi tre episodi - il pilot con i due co-creatori, che sceneggiano in coppia anche il 4° - e gli ultimi due, mentre i restanti sono redatti da Jennifer Schuur, il 5°, e Becky Mode, il 6°) e diretta [gli ultimi due episodi, mentre i primi tre sono girati da Lisa Cholodenko (“Laurel Canyon”, “the Kids Are All Right”, “Homicide”, “Six Feet Under”, “the L Word”, “Olive Kitteridge”) e il 4°, il 5° e il 6° da Michael Dinner (“Justified”)] da Susannah Grant (autrice - dopo essersi fatta le ossa con “Party of Five” - degli script di “Erin Brokovich” - e si vede, e si sente, e si percepisce, e si tocca - e “In Her Shoes”, oltre che della rom-com “Catch and Release”, di cui è anche regista) per CBS/Netflix.
“Sono in affido da che avevo tre anni. Ho visto assistenti sociali, educatori, agenti di affido. Dicevano di volermi aiutare. Ma non ho bisogno di aiuto. Ho bisogno che smettano di accadermi cose brutte. […] Lo so, dovrei rispondere che, se tornassi indietro, non mentirei. Ma la verità è che... mentirei prima... e meglio.”
Verso la fine del terzo episodio, il detective Grace Rasmussen del dipartimento di polizia di Westminster, Colorado (Toni Collette: “Muriel's Wedding”, “Velvet GoldMine”, 8½ Women”, “the Sixth Sense”, “About a Boy”, “the Hours”, “In Her Shoes”, “Little Miss SunShine”, “the Dead Girl”, “TowelHead”, “United States of Tara”, “Hereditary”, “WanderLust”, “Velvet Buzzsaw”), entrata in scena alla fine del secondo, colpisce scherzosamente/amichevolmente il detective Karen Duvall del dipartimento di polizia di Golden, Colorado (Merritt Wever: “Studio 60 on the SunSet Strip”, “Nurse Jackie”, “Greenberg”, “Tiny Furniture”, “BirdMan”, “MeadowLand”, “GodLess”, “Charlie Says”, “Marriage Story”) con un fascicolo relativo al loro caso: faccia buffa, sorride scherzosa: se prima la serie mi piaceva, e pure un sacco, ora la adoro, con tutta la sporta.
C'è poi, poco prima della fine del settimo e penultimo episodio, un altro gesto, quello che Duvall fa con la bocca, arricciando le labbra in un verso ch'è tutto men che un sorriso, ed emettendo un suono con la gola, mentre sullo schermo del computer – e, per pochi frame, anche su quello del televisore sul quale lo spettatore assiste al film – passano clic dopo clic del mouse manovrato da Rasmussen le foto-trofeo delle vittime dello stupratore seriale: “Hm...”, dice. Ovvero: “Eh già”, oppure “Questa è dura”, o ancora: “Prosegui pure”.
Poco dopo, entrambe avvicinano il capo allo schermo: sta per iniziare Marie Adler (Kaitlyn Dever) vs. the City:
- “Sai che succede quando decidi di non accontentarti?”
- “Cosa?”
- “Ottieni di più.”
Senza scomodare “the Wire” e “True Detective”, ad esempio “City on a Hill”, “MindHunter”, “the Bridge”, “BroadChurch” e, pur sui generis, “Mr. Mercedes” sono signore serie.
Ma “UnBelievable” è unbelievable.
Se non ci sono parole per Toni Collette, ce ne sono ancora meno per Merritt Wever.
Per Kaitlyn Dever (“Justified”, “Last Man Standing”, “Detroit”, “BookSmart”) ce n'è una: bra-va.
E poi: Dale Dickey (una collega di Grace), Kai Lennox (il marito di Grace), Austin Hébert (il marito di Karen), Elizabeth Marvell (una madre affidataria di Marie), Bridget Everett e Brent Sexton (una coppia affidataria di Marie), Eric Lange e Bill Fagerbakke (i due detective che seguirono e archiviarono il caso di Marie), Scott Lawrence (un agente F.B.I.), Blake Ellis e Aaron “Ken 'Mad Men' Cosgrove” Staton (i fratelli McCarthy), Danielle MacDonald (Amber), Jayne Taini (Doris), Treisa Gary (Evelyn), Charlie McDermott (Ty), Brooke Smith (la terapista Dara), etc...
“UnBelievable” è la storia di un'indagine (non è uno show di "denuncia", ma che racconta un dato di fatto acquisito - ovvero la violenza sulle donne da parte dei maschi, delle istituzioni e di altre donne -, e come tale lo tratta, "dandolo per scontato" - il che è solo un bene, per tutti - e riconoscendo che i tempi sono maturi per farlo), ed è la storia di un risarcimento. E la morale è che ogni indagine dovrebbe - e potrebbe - essere, almeno in minima parte, un (tentativo di) risarcimento.
* * * * (¼) ½
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Bibliografia (SPOILER).
“An UnBelievable Story of Rape”, articolo premio Pulitzer di T. Christian Miller (ProPublica) e Ken Armstrong (the Marshall Project) pubblicato il 16 Dicembre 2015.
- https://www.propublica.org/article/false-rape-accusations-an-unbelievable-story
- https://www.themarshallproject.org/2015/12/16/an-unbelievable-story-of-rape
“Anatomy of Doubt”, podcast a cura di Ira Glass per This American Life pubblicato il 26 Febbraio 2016.
- Versione Audio: https://www.thisamericanlife.org/581/anatomy-of-doubt
- Trascrizione: https://www.thisamericanlife.org/581/transcript
Riassunto: https://www.letteradonna.it/it/articoli/fatti/2019/09/13/unbelievable-netflix-storia-vera/28958/
Titolo originale Knives Out
Regia di Rian Johnson
Con Daniel Craig, Jamie Lee Curtis, Chris Evans, Michael Shannon, Toni Collette
“Cluedo? Are you back again already?”
Fuori i coltelli, affilate le lame, sguainate le spade, e due ore e dieci, compresi i Rolling Stones ad accompagnarci verso e sui titoli di coda, scorrono implacabili con perdonabili/accettabili ed ovvie/obbligate forzature.
“Dad said the plots just popped into his head fully formed. It was the easy part for him.”
(“Papà diceva che le trame semplicemente gli venivano in mente già completamente formate. Per lui quella era la parte facile.”)
Certo, assonanze col christiesco “Murder by Death” di Robert Moore da Neil Simon con Truman Capote e la citazione letterale diegetica di “Murder, She Wrote” (e aggiungiamoci pure i dintorni di Baker Street e un po' di Columbo), ma il film che moralmente più mi tornava alla mente durante e dopo aver assistito a “Knives Out”, la quinta opera cinematografica (“Brick”, “the Brothers Bloom”, “Looper”, “Star Wars - VIII: the Last Jedi”), oltre a tre episodi di “Breaking Bad” (“Fly”, “Fifty-One”, “Ozymandias”), di Rian Johnson (che scrive, come sempre, e co-produce), è “8 Femmes” di François Ozon da Robert Thomas (in versione addolcita).
“Physical evidence can tell a clear story with a forked tongue.”
(“Le prove tangibili possono raccontare una storia chiara e limpida con una lingua biforcuta.”)
I convitati alla festa di compleanno ch'è una veglia funebre ch'è un'indagine per omicidio: Daniel Craig, Christopher Plummer, Ana De Armas, Chris Evans, Jamie Lee Curtis, Michael Shannon, Don Johnson, Toni Collette, Lakeith Stanfield, Katherine Langford, Jaeden Martell, Frank Oz, Riki Lindhome, Edi Patterson, K Callan, Noah Segan, M. Emmet Walsh, Marlene Forte...
Fotografia: Steve Yedlin. Montaggio: Bob Ducsay. Musiche: Nathan Johnson. Scenografie: David Crank. Costumi: Jenny Eagan. Casting: Mary Vernieu. Produzione: MRC (Baby Driver, CounterPart, Ozark, the OutSider) e T-Street (Rian Johnson e Ram Bergman: investiti 40 mln $ ricavandone 300). Distribuzione: LionsGate.
Tried to hitch a ride to San Francisco / Thank you for your wine, California / Feel I'm goin' back to Massachusetts...
Un probabile trono per Chef Tony me lo immagino proprio così.
Got to scrape that shit right off your shoes / But I want you to come on, come on down Sweet Virginia...
Escapando de la Crítica, 1874, Pere Borrell del Caso.
Riposti i coltelli, smussate le lame, rinfoderate le spade, rimaniamo in attesa delle nuove avventure di Benoît Blanc, anche se non ci dispiacerebbe seguire anche e soprattutto quelle di Marta Cabrera.
“Cluedo? Are you back again already?”
* * * ¾
Titolo originale I'm Thinking of Ending Things
Regia di Charlie Kaufman
Con Jesse Plemons, Jessie Buckley, Toni Collette, David Thewlis, Jason Ralph, Colby Minifie
Alle larve!
Un film diretto (e, d’accordo, sì, anche sceneggiato, ci mancherebbe altro) da (un iper-ur-post) Charlie Kaufman traendolo - però senza tradirlo - da un - rintocchino le campane, squillino le trombe - soggetto non suo, ma comunque pervaso da una sui(ni)tà ben riconoscibile?
Dopo la pausa lustrale post-“Anomalisa” l’autore di “Synecdoche, New York” esce con un uno-due da paura: scrive un romanzo (“AntKind”) e gira un film, questo, il suo terzo anche da regista, producendoli anche - immagino e spero - col ricavato preventivatamente preinvestito generato dalla collaborazione alla stesura dello script di “Chaos Walking” di Doug Liman.
Mentre il bidello (coming home, “Good Will Hunting” & personale A.T.A., coming home, “Scrubs” e inserviente: ma sei già, a casa, vero? Sei sempre stato, il custode, qui...), autoassolvendosi, idealizza (i)l’ (s)oggetto del (tentativo) di stupro commesso/sventato, e oramai tutte le AnomaLucy scindendosi ed evolvendo in un’epifanica apoteosi del narratore inconsapevole [che viene - thomasbernhardescamente - (in)esistito] collassano su loro stesse, disapparite, ecco che nel pre-finale Jesse Plemons diventa una via di mezzo fra il James Dean di “Giant” e il Caden Cotard di “Synecdoche, New York” (e Philip Seymour Hoffman fu suo padre in “the Master” di Paul Thomas Anderson - com’è notizia di questi giorni che il prossimo film di PTA avrà come protagonista il figlio di PSH, Cooper -, un film tanto parimenti complesso - e danzante - quanto del tutto divergente da questo: pervaso di ricerca e di bisogno virulentemente messi in atto, attraversando pervicacemente ed ottusamente lo spazio, e non abbandonato al flusso del tempo, che ad ogni modo tutto, alla “fine”, divora, a prescindere dalle scelte intraprese).
“Ogni cosa vuole vivere. I virus sono solo l’ennesimo esempio. Persino le pessime idee cinematografiche vogliono vivere.”
Ed ecco una cosa (molto poco) divertente che non farò, mai, più: ri-assistere ad “I'm Thinking of Ending Things”. Volutamente, pervicacemente, ottusamente pedissequo al romanzo d’esordio di Iain Reid (in cui viene anche scherzosamente citato Carl Gustav Jung, mentre qui si manda a quel paese Sigmund Freud)
– e la cosa è rimarcata evidente dalle molte citazioni [IAToET sono un romanzo e soprattutto un film architettati su citazioni, richiami e riferimenti (significante) spropositatamente eccedenti che ne modellano, denotano e connotano la struttura (senso) esprimendo ulteriore significato letterale e metaforico] letterali extra-letterarie (cioè non già contenute nel testo di partenza) inserite per l’occasione ribadendo il concetto, l’atto, il pensiero, non ultima il brano “fatto (sempre per interposta persona, quella che manovra i fili delle proprie marionette) suo” dalla co-protagonista tratto dalla a proprio modo celebre stroncatura che Paulina Kael fece all’epoca dell’uscita di “A Woman Under Influence” di John Cassavetes (“Mabel cerca di tagliarsi le vene dei polsi. Nick mette un cerotto sulla ferita. Il simbolismo ti fa venire voglia di urlare. Ma questo film di 2 ore e 35 minuti ti fa penare, da tanto ti stordisce. I dettagli, che dovrebbero definire la natura patologica dei personaggi che circondano Mabel e mostrare il suo isolamento diventano invece fiacchi e falsi. Sono i personaggi a essere inconsapevoli o è Cassavetes a non sapere ciò che fa?”), cui ne seguono altri due più brevi tratti l’uno dal già citato parafrasandolo all’inizio di questo capoverso David Foster Wallace e l’altro da “la Società dello Spettacolo” di Guy Debord ed enricoghezziana memoria [DFW, GD e, per proprietà transitoria, PSH... È forse un fuori tempo massimo invito al suicidio rivolto a Paulina («“2001: a Space Odyssey”? Trash masquerading as art!») Kael (e due terzi di film altro non sono che un susseguirsi in lunga ed estesa teoria di stanze kubrickiane - ulteriore esempio recente: il finale di “the Sisters Brothers” di Jacques Audiard - oltre lo spazio-tempo al termine di un’odissea personale che ognuno chiama vita: e ritornano gl’ingranaggi dietro alle quinte che muovono le pareti a orologeria di film cerebro-cardiaci quali “Being John Malkovich”, “Confessions of a Dangerous Mind” ed “Eternal SunShine of the SpotLess Mind”), come se il Parkinson non avesse già agito all’epoca?] –,
ma capace di inscenare un finale “cotardiano” (e contro-capgrasiano: sono tutti morti, al Liceo OverLook, ma riportati in vita dal… pensiero, come surrogati di… azioni), evocato - dopo tutta questa inscheletrita, emaciata, rattrappita e a suo modo confortante e confortevole oscurità - in un abbagliante mattino ch’è un nevaio d’acciaio post-tutto, il terzo film da regista e il suo ottavo (e mezzo, via!) da sceneggiatore (ma, per l’appunto, non soggettista) è… quasi un capolavoro. Quasi senza quasi. Transitoriamente. Straziante.
E da questo PdV vale quanto già scritto in parte per l'opera letteraria di partenza: inverare un personaggio tra(d)endolo da un ricordo ch'è il rimpianto di un futuro mancato, e poi rivoltarlo contro sé stessi, dando corpo al pensiero, e facendolo agire, in un gesto di catartica e violenta espiazione.
[Cape Cod Evening - Edward Hopper - 1939; Christina's World - Andrew Wyeth - 1948; qualcosa accade fuori campo, semi-osservata; osserviamo osservare, inosservati, qualcosa, in campo, che forse non c'è; Lucy ci guarda guardarla, e si vede.]
Sono entrato in “I’m Thinking of Ending Things” per mezzo del romanzo di Iain Reid, prima, e attraverso l’infinito scrollarsi di dosso l’acqua dal pelo che il cane (redivivo - se così si può dire... - per il cinema, ma trapassato da tempo nel romanzo) effettua in loop reiterato ed insistito nel bellissimo ed inquietante trailer con Jesse Plemons in surplace/understatement (ma fa sempre paura, automaticamente, naturalmente, come in “Breaking Bad” ed ancor più in “El Camino”), David Thewlis e Toni Collette completamente svitati (uno appena uscito da “Fargo - 3”, l’altra ancora ben addentro al mood ariasteroso) e Jessie - ché sì, con Charlie Kaufman la vita collide/collima sempre col cinema (avete appena letto un piccolo spoiler, ma non l’avete capito, né compreso, nemmeno adesso che ve l’ho spiegato) - Buckley (“Beast”, “Taboo”, “Chernobyl” e la prossima, anch’essa imminente, 4ª stag. di “Fargo”) carinissima, dopo. E ne sono uscito abbastanza disfatto ad audiovisione ultimata. Sono altrettanto certo che la citazione dal Soccombente di Thomas Bernhard presente nel libro nel film non c’è. Davvero, una cosa molto bella che non farò, mai, più.
A proposito di Jessie Buckley: lodevole e rimarcabile il suo lavoro sull’inflessione e il tono della voce, con gli accenti che cambiano molte volte durante l’opera, almeno tante quanti sono i molti nomi con cui viene chiamata e definita (mentre nel romanzo rimane anonima innominata narratrice - come qui - (in)affidabile): molte professioni, stati civili e classi sociali: pittrice, ricercatrice, cameriera, studentessa…
Fotografia in 4:3, con minuscole e gratificanti invenzioni visive, di Lukasz Zal (“Iva”, “Loving Vincent”, “Cold War”, “Dovlatov”). Montaggio particolarmente lineare ed intuitivo e per nient’e nulla didascalico di Robert Frazen, già con Kaufman per Synecdoche. Musiche di Jay Wadley.
A proposito di musiche, Kaufman riesce a disinnescare le ricorrenti (per lo meno in IuEsEi) e stancanti e financo sfiancanti brutto-stagional annuali ed annose metodiche polemiche metooiche pro & contro cancel-culture (un bignami di florilegio: da Medium a Decider) che s’apprestano a ripresentarsi ad ogni scoccar di equinozio d’autunno e principiar di solstizio d’inverno – qui declinate tirando in ballo la evergreen (popular winter holiday-adjacent song) “Baby It’s Cold OutSide” di Frank Loesser del 1944 – trasformandole, con giusto qualche linea di dialogo, nel meme di loro stesse. Tipo come se Nanni Moretti inscenasse un pistolotto autoimmun(izzant)e su “Te la Ricordi Lella” di Edoardo De Angelis.
Produce Likely Story, distribuisce Netflix.
“Ogni cosa deve morire. È questa la verità. Ci piace pensare che ci sia sempre speranza, che si possa sopravvivere alla morte. Pensare che le cose miglioreranno è una fantasia unicamente umana, nata forse dalla consapevolezza unicamente umana che non lo faranno. Impossibile esserne certi. Ma sospetto che gli esseri umani siano gli unici animali consapevoli della loro inevitabile morte. Gli altri animali vivono nel presente. Gli umani non possono, quindi hanno inventato la speranza.”
In coda al pezzo sul romanzo di Iain Reid auspicavo che Charlie Kaufman potesse/riuscisse/volesse mettere in atto una sorta d’innesto atto a implicare in qualche modo un lieto fine alla tristezza cosmica che pervade e trasuda dalla pagina scritta, e in un certo senso è stato così: dall’horror (la vita intesa come un film di Robert Zemeckis: paura, eh?) si (tra)passa al musical (dagli esplicitati Rodgers e Hammerstein di "Oklahoma!" e dintorni al temporaneo e fittizio ritorno dalla morte di Bert Cooper in "Mad Men"), ma la paura, il terrore, l’annichilimento universali - dall'Autoinganno alla Consapevolezza, senza ritorno - rimangono gli stessi, medesimi, inamovibili: un oceano entropico che inghiotte la pioggia così come il tempo fissa, smuove, lacera le vite.
“You return home, moon-landed, foreign.” - Da “BoneDog” di Eva H.D. (poesia attualmente inedita), autrice di “ROttEN Perfect Mouth”, che Lucy sfoglia in casa dei genitori di Jack.
Quella ch’è una solarizzazione si trasforma in un terso cielo indaco che ingoia tutto il passato. Ecco, esiste solo il presente. E, per un po’, persiste. Continua ad esistere, insistentemente. Cinguettano persino gli uccelli stanziali, anche s’è pieno inverno. Perché splende il Sole. E siamo rimasti solo noi (mi sembra d’intravedere Polanski e Lynch, Resnais e Tarkovskij, Buñuel e Bergman, laggiù), alla fine della storia, mentre gli alberi spogli si stormiscono transitivamente di dosso un po’ di neve dai rami. Loro stanno fermi, e il tempo li attraversa e scrolla. Come tutti quei fotoni riflessi da tutto quel fresco e bianco manto immacolato, cristallizzato. Un fottuto specchio di neve. Così morto, che potrà tornare a vivere, dopo esser fioccato, solo sciogliendosi. Brulicando...
...cercami sull'altalena / dondolati con me...
...cercami nell'aldilà, dentro gl'inganni altrui, e dentro i miei...
...non ho più sangue da darti: potrò mai perdonarti per avere rubato i miei anni?
Being Charlie Kaufman.
* * * * (¼) ½
Titolo originale Stowaway
Regia di Joe Penna
Con Toni Collette, Anna Kendrick, Daniel Dae Kim, Shamier Anderson
Le fredde equazioni.
“StowAway” (Clandestino), l’opera seconda di Joe Penna dopo l’esordio di “Arctic” (entrambe scritte con Ryan Morrison), del quale in pratica è una specie di riedizione 2.0 che sposta il survival movie dal freddo polare a quello spaziale in direzione Marte, con SpaceX/Tesla (& NASA/JPL) sostituiti dai soli capitali privati della H.A.R.P. (Hyperion Academy Research Program), è una ghiotta occasione persa: al contrario di quanto accade per “the MidNight Sky” il difetto insormontabile del film con la sempre apprezzabile Toni Collette (Velvet Goldmine, the Sixth Sense, In Her Shoes, United States of Tara, Wanderlust, Hereditary, Unbelievable, Knives Out, I'm Thinking of Ending Things), la seconda buona prova di séguito (è un record), dopo “the Day Shall Come”, per Anna Kendrick, e Daniel Dae Kim (“Lost”) e Shamier Anderson (“Wynonna Earp”) a chiudere il cast, non è la caterva di implausibilità scientifiche (presenti, ma in maniera nettamente meno invasiva e ben più adatta ad innescare la sospensione dell’incredulità, e ben compensate al contrario da una verosimiglianza tecnologica piuttosto ben inscenata e utilizzata, specialmente nei primi dieci minuti, con la partenza dalla superficie terrestre, l’aggancio alla stazione spaziale in orbita e la separazione dei due moduli principali ruotanti s’un centro comune con l’insorgere conseguente della forza centrifuga atta a ridare il giusto peso a persone e cose), ma il mero fatto che un sano e serio b-movie duro e puro non dovrebbe, di norma e al netto delle eccezioni motivate, superare i 90’ compresi i titoli di coda, mentre qui invece si raggiungono praticamente le due ore, incerte se dedicarsi con più efficacia al lato umanistico o a quello scientifico, e inoltre ciò avviene anche per (de)merito del, anzi proprio in gran parte grazie al, climax (troppo) prolungato della scena madre posta a 4/5, là dove quel magnifico passo del XXXIV canto dell’Inferno della Commedia dantesca...
(...quand’io mi volsi, tu passasti ’l punto...
...al qual si traggon d’ogne parte i pesi…)
...trova esplicitazione meccano-fisica nella scalata e poi nella discesa lungo l’asse del cavo che bilancia la rotazione di astronave e vettore creando una giusta dose di gravità artificiale, e questo è ciò che accade: la tensione insostenibile della scena, protratta sino allo sfinente spasimo, nelle intenzioni a guisa d’iperrealismo, del quasi “live & direct”, col tempo dell’azione filmica che pur non coincidendo con quello del “reale rappresentato” gli si avvicina molto, trova la propria controparte/nemesi nel fatto che lo spettatore nel corso del film si è sì potuto affezionare ai personaggi, entrando in empatia con essi, ma non così tanto, ed ecco che si ritrova perciò come i protagonisti alle cui avventure sta assistendo: al contempo ammaliato e allontanato dai due poli attrattivi/respingenti: l’immedesimazione emotiva risulta ovattata e l’action non produce una sufficientemente costante tensione [peraltro appesantita dalla coincidenza forzata del classico, inevitabile, scontato e (in)tempestivo brillamento eruttivo solare con espulsione di materiale carico ad alta energia dalla corona: confrontare l’utilizzo che se ne fa, con ben altri esiti, nella seconda stagione di “For All Mankind” per credere], contestualizzando il tutto ai vari differenti livelli produttivi, né dal PdV documentaristico (“2001: a Space Odyssey”) né da quello prettamente coreografico (“Gravity”).
- Non mi abituerò mai a quanto sia sottile il poco materiale che ci divide dal vuoto dello spazio.
- Eh sì, lo so. Quando hanno iniziato a lavorare per aggiungere un terzo passeggero, per compensare il peso hanno ridotto di quasi la metà il modulo funzionale e hanno rimosso uno strato protettivo di schermatura.
- Ehi, non è d’aiuto, potevi risparmiartelo.
- È solo un dato di fatto.
- Non è una cosa utile da dire!
- È solo un dato di fatto!
La fotografia di Klemens Becker, il montaggio di Ryan Morrison e le musiche di Hauschka, alias di Volker Bertelmann (ed il loro utilizzo), non fanno la differenza, ma gli effetti speciali teutonici (i set sono quelli tedeschi di Colonia e Monaco) supervisionati da Jacob Balicki un poco sì.
Premesso che c’è ben di molto peggio, spiace, perché davvero poteva essere (con un quarto d’ora in meno, od altrimenti occupato) ben altro (si considerino piccoli gioiellini quali "Europa Report" e "Prospect"). Comunque godibile.
* * * ¼ - 6½
Postilla.
Il concetto contenutisticamente “rivoluzionario” [che dalla ingenua naïveté dell’Età dell’Oro - periodo che, ovviamente, ha sfornato altresì caposaldi e capolavori solidi e concreti - ha spostato di un passo la SF verso l’Età (compiutamente) Adulta] alla base di “The Cold Equations” (“Le Fredde Equazioni”), il racconto breve di Tom Godwin (1915-1980) pubblicato nel 1954 su “Astounding Magazine” che ha evidentemente ispirato la storia narrata sulla lunga distanza da “StowAway”, era già stato traslato cinematograficamente alcune volte nel corso del tempo (una puntata del radiodramma antologico statunitense degli anni 50, “X Minus One”, un episodio della serie televisiva britannica degli anni 60, “Out of This World”, un episodio di una delle riedizioni di “the Twilight Zone”, quella degli anni 80, e due lungometraggi, uno televisivo di metà anni 90 e uno cinematografico d’inizio anni 10) , e il buon pen-ultimo (è del 2014) cortometraggio (al quale potete assistere qui sotto dalla pagina YouTube dedicatagli dalla fantastica DUST) del thailandese Rpin Suwannath (assistente alla regia, direttore di seconde unità e addetto alla pre-visualizzazione degli effetti speciali, dalla saga degli X-Men a quella del MonsterVerse), che porta lo stesso titolo del film di Joe Penna, lo mette in scena pedissequamente (il modo migliore) con secca grazia minimale. Se le due ore da dedicare al film Netflix vi sembrano troppe perché dovete riservarle all’ultima mattonata di, che ne so, Vadim Perelman, trovate una dozzina di minuti per guardare il corto. (Per un qualsiasi sano amante della SF invece, va da sé, non v’è alcun bisogno d’incentivarne la fruizione.)
Titolo originale Nightmare Alley
Regia di Guillermo Del Toro
Con Bradley Cooper, Cate Blanchett, Rooney Mara, Toni Collette, Willem Dafoe, Ron Perlman
Titolo originale Someone to Watch Over Me
Regia di Ridley Scott
Con Tom Berenger, Mimi Rogers, Lorraine Bracco, Jerry Orbach, John Rubinstein
Titolo originale A History of Violence
Regia di David Cronenberg
Con Viggo Mortensen, Maria Bello, Ed Harris, William Hurt, Ashton Holmes, Peter MacNeill
Titolo originale The Mosquito Coast
Con Justin Theroux, Melissa George, Logan Polish, John J. Concado, Kimberly Elise
Tag Avventura, Storia corale, Esplorazione, Famiglia, Sud America
Titolo originale In From the Cold
Con Margarita Levieva, Cillian O'Sullivan, Lydia Fleming, Charles Brice, Alyona Khmelnitskaya
Tag Thriller, Femminile, Spie, Crimini, Varie, Anni duemilaventi
Titolo originale Martha Marcy May Marlene
Regia di Sean Durkin
Con Elizabeth Olsen, Sarah Paulson, John Hawkes, Hugh Dancy, Brady Corbet
Titolo originale Pieces of Her
Con Charlotte Stoudt, Toni Collette, Bella Heathcote, Jessica Barden, Joe Dempsie
Tag Drammatico, Duo, Famiglia, Crimini, USA, Anni duemilaventi
Titolo originale Muriel's Wedding
Regia di P.J. Hogan
Con Toni Collette, Bill Hunter, Rachel Griffiths, Jeanie Drynan
Titolo originale Clockwatchers
Regia di Jill Sprecher
Con Toni Collette, Parker Posey, Lisa Kudrow, Alanna Ubach
Titolo originale About a Boy
Regia di Paul Weitz, Chris Weitz
Con Hugh Grant, Nicholas Hoult, Rachel Weisz, Toni Collette, Victoria Smurfit, Sharon Small
Titolo originale Japanese Story
Regia di Sue Brooks
Con Toni Collette, Gotaro Tsunashima, Matthew Dyktynski, Lynette Curran, Yumiko Tanaka
Titolo originale Cosi
Regia di Mark Joffe
Con Ben Mendelsohn, Barry Otto, Toni Collette, Rachel Griffiths, Colin Friels
Titolo originale Dinner with Friends
Regia di Norman Jewison
Con Dennis Quaid, Andie MacDowell, Greg Kinnear, Toni Collette
Titolo originale Connie and Carla
Regia di Michael Lembeck
Con Nia Vardalos, Toni Collette, David Duchovny, Stephen Spinella, Robert Kaiser
Titolo originale The Dead Girl
Regia di Karen Moncrieff
Con Toni Collette, Rose Byrne, Mary Steenburgen, Mary Beth Hurt, Marcia Gay Harden
Titolo originale Little Miss Sunshine
Regia di Jonathan Dayton, Valerie Faris
Con Greg Kinnear, Toni Collette, Paul Dano, Abigail Breslin, Alan Arkin, Steve Carell
Titolo originale Towelhead
Regia di Alan Ball
Con Summer Bishil, Aaron Eckhart, Peter Macdissi, Toni Collette, Maria Bello
Titolo originale The Black Balloon
Regia di Elissa Down
Con Rhys Wakefield, Luke Ford, Toni Collette, Erik Thomson, Gemma Ward, Lloyd Allison-Young
Titolo originale Jesus Henry Christ
Regia di Dennis Lee
Con Toni Collette, Michael Sheen, Jason Spevack, Samantha Weinstein, Frank Moore
Titolo originale Mental
Regia di P.J. Hogan
Con Toni Collette, Liev Schreiber, Anthony LaPaglia, Rebecca Gibney, Kerry Fox
Titolo originale Hitchcock
Regia di Sacha Gervasi
Con Anthony Hopkins, Helen Mirren, Scarlett Johansson, Jessica Biel, James D'Arcy
Titolo originale Lucky Them
Regia di Megan Griffiths
Con Toni Collette, Ryan Eggold, Oliver Platt, Nina Arianda, Thomas Haden Church
Titolo originale Enough Said
Regia di Nicole Holofcener
Con Julia Louis-Dreyfus, James Gandolfini, Catherine Keener, Toni Collette, Ben Falcone
Titolo originale Glassland
Regia di Gerard Barrett
Con Toni Collette, Jack Reynor, Will Poulter, Michael Smiley, Gary Ó'Nualláin, Shashi Rami
Titolo originale A Long Way Down
Regia di Pascal Chaumeil
Con Pierce Brosnan, Imogen Poots, Aaron Paul, Toni Collette, Sam Neill, Rosamund Pike
Titolo originale Miss You Already
Regia di Catherine Hardwicke
Con Drew Barrymore, Toni Collette, Charlotte Hope, Dominic Cooper, Jacqueline Bisset
Titolo originale Imperium
Regia di Daniel Ragussis
Con Daniel Radcliffe, Toni Collette, Burn Gorman, Nestor Carbonell, Seth Numrich
Titolo originale Madame
Regia di Amanda Sthers
Con Rossy De Palma, Toni Collette, Harvey Keitel, Michael Smiley, Brendan Patricks
Titolo originale Jasper Jones
Regia di Rachel Perkins
Con Levi Miller, Hugo Weaving, Toni Collette, Aaron L. McGrath, Matt Nable, Myles Pollard
Titolo originale Please Stand By
Regia di Ben Lewin
Con Dakota Fanning, Toni Collette, Alice Eve, River Alexander, Marla Gibbs, Jessica Rothe
Titolo originale The Yellow Birds
Regia di Alexandre Moors
Con Jennifer Aniston, Jack Huston, Alden Ehrenreich, Toni Collette, Tye Sheridan
Titolo originale Birthmarked
Regia di Emanuel Hoss-Desmarais
Con Matthew Goode, Toni Collette, Fionnula Flanagan, Michael Smiley, Andreas Apergis
Titolo originale Hearts Beat Loud
Regia di Brett Haley
Con Nick Offerman, Kiersey Clemons, Ted Danson, Toni Collette, Sasha Lane, Blythe Danner
Titolo originale Andorra
Regia di Fred Schepisi
Con Clive Owen, Toni Collette, Gillian Anderson, Vanessa Redgrave, Joanna Lumley
Titolo originale Dream Horse
Regia di Euros Lyn
Con Toni Collette, Damian Lewis, Joanna Page, Sian Phillips, Lynda Baron, Peter Davison
Titolo originale The Staircase (2022)
Con Antonio Campos, Colin Firth, Sophie Turner, Michael Stuhlbarg, Dane DeHaan
Tag Giallo, Storia corale, Crimini, Storia americana, USA, Anni duemila
Titolo originale The Estate
Regia di Dean Craig
Con Toni Collette, Anna Faris, Kathleen Turner, David Duchovny, Rosemarie DeWitt
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