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Un umile, indegno e pleonastico omaggio a Martin Scorsese
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Alvy

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Un umile, indegno e pleonastico omaggio a Martin Scorsese

Mi mette in soggezione parlare di Martin Scorsese. È uno dei registi più amati e venerati al mondo, noto anche ai non cinefili. I suoi film sono stati visti, ri-visti e vivisezionati da generazioni di spettatori, critici, analisti. La sua arte ha influenzato in maniera indelebile la storia della settima arte e molti registi contemporanei semplicemente non esisterebbero senza di lui. Successi commerciali interamente derivativi dai suoi capolavori ancora oggi scuotono il pubblico, ivi incluso quello generalista.

Che utilità ci può essere nel parlare di un regista arcinoto? Non sarebbe meglio dedicare il proprio tempo e le proprie righe a progetti obiettivamente più utili? Non sarebbe meglio parlare di giganti della regia oggi dimenticati come Leo McCarey, George Cukor, Andrzej Wajda, Anthony Mann, Blake Edwards o John Sturges? Perché sprecare righe per l’ennesimo elogio sperticato (e come potrebbe essere altrimenti?) a colui che ha ridefinito un intero genere con una sola manciata di titoli ad esso afferenti? Perché continuare a parlare di uno che non ha mai smesso di essere sulla bocca di tutti? Perché insistere a parlarne? È già stato detto tutto e si continua a dirlo, basta, mettiamoci un punto, pensiamo ad altro, dedichiamoci ad altro, ci sono tanti registi del passato e del presente grandi quanto lui a cui pochissimi dedicano il proprio amore cinefilo.

Il motivo che mi ha fatto vincere questa perplessità iniziale è molto semplice.

Se ami il cinema, ami Martin Scorsese

Se non ami Martin Scorsese, non ami il cinema

E, quando ami qualcuno o qualcosa, non puoi fare a meno di parlarne, riparlarne e ri-riparlarne. Ad libitum direbbe qualcuno, ad nauseam obietterebbe sardonicamente qualcun altro. È come tornare alla fontana della vergine di bergmaniana memoria, all’origine di questa insana passione che si chiama cinefilia. Tutto ciò che tutti noi abbiamo amato e amiamo del cinema, lo abbiamo trovato e continuiamo a ritrovarlo – ogni volta, ad ogni revisione, in maniera sempre identica alla prima indimenticabile esperienza – nell’arte di un raffinato cinefilo italoamericano nato nel 1942 che voleva farsi prete e che finì per diventare uno dei Re indiscussi del cinema occidentale e mondiale

Piccola precisazione: questo umile, indegno e pleonastico omaggio a Martin Scorsese non conterrà analisi della sua intensa attività documentaria

Buona lettura

Playlist film

Chi sta bussando alla mia porta?

  • Drammatico
  • USA
  • durata 90'

Titolo originale Who's That Knocking at My Door?

Regia di Martin Scorsese

Con Harvey Keitel, Zina Bethune, Anne Collette, Lennard Kuras, Michael Scala

Chi sta bussando alla mia porta?

In streaming su Amazon Video

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«This movie is as good as Citizen Kane». Parola di John Cassavetes. Prenderlo alla lettera è sicuramente troppa grazia ma il primo lungometraggio scritto e diretto da Scorsese è un’attestazione certificata di un talento emergente. Il film, dalla travagliata gestazione produttiva che occupò gli anni 1965-1967, durante i quali il promettente regista si dedicò anche a corti (cui vale la pena richiamare alla memoria il leggendario The Big Shave) e documentari, è grezzo ed embrionale. Infatti, ambisce ad essere uno spaccato della gioventù newyorkese di fine ’60 ma finisce per disperdere un certo indiscutibile fascino di fondo in un’impostazione stilistica e tematica acerba, abbozzata, velleitaria, poco caratterizzata. Tuttavia, Scorsese riesce a fondere, in maniera interessante ed originale, commedia, dramma, documentario ed erotico – quest’ultimo genere, peraltro, imposto dal produttore Joseph Weill per meglio vendere la pellicola e che costrinse Scorsese a girare appositamente una scena di sesso. Il valore di tale esordio è quasi esclusivamente ex post: segna, infatti, non solo l’inizio del leggendario sodalizio tra Scorsese e la montatrice Thelma Schoonmaker, che proseguirà col leggendario documentario Woodstock (1970) e che diventerà fisso solo a partire da Raging Bull (1980), ma anche l’esordio sul grande schermo di Harvey Keitel nella parte del protagonista J.R.

A modo suo indimenticabile la scena in cui J.R. corteggia la ragazza (Zina Bethune) parlandole di The Searchers.

Voto: 5

Rilevanza: 2. Per te? No

America 1929. Sterminateli senza pietà

  • Drammatico
  • USA
  • durata 97'

Titolo originale Boxcar Bertha

Regia di Martin Scorsese

Con David Carradine, Barbara Hershey, Barry Primus, John Carradine, Bernie Casey

America 1929. Sterminateli senza pietà

In streaming su Amazon Video

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Roger Corman, noto per l’abilità di produrre film a basso budget di grande successo commerciale e di scoprire giovani talenti, dà ad un sempre più emergente Scorsese la possibilità di dirigere il suo primo film simil-hollywoodiano, con un buon cast (Barbara Hershey, John e David Carradine, Bernie Casey tra gli altri) e partendo da una sceneggiatura ben collaudata dei coniugi Joyce Hooper Corrington e John Corrington. Il risultato è ottimo, al di là di ogni più rosea aspettativa: un ritratto crudo e disincantato di una generazione il cui desiderio di cambiamento, in piena Grande Depressione, sembri innescare un’irredimibile spirale di (auto)distruzione e morte. La frenesia della macchina da presa è, in qualche maniera, emblematica di questa spinta centrifuga che finisce per cannibalizzare ogni cosa: amori, amicizie, ideali. Malinconia e disillusione si fondono magistralmente ad una struttura narrativa da blaxpoitation classica. Sul set, Scorsese diede alla Hershey una copia del romanzo Ο Τελευταίος Πειρασμός (1951) di Nikos Kazantzakis, di cui aspirava a fare un adattamento per il grande schermo che si sarebbe concretizzato solo sedici anni dopo. Ancora oggi molto godibile, venne stroncato da John Cassavetes: «Marty, you’ve just spent a whole year of your life making a piece of shit. It’s a good picture, but you’re better than the people who make this kind of movie. Don’t get hooked into the exploitation market, just try and do something different». Ciò indusse Scorsese a declinare l’offerta di Corman di realizzare un’altra pellicola della medesima risma e a fare qualcosa di più simile a Who’s that knocking at my door

Voto: 8

Rilevanza: 2. Per te? No

Mean Streets

  • Drammatico
  • USA
  • durata 110'

Titolo originale Mean Streets

Regia di Martin Scorsese

Con Robert De Niro, Harvey Keitel, Amy Robinson, David Proval, Richard Romanus

Mean Streets

In streaming su Google Play Movies

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The night we met I knew I needed you so / And if I had the chance I'd never let you go / So won't you say you love me / I'll make you so proud of me / We'll make 'em turn their heads every place we go / So won't you, please, be my, be my baby / Be my little baby, my one and only baby/ Say you'll be my darlin', be my, be my baby / Be my baby now, my one and only baby / Wha oh oh oh /Sono sufficienti i primi tre minuti di Mean Streets per poter ragionevolmente essere certi di star ammirando un capolavoro, uno di quei film generazionali che segnano un prima e un dopo. Scorsese dimostra di essere cresciuto e di avere una padronanza pressoché totale del mezzo: in ossequio alla regola d’oro della narrazione cinematografica show, don’t tell, qui mostra, suggerisce, fa entrare sottopelle una sensazione di violenza che non esplode mai in maniera ruvida e plateale come in Boxcar Bertha ma che sappiamo essere lì, nel sottobosco di una comunità di italoamericani - descritta con uno sguardo straordinariamente documentaristico – dove lo Stato (e qualsiasi forma di devozione ad esso) è assente e dove proliferano capi, capetti e gangs. L’unico modo per sperare di andare avanti è scegliere da che parte stare, nella consapevolezza che la morte possa fare capolino in qualsiasi istante. Harvey Keitel è ai suoi massimi livelli ma Robert De Niro, presentato a Scorsese dall’amico Brian De Palma che a sua volta gli era stato presentato da John Cassavetes, ruba letteralmente la scena, dando vita ad uno dei sodalizi artistici più importanti della storia del cinema. Gli influssi di Godard nell’uso della macchina a mano sono evidenti e sono gestiti con clamorosa maestria tecnica. Acclamato dalla critica ai festival di Cannes e New York e distribuito dalla Warner Bros. (che permise a Scorsese di evitare di dare quel tocco blaxpoitation che Roger Corman esigeva per distribuire il film), finisce per incassare 3 milioni di dollari che avrebbero potuto essere molti di più se lo stratosferico successo di The Exorcist, A Clockwork Orange e Deliverance (tutti e tre distribuiti da Warner Br.) non avessero cannibalizzato i botteghini

Voto: 10

Rilevanza: 1. Per te? No

Alice non abita più qui

  • Drammatico
  • USA
  • durata 107'

Titolo originale Alice Doesn't Live Here Anymore

Regia di Martin Scorsese

Con Ellen Burstyn, Kris Kristofferson, Harvey Keitel, Alfred Lutter, Diane Ladd

Alice non abita più qui

In streaming su Amazon Video

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Uno dei ritratti femminili più belli di sempre. È tutto qui, in estrema sintesi, questo road movie di bellezza lancinante scritto da Robert Getchell (che tornerà alla ribalta solo vent’anni dopo con The Firm di Sidney Pollack) e prodotto dalla Warner Bros. al dichiarato scopo di sfruttare le doti attoriali e mediatiche (il summenzionato successo di The Exorcist) di Ellen Burstyn in seguito al ‘gran rifiuto’ di Shirley MacLaine. Scorsese sapientemente adotta una regia asciutta e minimale, coerente alla vita umile ma estremamente integerrima di Alice e di suo figlio pestifero Tommy (Alfred Lutter), in cui ex abrupto fanno capolino frenetiche irruzioni di violenza e di disillusione. Harvey Keitel si conferma straordinario, Kris Kristofferson è perfetto nella sua ambiguità, ma è Ellen Burstyn il cuore pulsante della pellicola: malinconica ma non vinta, sopraffatta ma non disperata, volitiva ma coi piedi per terra, indipendente ma con un figlio da crescere, innamorata ma spaventata di scottarsi nuovamente. Un film che, col suo finale irrisolto amato/odiato da intere generazioni di femministe, ha detto della Donna Americana (e tout court occidentale) in 112 minuti più di quanto non abbiano fatto esimi filosofi e sociologi in interi trattati.

Voto: 9

Rilevanza: 1. Per te? No

Taxi Driver

  • Drammatico
  • USA
  • durata 110'

Titolo originale Taxi Driver

Regia di Martin Scorsese

Con Robert De Niro, Cybill Shepherd, Harvey Keitel, Jodie Foster, Peter Boyle, Albert Brooks

Taxi Driver

In streaming su Amazon Prime Video

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Paul Schrader, in un periodo di forte depressione, firma una delle dieci sceneggiature cinematografiche più belle di tutti i tempi: l’esistenzialismo sartriano si sposa perfettamente alla sindrome da stress post-traumatico di un reduce del Vietnam che si fa tassista godendo di precedenti alla guida clean, real clean, like my conscience. Un ritratto magistrale del mancato reinserimento in società di un cittadino che ha risposto alla chiamata alle armi del proprio Stato e che da quello stesso Stato verrà poi abbandonato ed emarginato dopo gli orrori di una guerra sanguinosa, sbagliata e, per giunta, persa. Un ritratto lugubre di una New York City alla cui sporcizia urbana (It's full of filth and scum) fa rima una sporcizia morale, sociale, politica che non risparmia nessuno: squali della politica ed ingenui pieni di ideali, papponi e prostitute, giovani e vecchi. Scorsese firma una delle migliori regie di tutti i tempi (magistrale la citazione delle bollicine a Oliver! di Carol Reed) che raggiunge l’apice espressivo nella scena della telefonata di Travis a Betsy in seguito al litigio emblematico davanti al cinema a luci rosse: la mdp lentamente si allontana dal telefono pubblico a cui Travis è attaccato per inquadrare un corridoio desolato e vuoto mentre gli spettatori ascoltano il prosieguo della telefonata. Quasi a voler allontanarsi (pudicamente? rassegnatamente?) da quello spettacolo pietoso, da quella conversazione inutile, da quel rapporto incrinato. Come la New York City – e come gli Stati Uniti tutti – del post-Vietnam. Straordinaria la colonna sonora di Bernard Herrmann che passò a miglior vita dopo aver ultimato la soundtrack del film. La sconfitta agli Oscar per mano dell’oggettivamente inferiore Rocky è meno sbalorditiva di quanto ex post possa apparire: erano anni in cui il successo commerciale ricopriva una certa importanza nel tributare i premi accademici e Rocky (distribuito dalla United Artists) aveva incassato la cifra monstre di 225 milioni di dollari, a dispetto dei 28.4 milioni incassati da Taxi Driver (distribuito dalla Columbia Pictures) che, peraltro, era considerato un film da festival (con tanto di meritatissima vittoria della Palma d’Oro a Cannes) di scarso appeal commerciale

Voto: 10

Rilevanza: 2. Per te? No

New York, New York

  • Musicale
  • USA
  • durata 136'

Titolo originale New York, New York

Regia di Martin Scorsese

Con Robert De Niro, Liza Minnelli, Lionel Stander, Georgie Auld

New York, New York

Il primo storico insuccesso commerciale di Scorsese è un chiaro esempio di lucida riflessione sul concetto di dissonanza. Alla dissonanza ragionata tra forma (puro stile musical da Hollywood Classica) e contenuto (New Hollywood da tutti i pori) fa rima una storia d’amore tra due artisti esacerbata dall’ambizione e dagli esiti lavorativi perpetuamente dissonanti tra loro. Impossibile non farsi ammaliare da tale esperimento, forse troppo sperimentale per un’epoca che lo bollò come oggetto non identificato. Ottimo affiatamento tra De Niro (da antologia l’incipit del corteggiamento alla festa) e una dolente Liza Minnelli, coreografie ben realizzate ma non esaltanti, e una malinconia di fondo ben centrata ma forse ricercata in maniera troppo programmatica. Durata spropositata e numerose slabbrature ne minano l’organicità ma resta un prodotto di tutto rispetto. In seguito al fallimento al box-office, Scorsese precipitò nel vortice della depressione e della dipendenza dalle droghe

Voto: 7

Rilevanza: 1. Per te? No

Toro scatenato

  • Drammatico
  • USA
  • durata 128'

Titolo originale Raging Bull

Regia di Martin Scorsese

Con Robert De Niro, Joe Pesci, Cathy Moriarty, Frank Vincent, Nicholas Colasanto

Toro scatenato

In streaming su Amazon Prime Video

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Uno dei più grandi film sportivi di tutti i tempi in un B/N (firmato Michael Chapman) straordinario che richiama alla memoria un altro grande capolavoro sulla boxe, Rocco e i suoi fratelli, la cui fotografia – anch’essa in B/N – firmata Giovanni Rotunno ha sempre esercitato su Scorsese un grande fascino estetico. Una magistrale parabola di ascesa e caduta, scritta da Paul Schrader e Mardik Martin con alcune rielaborazioni di Scorsese e De Niro, in cui il ring della boxe assume una dimensione non solo meramente sportiva ma anche esistenziale di gabbia mentale, metafora di un temperamento caratteriale – quello del protagonista Jake LaMotta - vulcanico, autolesionistico e rigido come una mietitrebbiatrice. De Niro si consegna alla leggenda con una delle performances attoriali più importanti della settima arte, restituendo, con realismo scioccante (ingrassò 25 chili appositamente per la parte finale del LaMotta ormai bolso), il ritratto amaro di un boxeur privo di qualsiasi amor proprio, tanto nella vittoria quanto nella sconfitta, tanto professionalmente quanto umanamente. La regia – complice lo stato di salute problematico di Scorsese a causa del fallimento di New York, New York e della conseguente dipendenza dalle droghe per la cui disintossicazione l’apporto umano di De Niro si rivelò fraterno e salvifico - riesce a forgiare un’atmosfera magniloquente (di straordinaria magnitudo emozionale) da speranza di redenzione puntualmente disattesa. L’apporto di Thelma Schoonmaker al montaggio è decisivo e raggiunge l’apice nel perfetto ritmo impresso all’ultimo scontro LaMotta-Sugar Ray Robinson, direttamente ripreso dalla leggendaria scena della doccia di Psycho. Joe Pesci è una rivelazione e l’affiatamento con De Niro è notevole. Costato 18 milioni e distribuito dalla United Artists, ne incasserà solo 23.4 milioni. La sconfitta, agli Oscar, per mano dell’inferiore Ordinary People di Robert Redford, resterà alla storia come una delle più gravi sviste della storia dell’Academy.

Voto: 10

Rilevanza: 2. Per te? No

Re per una notte

  • Grottesco
  • USA
  • durata 110'

Titolo originale The King of Comedy

Regia di Martin Scorsese

Con Robert De Niro, Jerry Lewis, Diahnne Abbott, Tony Randall

Re per una notte

In streaming su Plex

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«Taxi Driver. Travis. Rupert. The isolated person. Is Rupert more violent than Travis? Maybe». Le parole a posteriori di Scorsese suggellano un’intima connessione, peraltro già rilevata da numerosi analisti, tra il dramma metropolitano del 1976 e questa commedia nera la cui sceneggiatura di Paul D. Zimmerman era stata acquistata da De Niro anni prima ed era particolarmente ambita ad Hollywood. Scorsese originariamente sentiva il progetto lontano dalle proprie corde (alla fine degli anni Settanta era riuscito ad acquistare i diritti di Ο Τελευταίος Πειρασμός di Nikos Kazantzakis che sognava di trasporre in immagini da tempo, ed aveva affidato a Paul Schrader il compito di stendere una sceneggiatura), Michael Cimino dovette rinunciarci a causa della fluviale post-produzione di Heaven’s Gate e Bob Fosse preferì dedicarsi ad un progetto più personale, ovvero il suo ultimo Star 80. Lo stato di salute di Scorsese, gravato dallo stress lavorativo degli ultimi cinque anni e dalla dipendenza delle droghe dal cui tunnel stava lentamente uscendo, contribuì a procrastinare l’inizio del progetto. Ciò consentì a De Niro una meticolosa preparazione: da icona idolatrata dai fan, rovesciò i ruoli ed iniziò a pedinare i suoi accesi sostenitori, seguendoli continuamente e cercando di capire perché fossero così ossessionati da lui. Ciò, unitamente ad uno studio preciso di esordienti stand-up comedians, gli consentì di comprendere meglio tanto i meccanismi del divismo mediatico visto dall’altra parte della barricata quanto l’ambizione di tanti giovani e meno giovani di trovare la propria strada nello show-business. Il risultato è straordinario: una commedia (De Niro desiderava ardentemente cimentarsi in questo genere) cupa, amara, pessimista che fa della spontanea – quasi sovversiva - empatia spettatoriale col protagonista Rupert Pupkin il perno nodale di una violenta critica al tessuto urbano statunitense e al mito del divismo. In tal senso, la presenza di un ottimo Jerry Lewis si rivela la ciliegina sulla torta. Acclamato dalla critica, ignorato dal pubblico (appena 2.5 milioni di dollari di incasso a fronte di 19 milioni di budget), conoscerà una graduale riscoperta nei decenni successivi fino al totale amore cinefilo raggiunto post-Joker (2019), cinefumetto di Todd Philips interamente derivativo da tale capolavoro scorsesiano.

Voto: 10

Rilevanza: 1. Per te? No

Fuori orario

  • Commedia
  • USA
  • durata 96'

Titolo originale After Hours

Regia di Martin Scorsese

Con Griffin Dunne, Rosanna Arquette, Linda Fiorentino, Verna Bloom, Tommy Chong, Teri Garr

Fuori orario

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Deluso dai tre fallimenti consecutivi al botteghino di New York, New York, Raging Bull e The King of Comedy ed affranto dalla messa in stato di ‘turnaround’ del progetto The Last Temptation of Christ (che avrebbe previsto nel cast Aidan Quinn, Sting, Ray Davies e Vanity) a causa della decisione della Paramount di chiamarsene fuori per motivi sia economici (14 milioni di budget e location in Israele) sia mediatici (proteste di gruppi religiosi), Scorsese, dopo la definitiva cancellazione del progetto nel dicembre 1983, si mette in contatto con la casa di produzione indipendente Double Play Productions di Amy Robinson e Griffin Dunne, detentrice della sceneggiatura Lies scritta dallo studente ventiseienne di cinematografia Joseph Minion. Il progetto, originariamente destinato a Tim Burton - ben lieto di lasciarlo nelle mani di uno Scorsese bisognoso di lavorare - andò in porto dopo alcune modifiche alla sceneggiatura di Scorsese stesso (che diede il titolo After Hours) mentre Griffin Dunne ottenne la parte del protagonista Paul Hackett. Il risultato è straordinario: continuando a mescolare sapientemente commedia e noir (già divenuto neo-noir, invero, a partire almeno da Blue Velvet), Scorsese firma il ritratto di una New York City alienata e compiacente di giorno, scatenata e allucinata di notte, in cui il sesso è (in) tutto e dove le piccole e grandi follie metropolitane delle ore piccole vengono vissute come unica risposta ad una vita monotona e grigia, la cui pessimistica ineluttabilità (come testimoniato dallo splendido finale, sul quale Scorsese dibatté a lungo anche con Spielberg, De Palma e Gilliam) può essere tollerata solo sfogando il proprio sé più recondito al calar del sole. In un mondo di vampiri esistenziali in cui gli ascensori sociali sembrino essere perennemente bloccati, il sesso, in quanto incarnazione del Piacere, sembra essere l’unica risposta possibile per celare a sé stessi l’horror vacui di una vita in cui l’apollineo e il dionisiaco che albergano in ognuno di noi sembrino necessariamente condannati a restare separati. Griffin Dunne, a cui Scorsese chiese di astenersi da sesso e sonno, è perfetto nel restituire, spesso anche con mere espressioni del volto, gli effetti di una paranoia collettiva. Costato appena 4.5 milioni di dollari e distribuito da Warner Bros., arrivò ad incassarne 10.6 milioni ed ebbe un buon riscontro di critica, non sufficientemente rimarchevole dello status di capolavoro che questo film, negli anni, riuscirà meritatamente a guadagnarsi

Voto: 10

Rilevanza: 1. Per te? No

Il colore dei soldi

  • Drammatico
  • USA
  • durata 117'

Titolo originale The Color of Money

Regia di Martin Scorsese

Con Paul Newman, Tom Cruise, Mary Elizabeth Mastrantonio, Helen Shaver, John Turturro

Il colore dei soldi

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Nel 1984, lo scrittore statunitense Walter Tevis scrive The Color of Money, seguito diretto di The Hustler (1959), suo esordio nella novellistica, apprezzato dalla critica e divenuto noto al grande pubblico in seguito allo straordinario omonimo adattamento per il grande schermo del 1961 firmato Robert Rossen con un gigantesco Paul Newman nella parte del protagonista Edward “Fast Eddie” Felson (“Eddie lo svelto” in italiano). Scorsese, impossibilitato ancora una volta a realizzare il kolossal filosofico-religioso su Gesù Cristo che progettava da tempo, decise di cimentarsi nuovamente con il genere sportivo. Prodotto da Touchstone Pictures e Silver Screen Partners, che assicurarono la presenza di Paul Newman, nuovamente nella parte di “Fast Eddie” a distanza di venticinque anni dalla pellicola di Rossen, e del sempre più emergente Tom Cruise, il film fu un successo al botteghino (52 milioni di dollari di incasso a fronte di 16 milioni di costi) ma qualitativamente segna un passo indietro nella filmografia scorsesiana dopo i tre leggendari capolavori di inizio anni Ottanta. Se in, Raging Bull, lo sport era la cartina al tornasole degli umori e dei caratteri di Jake LaMotta, in The Color of Money il biliardo non riesce ad avere la medesima carica iconologica e diventa una mera appendice narrativa (un obbligo narrativo da assolvere, verrebbe da dire) di ciò che davvero sta a cuore a Scorsese (e allo sceneggiatore Richard Price, il cui script venne preferito a quello di Tevis stesso): un coming-of-age di un ragazzo che, giocando, impara la vita nell’America edonista degli anni Ottanta ed il ritratto malinconico e sfuggente di un anziano ex giocatore per il quale il tavolo verde ha rappresentato tutto, forse troppo. Questa dialettica nuovo-vecchio assume una particolare connotazione metacinematografica nella scelta dei due protagonisti, la star sul viale del tramonto Paul Newman e la star in ascesa Tom Cruise. Scorsese guarda con profonda commozione alla classicità di Newman ma è consapevole di far parte di un nuovo cinema che proprio quella classicità ha ormai irrimediabilmente contribuito a dismettere. In questo dramma personale che non riesce mai davvero ad essere restituito in toto sul tavolo verde, il regista dipinge, a sfondo delle vicende, un’America corrosa dall’avidità in cui il denaro – molto più della gloria personale – rappresenta l’unica cosa che conta. A tale allucinazione collettiva corrisponde uno straordinario uso, da parte di Michael Ballhaus, di luci ed illuminazioni ed una regia densa di primi piani figlia, per stessa ammissione di Scorsese, della lezione di Powell-Pressburger in Black Narcissus (1947). Sapiente lavoro di Thelma Schoonmaker nell’incastrare ritmicamente tra loro – in piena assonanza alla splendida colonna sonora - le scene al biliardo. Un notevole dramma sportivo, ma inferiore ai precedenti lavori scorsesiani. Nota a margine: duranza la lavorazione di questo film, Scorsese iniziò a leggere il romanzo Wiseguy: Life in a Mafia Family (1985) di Nicholas Pileggi da cui rimase folgorato

Voto: 8

Rilevanza: 1. Per te? No

L'ultima tentazione di Cristo

  • Drammatico
  • USA
  • durata 161'

Titolo originale The Last Temptation of Christ

Regia di Martin Scorsese

Con Willem Dafoe, Harvey Keitel, Barbara Hershey, Verna Bloom

L'ultima tentazione di Cristo

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Vagheggiato da decenni ed abortito ad inizio anni Ottanta a causa della sua delicata natura, l’adattamento sul grande schermo del romanzo di Nikos Kazantzakis vede finalmente la luce, alla fine del decennio, sotto l’egida della Universal, che approva il film a condizione che Scorsese giri in futuro una pellicola di natura più commerciale (e che si sarebbe rivelata il remake di Cape Fear). Scritto da Paul Schrader - con alcuni aggiustamenti non accreditati di Jay Cocks e Scorsese - su invito del regista stesso che aveva acquistato i diritti del romanzo alla fine degli anni Settanta, il film, girato in Marocco con un cast diverso da quello precedentemente ipotizzato sotto l’egida della Paramount, segna una nuova eccezionale vetta dell’arte scorsesiana. This film is not based on the Gospels, but upon the fictional exploration of the eternal spiritual conflict recita la didascalia iniziale e non è (solo) un mero disclaimer teso a mettere le mani avanti da sfrontate proteste bensì rappresenta il senso stesso dell’operazione. La religione cristiana si fonda su una lacerazione, quella di un Uomo, Figlio di Dio, che è ontologicamente sia Dio sia Uomo. Nel dipingere un Gesù Cristo umanissimo ma al contempo consapevole della portata salvifica della propria missione, Scorsese riflette sul perno nodale della religione cristiana e del pensiero filosofico tout court: il libero arbitrio. Ogni uomo nasce peccatore a causa del peccato originale e della propria natura umana – cioè fallimentare - ma può trovare la Salvezza nella Fede: ciò è altrettanto valido per Gesù Cristo, che è in grado di parlare agli uomini e di ragionare (e, quindi, sbagliare) come gli uomini perché è Dio fatto Uomo. I dubbi di Gesù nel Getsemani, l’amore (anche erotico) per Maddalena, l’idea lynchanamente vagheggiata di una vita al di fuori del progetto del Padre non sono, come tanti bigotti rilevarono scandalizzati all’epoca, blasfemi ed offensivi sminuimenti della figura del Cristo bensì la chiave per comprenderne la straordinaria grandezza religiosa e portata storico-filosofica. Sì, Gesù è Figlio di Dio e, in quanto tale, può annunciare il Nuovo Testamento al popolo d’Israele. Ma è anche Uomo e, in quanto tale, può decidere che un tale fardello sia insopportabilmente pesante da portare. Chi dà la certezza ad un essere umano di essere davvero l’Unto? La grandezza della riflessione di Scorsese sta proprio qui: Gesù, da Dio che si è fatto Uomo - quindi fallimentare, dubbioso, problematico, carnalmente attratto dai piaceri - pur potendo decidere di cambiare la propria strada, ha liberamente deciso di seguire fino in fondo la propria missione salvifica: It is accomplished! È compiuto! Willem Dafoe è assolutamente perfetto; Barbara Hershey, che torna a lavorare con Scorsese a sedici anni da Boxcar Bertha, toglie letteralmente il respiro mentre Harvey Keitel, che torna a lavorare con Scorsese a dodici anni da Taxi Driver, è un credibilissimo Giuda Iscariota. Stratosferica la colonna sonora di Peter Gabriel, vertice assoluto e spesso dimenticato della musica da film, perfettamente capace di restituire il senso di divina umanità (e, quindi, divina fallibilità) della missione del Cristo. I travagli produttivi (tabella di marcia ristretta che costrinse ad improvvisare parecchio) inficiano, in minima parte, la riuscita dell’operazione: l’estetica minimale e contemplativa della regia non sempre si sposa sublimemente con la parabola narrata (e con le musiche di Gabriel) ed alcune scene riprese pedissequamente dai Vangeli (l’incontro con Giovanni Il Battista interpretato da Andre Gregory, l’ingresso a Gerusalemme, etc.) sembrano, in virtù di un’eccessiva lunghezza che le caratterizza, un ammiccamento eccessivamente riverente di Scorsese alla delicatezza della materia trattata. Ma si tratta di piccole imperfezioni che non intaccano la riuscita magistrale di questo (non) kolossal apparentemente blasfemo e, in realtà, miracolosamente spirituale. Tutto ciò non impedirà veementi campagne di boicottaggio di numerosi gruppi cristiani, a cui si aggiungeranno le dure parole di Rita Antoinette Rizzo, suora nota come Mother Mary Angelica of the Annunciation famosa per i suoi interventi radiofonici e televisivi, e finanche un attentato terroristico ad un cinema parigino da parte di un gruppo di estremisti. Il film, costato 7 milioni di dollari, finirà per incassarne appena 8.5 milioni circa.

Voto: 9

Rilevanza: 1. Per te? No

New York Stories

  • Commedia
  • USA
  • durata 120'

Titolo originale New York Stories

Regia di Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Woody Allen

Con Nick Nolte, Rosanna Arquette, Giancarlo Giannini, Woody Allen

New York Stories

Mera operazione commerciale per riunire, in un unico film a episodi, i 3 registi newyorkesi per antonomasia (Scorsese, Allen, Coppola), il risultato finale, nel suo complesso, è orrendo. I 3 episodi hanno come unico legame l’ambientazione nella Grande Mela: per il resto, sono slabbrati tra loro e totalmente avulsi da qualsivoglia tentativo di trovarne un fil rouge. Trattasi di tre schegge newyorkesi totalmente distanti tra loro per forma e contenuto. Coppola (Life Without Zoë) dirige il peggior film della sua carriera, assolutamente al di sotto di qualsivoglia professionalità in fase di scrittura e regia; Allen (Oedipus Wrecks) fa un ripasso svogliato dei suoi soliti temi, tentando disperatamente di strappare un sorriso (riuscendoci solo nella prima parte, effettivamente gradevole per quanto innocua); Scorsese, pur non brillando, è quello che ne esce meglio, fotografando, in maniera forse scolastica ma, ad ogni modo, precisa ed equilibrata, il rapporto tra un umorale pittore (un buon Nick Nolte) e la sua assistente (una bravissima Rosanna Arquette). Niente di particolarmente sconvolgente o nuovo ma il suo True Lessons, “Lezioni dal vero”, mantiene le promesse del titolo: un ritratto malinconico e dissacrante della borghesia newyorkese e del mito dell’ispirazione artistica.

Voto True Lessons: 6

Voto Life Without Zoë: 3

Voto Oedipus Wrecks: 5

Voto finale: 4

Rilevanza: 1. Per te? No

Quei bravi ragazzi

  • Gangster
  • USA
  • durata 145'

Titolo originale Goodfellas

Regia di Martin Scorsese

Con Robert De Niro, Ray Liotta, Joe Pesci, Lorraine Bracco, Paul Sorvino, Frank Sivero

Quei bravi ragazzi

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«Il regista giusto – l’unico possibile, anzi – per questo tipo di materiale». Se a pronunciare queste parole è Roger Ebert, beh, c’è da credergli. In effetti, è pressoché impossibile comprendere la grandezza di uno dei più grandi capolavori della storia del cinema senza fare riferimento alla biografia di Scorsese, un ragazzino italoamericano malato di attacchi di asma, che si sentiva vivo solo in chiesa e al cinema, e che, dalla finestra, guardava i gangster – piccoli e grandi – del suo quartiere. Uno dei motivi per cui questo capolavoro abbia fatto la storia è il grande tasso di empatia che lo spettatore riesca a stabilire col protagonista, Henry Hill (il miglior Ray Liotta di sempre, che fece di tutto per avere la parte). Il fascino che il gangsterismo spiccio anni Cinquanta esercita sul ragazzino Henry di Brooklyn è, di fatto, il medesimo che provava il ragazzino Martin: il fascino perverso del potere, della criminalità organizzata che penetra lì dove lo Stato è più assente, dove l’istruzione è meno diffusa, dove la qualità della vita è più bassa, e che porta un ragazzino a sognare ad occhi aperti una vita fatta di rispettabilità, parole d’onore, donne, feste, eccessi. Un riscatto sociale basato su un patto col diavolo – sangue, lealtà, tradimenti, etc. – ma che sembra l’unica strada possibile per poter davvero cambiare vita in un’America in cui gli ascensori sociali sono fermi. È tutta qui la grandezza di GoodFellas, il cui sguardo straordinariamente documentaristico contribuisce a rendere questa parabola perversa di dannazione ancor più efficace. A Scorsese non interessa affrontare il discorso dei grandi gangster, delle grandi famiglie che, in maniera quasi partitocratica, si spartivano i business illegali degli USA e che, quando le circostanze lo richiedevano, si facevano la guerra. A Scorsese non interessa la politica gangsteristica dei pieni alti: il focus è la manovalanza del crimine. Henry Hill non è Michael Corleone. Henry Hill non è il figlio buono di un grande boss che viene attratto da forze del male più grandi di lui e che finisce per diventare cattivissimo in nome di un concetto deviato di ‘famiglia’. Henry Hill è l’uomo qualunque, il ragazzino qualunque che vive e respira un ambiente malato – che per lui è la normalità, non avendo mai vissuto o aspirato a nulla di differente – in cui i gangster detengono il potere. Un potere diverso da quello delle grandi logiche della spartizione dei traffici illegali, un potere forse prosaico (parcheggiare l’auto ovunque, avere un tavolo in un ristorante in qualsiasi momento, spadroneggiare ovunque) ma ugualmente ammaliante nella sua intensità. Un potere in cui il timore riverenziale degli estranei, pur non essendo mai davvero affetto, riesce ad essere gratificante in maniera orgasmica. È una storia vera quella di Henry Hill, come vero è l’ambiente che l’ha resa possibile, come vere sono le dinamiche che Nicholas Pileggi delinea nel suo giornalistico Wiseguy: Life in a Mafia Family. È questa veridicità ad attrarre Scorsese, che firma il suo sesto capolavoro, co-sceneggiato con Pileggi stesso, in appena ventitré anni di carriera. La regia frenetica di Scorsese in cui canzoni, parole, gesti sembrano tutti far parte di un’organica allucinazione collettiva compie un ulteriore step in termini di maturità espressiva. Vedere, per credere, il celeberrimo piano sequenza dell’ingresso di Henry e Karen (una grandissima Lorraine Bracco) al Copacabana Night Club, perfetto nel suo perpetrare l’idea di una doppia seduzione: quella di Henry su Karen e quella, perversa, della vita criminale (o, meglio, del potere anche prosaico della vita criminale) su Henry. Ma non manca neanche Hitchcock: il “Vertigo Effect” viene usato magistralmente da Scorsese nella scena in cui Jimmy Conway (un De Niro quasi sprecato nella sua straordinarietà), seduto in una tavola calda con Henry, sospetta, senza darlo a vedere, che quest’ultimo sia divenuto un informatore della polizia. Tale tensione latente viene resa con una carrellata indietro e una zoomata in avanti di una lentezza esasperante che rende perfettamente l’ambiguità viscida di lealtà e tradimento della vicenda, dove bene e male sono ormai irrimediabilmente confusi e i nodi del cappio della verità si stanno lentamente stringendo su Henry. Gara di bravura del cast, persino i personaggi secondari sembrano attori di consumata esperienza e talento, ma a vincere su tutti è Joe Pesci, che torna a lavorare con Scorsese a dieci anni da Toro Scatenato e lo fa al massimo livello: se non ci fossero titoli di testa e di coda, si penserebbe che sia un gangster vero.

Voto: 10

Rilevanza: 4. Per te? No

Cape Fear. Il promontorio della paura

  • Thriller
  • USA
  • durata 118'

Titolo originale Cape Fear

Regia di Martin Scorsese

Con Robert De Niro, Nick Nolte, Jessica Lange, Juliette Lewis, Robert Mitchum, Gregory Peck

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L’idea di un remake del leggendario Cape Fear (1962) di J. Lee Thompson balenava ad Hollywood da anni e, quando Wesley Strick tirò giù un nuovo script basato sulla sceneggiatura del 1962 di James R. Webb che adattava il romanzo The Executioners (1957) di John D. MacDonald, sembrava che il progetto stesse per andare in porto per la regia di Spielberg, che avrebbe co-prodotto con la sua Amblin Entertainment. Spielberg, per la natura eccessivamente violenta della pellicola poco consona al proprio stile, decise di passare la mano all’amico Scorsese che colse la palla al balzo per ripagare la Universal del supporto produttivo a The Last Temptation of Christ. Di conseguenza, Scorsese lasciò a Spielberg la libertà di adattare per il grande schermo Schindler’s Ark (1982) di Thomas Keneally, biopic su Oskar Schindler. Sliding door non da poco per la settima arte! La Amblin di Spielberg rimase tra i produttori, unitamente alla TriBeCa Productions di Robert De Niro-Jane Rosenthal e alla Cappa Films (oggi Sikelia Productions) di Scorsese stesso, entrambe nate nel 1989. Dovendo necessariamente essere una pellicola di forte richiamo commerciale, si allestì un cast attrattivo per le masse: Harrison Ford era la prima scelta per la parte di Sam Bowden ma, malgrado le insistenze di Scorsese e De Niro (quest’ultimo scelto per interpretare Max Cady), declinò la proposta. Si ripiegò, quindi, su Nick Nolte, che aveva già collaborato con Scorsese per l’episodio di New York Stories e che era ansioso di lavorare nuovamente col regista. Un grande ‘selling point’ fu il ritorno dei tre storici protagonisti (Gregory Peck, Robert Mitchum e Martin Balsam) del primo adattamento del 1962 in ruoli diversi da quelli di trent’anni prima. Il film soddisfò pienamente la Universal rivelandosi uno stratosferico successo commerciale: costato 25 milioni di dollari, ne incassò 182 milioni. Qualitativamente parlando, il film non pareggia la magnetica bellezza del primo ineguagliabile adattamento ma rappresenta un ottimo esempio di remake: Scorsese riesce, infatti, a dare all’opera quel senso di ambiguità che mancava nel film di Thompson, dove vi era una più netta distinzione tra buoni e cattivo, tra vittime e carnefice. Lì dove Gregory Peck incarnava un integerrimo avvocato americano wasp - con perfetta famiglia al seguito - perseguitato dal folle Robert Mitchum (e la grandezza del film stava nel rendere Peck metafora di un’America incontaminata minacciata dal Male, quasi fosse il Cristo tentato dal diavolo nel deserto), qui troviamo un Nick Nolte ipocrita, perbenista e poco professionale: non solo ha un’amante (Lori Davis, interpretata da Illeana Douglas) ma viene anche lasciato intendere che abbia effettivamente commesso un errore nella causa in difesa di Max Cady. Quest’ultimo, conseguentemente, non è una sorta di orrorifica minaccia gratuita ma diventa, per mano di un De Niro che macchia un’interpretazione altrimenti perfetta con qualche esagerazione troppo sopra le righe, un violento e sanguinoso conto da pagare per un’America moralmente prostituita e prostituente. In tal senso, l’incontro tra Max Cady e la figlia di Sam Bowden, Danielle (interpretata magistralmente dalla diciassettenne Juliette Lewis), prefigura una sorta di salvataggio e contrario della gioventù americana dalla corruzione morale cui è destinata. Le suggestioni violentemente erotiche di cui è impregnato questo incontro sottolineano quanto l’avidità – economica, morale, sociale, politica, familista, puritana – abbia finito per corrompere l’America e quanto essa possa essere destituita solo da una violenza cieca ed istintiva. I richiami ad Hitchcock, modello esplicito di J. Lee Thompson sin dalla leggendaria colonna sonora di Bernard Herrmann, rappresentano a fortiori un archetipo che Scorsese si sforza di riproporre, seppur con qualche slabbratura. La tensione hitchcockiana nel 1962 funzionava anche in virtù dei limiti espressivi del cinema classico americano, impossibilitato a mettere in scena cruentemente sangue e atti violenti. Sforzarsi di replicarla, a trent’anni di distanza, insistendo più esplicitamente sulla violenza, si rivela non sempre azzeccato, soprattutto nel terzo atto, in cui la resa dei conti finale viene inficiata da qualche lungaggine di troppo. Paradossalmente, pur essendo stato più manicheo nel dipingere il conflitto, Thompson era riuscito a rendere il suo film maggiormente inquietante, complice anche un Mitchum straordinario capace di lavorare anche in sottrazione. Ad ogni modo, Scorsese onora l’impegno con la Universal, inaugura la collaborazione col leggendario graphic design Saul Bass e regala un’ottima lezione di remake cinematografico.

Voto: 8

Rilevanza: 1. Per te? No

L'età dell'innocenza

  • Drammatico
  • USA
  • durata 136'

Titolo originale The Age of Innocence

Regia di Martin Scorsese

Con Daniel Day-Lewis, Michelle Pfeiffer, Winona Ryder, Mary Beth Hurt

L'età dell'innocenza

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Nel 1980 il sodale Jay Cocks consiglia a Scorsese la lettura del romanzo The Age of Innocence (1920) che valse all’autrice Edith Warthon – prima donna ad aggiudicarsi il prestigioso riconoscimento - la vittoria del Premio Pulitzer per il romanzo. Ambientato nella New York City degli anni Settanta del XIX secolo (ovvero in piena Gilded Age), narra le travagliate vicende di un sentimento corrisposto ma non consumato – e non consumabile - tra un uomo ed una donna appartenenti entrambi all’aristocrazia newyorkese. Scorsese, co-autore della sceneggiatura insieme a Cocks, mantiene una fedeltà miracolosamente filologica al testo scritto e dipinge, rinunciando al suo stile frenetico ed ellittico, l’affresco di un mondo dove l’obbedienza dogmatica alle regole non scritte del puritanesimo aristocratico sia in grado di uccidere qualsiasi sviamento dalla morale comune, ivi incluso un puro e genuino sentimento d’amore. Cento anni prima degli eventi di Mean Streets, Taxi Driver e GoodFellas, in cui la violenza sgorgava in maniera esplicita e sanguigna, il tessuto urbano di New York City è, forse, persino più spietato nel suo ostentare un’apparente rispettabilità e nel perpetrare, invece, quella che potremmo chiamare “la violenza delle apparenze”. Il mos maiorum e l’etichetta comunemente condivisa lacerano l’anima dei due innamorati, Newland Archer (un Daniel Day-Lewis gigantesco) ed Ellen Olenska (una Michelle Pfeiffer perfetta), che vivono un dramma non poi così dissimile da quello di un Travis Bickle o di un Henry Hill. Un mondo sospeso, incantato – come un palcoscenico - dove l’apparenza è tutto e dove l’unica arma di sopravvivenza è la maschera affidataci coercitivamente dalla classe sociale. Alla sporcizia urbana e morale dell’America post-Vietnam fa rima un’America di fine XIX secolo prosperosa dal punto di vista sociale, commerciale, economico ma moralmente corrotta e spietata, come sempre. E persino più perturbante nell’infliggere dolore. Apprezzato dalla critica ma destinato a divenire ancor più amato negli anni, riscosse un buon successo di pubblico (68 milioni di dollari di incasso a fronte di 34 milioni di dollari di budget). Uno dei film in costume più belli di sempre

Voto: 10

Rilevanza: 2. Per te? No

Casinò

  • Gangster
  • USA
  • durata 178'

Titolo originale Casino

Regia di Martin Scorsese

Con Robert De Niro, Sharon Stone, Joe Pesci, James Woods

Casinò

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Mentre le riprese di GoodFellas giungevano alla conclusione, Nicholas Pileggi si trovò a leggere un articolo del 1980 del Las Vegas Sun su un casino executive losangelino di nome Frank “Lefty” Rosenthal e dei suoi rapporti con la mafia nella gestione del gioco d’azzardo negli anni Settanta. Approfondendo la vicenda, Pileggi si rese conto che vi fosse materiale in abbondanza per un libro e per una sceneggiatura cinematografica. Contattato immediatamente Scorsese, quest’ultimo si dimostrò entusiasta del progetto e propose a Pileggi di partire prima dalla stesura dello script, che richiese ai due ben cinque mesi di lavorazione, e solo dopo alla realizzazione del libro, poi pubblicato col titolo Casino: Love and Honor in Las Vegas. Distribuito dalla Universal, il film segna l’ottavo acuto assoluto del regista, il secondo consecutivo ed il terzo in cinque anni. Scambiato da parte della critica e del grande pubblico come uno stantio remake non dichiarato di GoodFellas e come facile ritorno nella comfort zone del gangster movie, il tempo, giudice implacabile degli eventi, ne sancisce, al di là fuori di ogni dubbio, lo status di capolavoro leggendario. Abbandonato lo sguardo documentaristico (il che, di per sé, basterebbe per differenziarlo da Mean Streets o GoodFellas), Scorsese firma una storia classica nell’impianto narrativo – sfavillante ascesa e rovinosa caduta – ma assolutamente eccezionale dal punto di vista tematico e tecnico. Sam “Ace” (“Asso” in italiano) Rothstein, interpretato da De Niro in una delle ultime grandi interpretazioni degli ultimi 30 anni, rappresenta il classico uomo medio statunitense che, basandosi su perseveranza, tenacia e perfezionismo nel proprio lavoro, si illude di poter stringere affari con la criminalità organizzata – un interlocutore come un altro – mediante i quali costruire il proprio nido familiare fatto di sicurezza economica, seria coscienziosità sul posto di lavoro ed amore per una bella donna (una straordinaria Sharon Stone). There are three ways of doing things around here: the right way, the wrong way and the way that I do it è il motto spirituale che guida Sam “Ace” Rothstein, la stella cometa da seguire per riuscire a rimanere sulla cresta dell’onda. Ma una vita così sfavillante e basata su un compromesso morale così lugubre non può durare a lungo e, al culmine della scalata, ecco il precipitare tragico degli eventi, complici l’amico mafiosamente marcio Nicky Santoro (Joe Pesci in stato di grazia) e la donna amata entrata nel tunnel della dipendenza dalle droghe. Sullo sfondo, una Los Angeles luciferina i cui casinò sono divenuti nuovi luoghi di culto in cui chiunque può sprecare interi patrimoni. D’altronde, it looks like Disneyland ci ricorda, nel finale da brividi, la voce narrante di Sam. Autenticamente diegetici i costumi: i completi di De Niro, all’inizio, sono classici e, man mano che acquista potere ed autorevolezza, iniziano ad acquistare tocchi di puro glamour, fino ad arrivare all’accostamento audace e kitsch di colori e stili diversi, a testimoniare il vortice rovinoso in cui sia ormai irrimediabilmente crollato; viceversa, quelli della Stone da sfavillanti e sensuali all’inizio diventano man mano più cupi, freddi e distaccati (nel terzo atto vi è un uso pronunciato di anonime giacche di pelle, le stesse che caratterizzano l’intero arco narrativo del personaggio di Pesci). Ulteriore merito va tributato allo straordinario lavoro scenografico di Dante Ferretti. And that's that

Voto: 10

Rilevanza: 2. Per te? No

Kundun

  • Drammatico
  • USA
  • durata 133'

Titolo originale Kundun

Regia di Martin Scorsese

Con Tenzin Thuthob Tsarong, Tencho Gyalpo, Tenzin Topjar, Tsewang Migyur Khangsar

Kundun

Attivista per il movimento d’indipendenza tibetano, la sceneggiatrice statunitense Melissa Marie Mathison, consegnatasi alla leggenda per la stesura dello script di E.T. (1982), si reca, a metà anni Novanta, dal XIV Dalai Lama per un’intervista sulla sua vita sulla cui base costruire una sceneggiatura, la cui direzione sarebbe stata affidata a Scorsese. Prodotto da Touchstone Pictures, Cappa Productions e De Fina Productions per una cifra di 28 milioni di dollari circa, la distribuzione marchiata Disney, dopo il disinteressamento della Universal, incontrò numerosi problemi per via del ritratto a tinte fosche della Cina comunista che non solo impedì al film di essere distribuito nel territorio cinese ma che portò anche ad una esclusiva release statunitense peraltro molto limitata che fruttò appena 5.6 milioni di dollari circa d’incasso. Malgrado i problemi distributivi, il film si rivela una chicca nel percorso artistico scorsesiano. Se The Last Temptation of Christ rifletteva magistralmente sulla natura ontologicamente sia umana sia divina di Gesù Cristo, ponendo l’accento sulla portata prettamente filosofico-individuale-religiosa di tale aspetto, Kundun gioca a carte scoperte e si pone innanzitutto come biopic storico di una figura tanto carismatica come leader religioso (a tal punto da essere riconosciuta e precettata a questo scopo sin dalla tenera età) quanto debole come leader politico. Lhamo Dondrub, intronizzato come XIV Dalai Lama col nome di Tenzin Gyatso a meno di 5 anni, vive lo struggimento dell’inadeguatezza in un periodo storico delicato – quello della salita al potere di Mao Tse-Tung in Cina – in cui servirebbero strategie ben definite, saldezza di pensiero ed idee chiare sulla lealtà dei propri dignitari. Il dramma del XIV Dalai Lama è quello di un quindicenne chiamato ad un compito più grande di lui in un periodo storico di gravissima crisi. Scorsese ritorna ad uno stile rigoroso e contemplativo e, coadiuvato dalla splendida fotografia di Roger Deakins (chiamato da Scorsese proprio in virtù della sua abitudine a lavorare in documentari con attori non professionisti) e dalle musiche di Philip Glass, non manca di riprendere le sinuosità dei riti, mantenendo il focus sul sui generis coming-of-age di un ragazzo che dovrebbe dettare la linea ad un popolo intero e che non riesce mai davvero a convincere se stesso della bontà delle azioni di volta in volta intraprese. Spesso, non solo politiche. La presenza (cioè il “kundun” del titolo, che è anche uno degli appellativi del Dalai Lama) non è, spesso, sufficiente a confortare e ad ispirare un popolo.

Voto: 8

Rilevanza: 1. Per te? No

Al di là della vita

  • Drammatico
  • USA
  • durata 111'

Titolo originale Bringing Out the Dead

Regia di Martin Scorsese

Con Nicolas Cage, Patricia Arquette, John Goodman, Tom Sizemore

Al di là della vita

Il più sottovalutato, bistrattato e snobbato film di Scorsese è, in realtà, il suo nono capolavoro. Alla quinta collaborazione con Paul Schrader, che adattò il romanzo omonimo di Joe Connelly espungendone i riferimenti religiosi per differenziare il lavoro dalle precedenti collaborazioni con Scorsese, Bringing Out the Dead è, a partire dal titolo, l’incursione nelle molteplici esistenze disperate e sull’orlo di una crisi di nervi di una tremenda New York City di inizio anni Novanta pre-regime di tolleranza zero imposto dal sindaco Giuliani a partire dal 1994. Nicolas Cage regala una delle migliori performances della sua carriera nei panni di Frank, un paramedico che quotidianamente vive gli orrori di una vita assistenziale dove tutto è sempre puntualmente fuori posto e tutto rema contro qualsivoglia risoluzione finale positiva. Il mestiere del paramedico diventa la cartina al tornasole di un’esistenza al di là di ogni umana sopportazione, in cui l’allucinazione si fa routine e in cui la soglia della professionalità ha ormai surclassato ogni necessario distacco, finendo per annichilire i bisogni dell’io ed annullando il confine tra medici e pazienti. Patricia Arquette restituisce, con insospettabile classe, la dolente e contraddittoria umanità di Mary, il cui rapporto con Frank viene sviscerato in ogni sua declinazione con sguardo entomologico. Le frenesie della regia, assecondate dal tocco freddo di Robert Richardson e dalle straordinarie musiche di Elmer Bernstein, restituiscono magistralmente il quadro ultimo di un microcosmo anni Novanta in cui tutti sono pazienti in attesa di guarigione. Ignorato dal pubblico (16.8 milioni di dollari di incasso a fronte di 32 milioni di budget) ed accolto tiepidamente dalla critica, è la nova meraviglia dell’impareggiabile arte scorsesiana

Voto: 10

Rilevanza: 1. Per te? No

Gangs of New York

  • Drammatico
  • USA, Germania, Italia, Gran Bretagna, Olanda
  • durata 168'

Titolo originale Gangs of New York

Regia di Martin Scorsese

Con Leonardo DiCaprio, Daniel Day-Lewis, Cameron Diaz, Jim Broadbent, John C. Reilly

Gangs of New York

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Affascinato, sin da ragazzino, da alcune antiche strutture architettoniche, lapidi ed iscrizioni varie di Little Italy, Scorsese si cimentò appassionatamente, nel 1970, nella lettura del saggio The Gangs of New York: An Informal History of the Underworld (1927) del giornalista e scrittore Herbert Asbury in cui venivano narrate le sanguinose lotte di sopraffazione tra nativi protestanti nazionalisti, da un lato, ed immigrati irlandesi cattolici, dall’altro, nell’America di metà Ottocento. Acquistati i diritti nel 1979, fu, per vent’anni, impossibile avviare la produzione a causa dell’inesistenza di quartieri o, quantomeno, edifici ottocenteschi originali nella New York City contemporanea e della conseguente esosa necessità di dover ricostruire tutto in studio. L’occasione giunse quando Scorsese strinse un accordo con la Miramax Films dei fratelli Bob e Harvey Weinstein. Il budget del film, inizialmente stabilito per 87 milioni di dollari, sfondò i 100 milioni a causa di numerosi ritardi. Il lavoro di ricostruzione avvenne magistralmente, su direzione dello scenografo Dante Ferretti, a Cinecittà e la veridicità architettonica fu unanimemente lodata da critica e specialisti del settore. Scorsese, su sceneggiatura a sei mani di Jay Cocks, Steven Zaillian e Kenneth Lonergan, dirige un dramma dall’afflato epico più che gangsteristico e, pur regalando sequenze di grandissimo cinema (si pensi all’eccezionale incipit), sembra perdere di vista la complessità socio-storica degli eventi narrati. Il profondo odio nelle strade dell’America ottocentesca, rinvigorito dalla guerra di secessione ormai alle porte, non è sempre scandagliato in maniera particolarmente nuova, originale, argomentata o critica e risulta, talora, un mero pretesto per mettere in scena ad nauseam atti di violenza. Leonardo DiCaprio, che inaugura un fortunato sodalizio con Scorsese, spicca per la disinvoltura con cui utilizza differenti tipi di accento americano ma è Daniel Day-Lewis a rubare la scena, incarnando, nel suo corpo attoriale, le violente pulsioni dell’America che fu. Le divergenze creative tra Scorsese e l’ingombrante produttore Harvey Weinstein (la cui idea era di girare una sorta di Gone with the wind sullo sfondo della costruzione sanguinosa dell’America), per quanto sminuite dal regista ad ordinarie discussioni, lasciano una cicatrice nel personaggio di Cameron Diaz, la cui interpretazione risulta decisamente fuori fase. La ricerca dell’epica ad ogni costo finisce, spesso, per annacquare il più interessante discorso storico (America was born in the streets) che Scorsese tenta, in maniera personale e sincera, di portare avanti. L’operazione, che può dirsi pienamente riuscita, pecca comunque di organicità (i tre anni di produzione, con riprese protratte fino all’ottobre 2002, si sono probabilmente fatti sentire) e, pur ambiziosa, non può annoverarsi tra i migliori parti creativi scorsesiani. 192 milioni di dollari d’incasso.

Voto: 7

Rilevanza: 2. Per te? No

The Aviator

  • Drammatico
  • USA, Giappone, Germania
  • durata 170'

Titolo originale The Aviator

Regia di Martin Scorsese

Con Leonardo DiCaprio, Cate Blanchett, Kate Beckinsale, John C. Reilly, Alec Baldwin

The Aviator

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Portare sul grande schermo le gesta di Howard Hughes era un progetto che animava, da decenni, registi diversi (Warren Beatty, Milos Forman, Brian De Palma, Steven Spielberg, fratelli Hughes, Michael Mann, Christopher Nolan), attori protagonisti diversi (Nicolas Cage, Leonardo DiCaprio, Jim Carrey, Edward Norton, Johnny Depp, Warren Beatty stesso) e libri da adattare diversi. Infine, il ben congegnato script di John Logan, basato su Howard Hughes: The Secret Life (1993) di Charles Higham, finì nelle mani di Scorsese. Il risultato è strabiliante: se numerosi analisti hanno criticato l’eccessivo appiattimento del regista nei confronti di Howard Hughes (interpretato dal miglior DiCaprio ‘scorsesiano’), dipinto agiograficamente come un ricco titano progressista alle prese con l’immobilismo affarista istituzionale, a ben vedere Scorsese compie un’operazione ben differente. Gli errori e le incongruenze storiche, infatti, testimoniano quanto a Scorsese interessi Howard Hughes non in quanto tale bensì in quanto incarnazione e metafora di uno spirito, di un umore, di un’intraprendenza tutta statunitense – certamente agevolata dal cospicuo lascito testamentario ad appena 20 anni – che hanno permesso ad Hollywood di spiccare il volo (è proprio il caso di usare questa espressione) e di diventare Hollywood, con tutto ciò che ne sia conseguito nel bene e nel male. I tic, le nevrosi, l’OCD incalzante non hanno impedito ad un giovane ereditiere di rivoluzionare l’aviazione ed il cinema (attività pressoché coetanee), andando sempre oltre i limiti, tanto di una tecnica ingegneristica da affinare sempre di più (lo straordinario velivolo Hercules) quanto di un’ispirazione artistica da portare sempre oltre la norma (le numerose telecamere usate per Hell’s Angels, i seni della ventiduenne Jane Russell in The Outlaw, la produzione di Scarface diretto da Howard Hawks). Folle, autodistruttivo, ostacolato dallo status quo (in tal senso, è difficile non vedere, a partire dalla musica di Howard Shore, i richiami al sottovalutato Tucker: The Man and His Dream di Francis Ford Coppola) e proteso ad elaborare i fantasmi del passato (la morte precoce dei genitori, la solitudine, le difficoltà relazionali), lo Hughes scorsesiano incarna il fascino, irresistibile agli occhi del regista, dei pionieri che, con luci ed ombre, hanno fatto la storia dell’aviazione, del cinema e, in ultima analisi, del Paese. Un fascino che si fa immagine grazie soprattutto alla fotografia di Robert Richardson, abilissima nel ricostruire l’effetto cromatico dei primi film in bipack color per gli eventi precedenti al 1935, e al montaggio ritmicamente forsennato di Thelma Schoonmaker. Peccato per la stucchevolezza delle love stories, trattate con superficialità ed abuso di clichés: sarebbe stato l’ennesimo film perfetto

Voto: 9

Rilevanza: 2. Per te? No

The Departed. Il bene e il male

  • Gangster
  • USA
  • durata 151'

Titolo originale The Departed

Regia di Martin Scorsese

Con Leonardo DiCaprio, Matt Damon, Jack Nicholson, Mark Wahlberg, Vera Farmiga, Martin Sheen

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I diritti per un rifacimento hollywoodiano dello straordinario action thriller hongkonghese Infernal Affairs (2002) di Andrew Lau e Alan Mank vennero acquistati, per 1.75 milioni di dollari circa, da Brad Pitt (che rinunciò ad entrare nel cast per dissonanze anagrafiche) che affidò la stesura della sceneggiatura a William J. Monahan. Lo script colpisce particolarmente Scorsese che assume la regia e regala, a 15 anni di distanza da Cape Fear, un’altra straordinaria lezione di remake cinematografico. Traslando l’atmosfera paranoica ed allucinata dell’originale Hong Kong in un’arrivista e rispettabile Boston post-11 settembre, Scorsese costruisce un thriller sui generis in cui la risoluzione del nodo thriller è amleticamente connessa alla ricerca della propria identità smarrita, con relative implicazioni freudiane sulla “morte del padre”. Il mefistofelico Frank Costello di un gigantesco Jack Nicholson è uno dei volti di un’America corrosa dall’avidità e dal carrierismo, in cui la questione morale sembra essere un orpello a cui poter rinunciare senza troppi scrupoli. I personaggi di DiCaprio e Damon sono gemelli diversi di un mondo dove il bene individuale e il bene collettivo sono costantemente disgiunti e in cui l’aderenza ad un ideale di vita – sia esso per la polizia del proprio stato o per l’associatività criminale della mafia – non ha alcunché di romanticamente eroico, neanche nella sconfitta. Un’atmosfera da dolente noir nichilista alla Melville si combina splendidamente agli stilemi del thriller ed il caos che ne deriva, biasimato da alcuni analisti come inchino spersonalizzante e meramente effettistico alla natura commerciale del progetto, è, al contrario, perfettamente sensato e logicamente costruito. Un prodotto mainstream di altissimo livello artistico, in cui la fotografia chiaroscurale di Michael Ballhaus costituisce un vertice tecnico assoluto. 90 milioni di dollari di budget, 291.5 milioni di dollari d’incasso.

Voto: 10

Rilevanza: 3. Per te? No

Shutter Island

  • Noir
  • USA
  • durata 138'

Titolo originale Shutter Island

Regia di Martin Scorsese

Con Leonardo DiCaprio, Mark Ruffalo, Ben Kingsley, Emily Mortimer, Michelle Williams

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A cavallo tra anni ’00 e anni ’10, il regista più in voga del momento è Christopher Nolan che ha fatto della riflessione (spesso ispirata, spesso inutilmente arzigogolata) sul rapporto spazio-tempo uno dei perni nodali della propria poetica. La sceneggiatura di Laeta Kalogridis, basata sul romanzo Shutter Island (2003) di Dennis Lehane, è chiaramente una copia carbone dei nolanismi tanto in voga all’epoca e Scorsese, alla quarta collaborazione con DiCaprio, fallisce nel tentativo di rendere personale un materiale così lontano dalle proprie corde. Il proposito di concepire un cocktail tra introspezione psicologica da noir anni Quaranta (Hitchcock, Lang ma soprattutto Preminger), atmosfere da zombie movies low budget di Val Lewton ed impatto visivo da espressionismo tedesco – il tutto incastonato in uno schema narrativo nolaniano - è fallimentare sotto tutti i punti di vista. Lo spaccato sociale della psichiatria statunitense anni Cinquanta è abbozzato ed elementare, il dilemma drammatico del protagonista si riduce ad una mera battuta ad effetto nel finale (che ha puntualmente fatto gridare al miracolo milioni di spettatori), la regia si contenta di accumulare le succitate colte citazioni, lo psicologismo è programmaticamente inseguito con artificialità spiccia ed il tutto si riduce ad un giochino filmico freddamente riprodotto al solo scopo di inseguire una moda vincente. Costato 80 milioni di dollari, il peggior film di Scorsese finirà per incassarne 294.5 milioni.

Voto: 4

Rilevanza: 1. Per te? No

Hugo Cabret

  • Drammatico
  • USA
  • durata 130'

Titolo originale Hugo Cabret

Regia di Martin Scorsese

Con Asa Butterfield, Chloe Moretz, Sacha Baron Cohen, Jude Law, Emily Mortimer, Ben Kingsley

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Se The Aviator rappresentava l’ossequio commosso di Scorsese alla golden age hollywoodiana e allo spirito tutto statunitense che la rese possibile, Hugo rappresenta il completamento ideale di un sincero omaggio alle origini del cinema, stavolta dal punto di vista dell’inventiva europea e, nella fattispecie, francese. Se The Aviator celebrava il titanismo di Howard Hughes, Hugo, sceneggiato da John Logan a partire da The Invention of Hugo Cabret (2007) di Brian Selznick, incarna con commozione l’intimo aspetto che abbia permesso al Cinema di fare la Storia del Novecento: il fascino spettatoriale dell’immagine in movimento su un grande schermo in una sala piena di gente. La pionieristica idea dei fratelli Lumière di ibridare l’automazione meccanica agli strumenti dell’illusionismo dei prestigiatori folgorò i tanti presenti quel benedetto 28 dicembre 1895, tra i quali George Méliès, la cui vita cambiò per sempre. Le vicende dell’orfano dodicenne Hugo Cabret (interpretato da un bravissimo Asa Butterfield) nella Parigi degli anni Trenta costituiscono il nucleo fondante di una storia di (ri)scoperta: di sé, del secondo padre del cinema dimenticato da tutti e, in ultima istanza, del cinema tout court. Echi dickensiani si mescolano magistralmente alla messa in scena del potere salvifico del cinema, il cui fascino è tale in virtù della vitalità verosimile con cui i pionieri si sforzavano di replicare la vita e, contestualmente, creare mondi. Un mero omaggio accademico? Assolutamente no: Scorsese intona un canto commovente alla capacità di stupire e stupirsi in un mondo contemporaneo in cui cinismo, disillusione, indifferenza e distacco sembrino aver incrostato l’anima di tutti. In tal senso, l’uso della tecnologia 3D (per la quale fu consultato anche James Cameron) tanto in voga tra anni ’00 e anni ’10 non si rivela – come in tante produzioni di inizio XXI secolo – un mero orpello per imbarocchire l’esperienza di visione ma, viceversa, permette di ricreare il fascino perduto dell’infanzia spettatoriale, l’innocenza della prima visione in nome della quale si è disposti a credere a tutto ciò che si vede. In un’epoca in cui il dibattito generalista sull’audiovisivo si sia incancrenito sulla dicotomia asfittica “capolavoro-schifo”, sull’amore autoreferenziale per le proprie idee preconcette da sbandierare ovunque e sulla scarsa importanza della visione collettiva e del dibattito rispettoso, Scorsese celebra le origini della settima arte mediante George Méliès, uno dei padri del cinema, e mediante Hugo Cabret, padre putativo di intere generazioni di spettatori, e, nel far ciò, invita tutti a (ri)scoprire la bellezza immortale dell’atto artistico, tanto dal punto di vista di chi lo crea quanto da quello di chi lo fruisce. Un’opera maiuscola sotto tutti i punti di vista, rapinosamente affascinante, omaggiata dalla critica ed impreziosita da una delle più grandi performances attoriali di sempre: quella di Ben Kingsley, semplicemente perfetto nei panni di Méliès.

Voto: 10

Rilevanza: 2. Per te? No

The Wolf of Wall Street

  • Biografico
  • USA
  • durata 179'

Titolo originale The Wolf of Wall Street

Regia di Martin Scorsese

Con Leonardo DiCaprio, Jonah Hill, Margot Robbie, Matthew McConaughey, Kyle Chandler

The Wolf of Wall Street

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Il film più sopravvalutato di Martin Scorsese è un tentativo – non riuscito – di piegare gli stilemi dell’epica gangsteristica all’edonismo spregiudicato della finanza statunitense degli anni Ottanta. L’idea avrebbe potuto avere basi solide sulle quali camminare (una sorta di Caligula contemporaneo secondo DiCaprio) ma l’afflato epico permea ogni singola inquadratura con tale vigore da risultare barocco e, pertanto, controproducente. I poeti lo sanno bene: usare 1 metafora ogni 100 versi significa dare a quella figura retorica una forza espressiva enorme; usare una 1 metafora ogni singolo verso significa normalizzare e rendere ordinaria quella figura retorica. È questo il problema principale di una pellicola che vorrebbe essere corrosiva ma che finisce per essere incredibile nel senso letterale di non-credibile. Molti analisti hanno esaltato il fascino virulento e mordente dell’escalation d’eccessi che caratterizza tutti i personaggi, paragonando il protagonista Jordan Belfort (un DiCaprio bravissimo ma sempre uguale dall’inizio alla fine) ad Henry Hill. Non si vuole negare, in questa sede, l’attrattiva perversa della descrizione parossistica della vita spericolata di un broker spregiudicato. Il problema principale, tuttavia, è l’assenza di qualsivoglia differenza strutturale tra i singoli personaggi, a dispetto del nutrito cast: sono tutti uguali tra loro, hanno tutti i medesimi comportamenti, hanno tutti il medesimo modo di rapportarsi alla vita e finanche all'eccesso. Non vi è catarsi e, forse, era proprio questa peculiarità della sceneggiatura di Terence Winter, basata sull'autobiografico The Wolf of Wall Street (2007), ad aver attratto Scorsese. Ciò non spiega, tuttavia, l’incapacità della regia di spiccare il volo del grottesco o del paradosso. Costruire, con sguardo documentario, un mondo in cui i personaggi sono uno il clone dell’altro (finanche i domestici di Naomi Lapaglia, magistralmente interpretata da Margot Robbie, si dedicano a feste orgiastiche) finisce per rendere l’intera operazione stancamente ripetitiva e, in ultima analisi, non corrosiva. La forza di GoodFellas o Casino stava anche nella differente natura dei personaggi: Henry Hill non era Jimmy Conway che non era Tommy De Vito, Sam “Ace” Rothstein non era Nicky Santoro che non era Ginger McKenna. Tutti i grandi film epici della storia hanno avuto il merito di fare distinguo e cambiare registro (in The Searchers, Ethan Edwards non è identico a Martin Pawley che non è identico al capitano-reverendo Clayton), mentre Scorsese sembra qui interessato ad affastellare programmaticamente situazioni sempre più clamorose e sbalorditive, figlie della totale assenza di sfumature tra Jordan Belfort, Donnie Azoff, Naomi Lapaglia ed il resto del cast. Qualsiasi tentativo di salvare il film naufraga (è proprio il caso di usare questo termine) nella scena della tempesta in barca, dove qualsiasi sospensione dell’incredulità viene meno e dove sembri di assistere ad una parodia kitsch di Titanic. L’abilità registica di Scorsese è comunque in grado di regalare qualche sequenza notevole (DiCaprio al telefono che si accartoccia per terra è un momento degno del più elevato cinema comico muto; il nano lanciato in ufficio) ma non è, forse, un caso che si tratti di quelle più smaccatamente grottesche e bislacche. Peccato che il registro del film si smarchi troppo spesso dal tono kafkiano che avrebbe enormemente giovato all'impostazione della pellicola. Stratosferico successo commerciale: 392 milioni di dollari d’incasso a fronte di 100 milioni di budget.

Voto: 5

Rilevanza: 3. Per te? No

Silence

  • Drammatico
  • USA
  • durata 159'

Titolo originale Silence

Regia di Martin Scorsese

Con Andrew Garfield, Adam Driver, Liam Neeson, Ciarán Hinds, Tadanobu Asano, Issei Ogata

Silence

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Il progetto di adattare sul grande schermo il romanzo storico 沈黙 Chinmoku (1966, in italiano Silenzio) dello scrittore giapponese Shūsaku Endō affascinava Scorsese sin dal 1989, quando fu chiamato da Akira Kurosawa ad interpretare Vincent van Gogh nell’episodio Corvi del suo film ad episodi  Yume (in italiano Sogni). Tuttavia, l’idea di confrontarsi, a distanza ravvicinata dai travagli produttivi e mediatici di The Last Temptation of Christ, con un tema così delicato, lo scoraggiava. Nel 1990, acquisì comunque i diritti per una trasposizione e, dopo venticinque anni di pre-produzioni più volte avviate e puntualmente conclusesi con un nulla di fatto, ecco il sogno materializzato sotto l’egida della Paramount. La sceneggiatura, targata Scorsese-Cocks, guarda smaccatamente ad Ingmar Bergman, ossessionato, come noto, dal tema del silenzio di Dio, sempre più o meno presente nelle sue opere, ed in particolare al secondo capitolo della cosiddetta ‘trilogia sul silenzio di Dio’, Luci d’inverno (1962), in cui il leggendario regista svedese descriveva il tormento spirituale di un pastore protestante (incarnato dal sodale Gunnar Björnstrand) incapace di dare conforto ai fedeli. Il medesimo smarrimento viene vissuto, a meta XVII secolo, da due giovani gesuiti portoghesi (interpretati splendidamente da Andrew Garfield e Adam Driver) incaricati di mettersi sulle tracce del loro confessore (uno straordinario Liam Neeson), disperso in Giappone e creduto colpevole di apostasia. Lì dove Gunnar Björnstrand sperimentava l’incapacità esistenziale di portare sollievo, mediante la parola di Dio, ai propri fedeli, in Silence troviamo due gesuiti che sperimentano l’aberrazione della parola di Dio a scopi politici (colonizzazione territoriale ed evangelizzazione forzata). Il tormento che ne deriva (può Dio, infinitamente buono e misericordioso, consentire il male, per giunta in Suo Nome?) trova ulteriore forza nella conferma dell’atto di apostasia del confessore, convinto che la vera strada possa essere trovata nella cultura tradizionale giapponese e nella fede buddhista. Driver rifiuta l’abiura e muore per tentare di salvare una ragazza gettata in mare, Garfield segue il maestro sulla strada della conversione al buddhismo. Ma, forse, non tutto è come sembra: questo è il tema nodale del discorso scorsesiano. Se The Last Temptation of Christ e Kundun si focalizzavano sulla scelta individuale di un Uomo chiamato ad un progetto più grande di sé, Silence ne rappresenta la delineazione più smaccatamente teorica, affascinante nel suo astrattismo. Il silenzio che l’aspetto fenomenico delle cose lascia trasparire può essere, di per sé, una risposta. L’assenza può essere manifestazione di un significato, quindi può paradossalmente essere presenza. La decisione di Liam Neeson di cessare la propria azione evangelizzatrice nel Giappone del XVII secolo e di rispettare, con ciò, la cultura tradizionale nipponica a tal punto da abiurare la propria fede esteriore può essere, di per sé, un grande atto di fede. È possibile restare intimamente cristiani pur avendo, a parole e nei gesti, abbracciato la fede buddhista? Se ciò sia stato fatto nell’ottica di un bene assoluto superiore (risparmiare sofferenze alla popolazione nipponica), allora la risposta potrebbe essere sì. Il silenzio di Neeson è come il silenzio di Dio: apparenza e sostanza sono disgiunte? Il silenzio di Dio è un’assenza letterale o è un modo anch’esso di comunicare e propagare il Bene? Scorsese non fornisce risposte, non dà spiegazioni, non cade nel manicheismo e nella contrapposizione netta. Suggerisce, comunica sottovoce, lascia intuire, spesso con movimenti della mdp sottili, impercettibili, che preferiscono usare la musica (magistralmente curata da Kim Allen Kluge e Kathryn Kluge) ed il sonoro come rivendicazione di un mondo dove le parole sembrino superflue rispetto alla grandezza del progetto divino. Il lato thriller si sposa perfettamente al lato contemplativo e la fotografia di Rodrigo Prieto è determinante nel far emergere naturalisticamente la forza anche selvaggia della natura contrapposta ai sentimenti chiaroscurali degli uomini. Un film magistrale, testimone della poliedricità del genio scorsesiano, acclamato dalla critica ed ignorato dal pubblico (23.8 milioni di dollari d’incasso a fronte di 50 milioni di budget).

Voto: 9

Rilevanza: 3. Per te? No

The Irishman

  • Biografico
  • USA
  • durata 210'

Titolo originale The Irishman

Regia di Martin Scorsese

Con Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci, Harvey Keitel, Jesse Plemons, Bobby Cannavale

The Irishman

In streaming su Netflix

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In the still of the night / I held you / Held you tight / 'Cause I love / Love you so / Promise I'll never / Let you go / In the still of the night / I remember / That night in May / The stars were bright above / I'll hope and I'll pray / To keep / Your precious love / Well before the light / Hold me again / With all of your might / In the still of the night / So before the light / Hold me again / With all of your might / In the still of the night / In the still of the night / Woo-oo/ Woo-oo /oo-oh

Testamento capolavoro e pietra tombale su un genere, su una generazione di cineasti e su un modo di fare e di intendere il Cinema, in qualche modo esemplificato dal contrappasso della produzione Netflix dopo la fuga delle grandi major hollywoodiane. Non è più tempo per l’epica e l’eccitazione allucinata: gli anni sono passati, il vento è cambiato, il mondo è cambiato. In meglio o in peggio? Scorsese non risponde, sa solo che i suoi ‘goodfellas’ siano divenuti ‘oldfellas’, mestieranti della criminalità organizzata, banali pedine su uno scacchiere più grande. Come Clint Eastwood in Unforgiven (1992) cantava l’elegia funebre del genere western e dei suoi clichés magistralmente sovvertiti (i cavalli, i duelli, la virilità ostentata, addirittura il proprio corpo attoriale), allo stesso modo Scorsese pone se stesso al centro della questione, autore-demiurgo che tutto può, finanche ringiovanire digitalmente i volti del Grande Cinema Americano degli ultimi 50 anni, rendendoli (e rendendosi) fantasmi che per decenni si sono illusi di avere potere, rispetto, prestigio e che poi sono stati spazzati via dal semplice scorrere del tempo. Spettri in vita cui il deaging meravigliosamente inverosimile finisce per sottolineare, in maniera ancora più amara, quanto ormai siano fuori posto, impotenti, superflui e, di conseguenza, quanto questo tipo di cinema sia destinato tristemente ad essere destituito. Un capolavoro funereo, cimiteriale, una trenodia cinematografica, che guarda al passato – per demitizzarlo? per rimpiangerlo? per comprenderlo? – allo scopo ultimo di tentare di rispondere alla domanda di Peggy Sheeran (Anna Paquin) al padre Frank (un Robert De Niro tornato ai massimi livelli dopo decenni di mediocrità): Why? Why? Why? Peggy intuisce il terribile crimine di cui si è macchiato il padre. La reiterazione di quel Why? inchioda il senso perverso di una lealtà irrazionale alle regole non scritte della mafia, talmente forte da poter recidere qualsiasi legame, qualsiasi esistenza, qualsiasi altra forma di affetto. Il montaggio ellittico di Thelma Schoonmaker è straordinario nel suo ritmare gli attimi più sconvolgenti di quattro decenni di vita pubblica e privata, Rodrigo Prieto gioca magistralmente sui toni del legno e dell’oro, la recitazione del tridente De Niro-Pesci-Pacino è perfetta non solo tecnicamente ma anche metacinematograficamente nell’alludere ai grandi personaggi degli straordinari gangster movies degli ultimi 50 anni. Il Frank Sheeran di De Niro è la prosecuzione ideale di John “Johnny Boy” Civello, Vito Corleone, David “Noodles” Aaronson, Al Capone, Jimmy Conway, Sam “Ace” Rothstein; Pesci non è solo Russell Bufalino perché porta con sé l’eredità di Frankie Monaldi, Tommy DeVito, Nicky Santoro; Pacino non è solo Jimmy Hoffa ma è anche Michael Corleone, Tony Montana, Big Boy Caprice, Carlito Brigante, Benjamin “Lefty” Ruggiero. I pezzi swing d’epoca contribuiscono stratosfericamente al tono malinconico e i The Five Satins con l’eccezionale In The Still Of The Night sembrano rappresentare il contraltare crepuscolare del Be my baby delle The Ronettes in Mean Streets. La regia si dispiega elegiacamente nei 209 minuti di durata ed il piano sequenza lento ed incerto nei corridoi dell’ospizio è lontanissimo da quello epico dell’ingresso al Copacabana Night Club di GoodFellas. Scorsese, dopo aver narrato le gesta della criminalità newyorkese sotto varie luci, da quella cialtronesca e scapestrata del sottobosco giovanile italoamericano (Mean Streets) a quella adulta, consapevole, fieramente avida e violenta (GoodFellas, Casino), ripercorrendone i precedenti storici (Gangs of New York) e le aberrazioni contemporanee (The Departed), giunge, infine, a firmare l’ultimo geriatrico capitolo di un’esalogia unica nel suo genere. Steven Zaillian adatta magistralmente il memoir giornalistico I Heard You Paint Houses: Frank "The Irishman" Sheeran and Closing the Case on Jimmy Hoffa (2004) di Charles Brandt e firma la marcia funebre di un’America dannata, moralmente compromessa e destinata a scomparire nel dolore del rimorso. Cosa resta? Ci può essere speranza nel futuro? Forse uno spiraglio c’è: can you leave the door open a little?

Voto: 10

Rilevanza: 2. Per te? No
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