Libr(iccin)i A(ni)mati / 48: “i Vendemmiatori - una Fiaba Nera Trapanese” di Marco Bagarella (2020) – La sorte degli eclissati, il capogiro dei confini.
Presso i dintorni di Borgo Fazio, ad Ovest-NordOvest di Salemi, metà anni 10 del secolo XXI (con un post-finale affaccio dis-agganciato a un secolo prima).
Il Nostro, il sovrintendente ai tre giorni di vendemmia portata attraverso i filari sorpresi a resiliere (in letteratura scientifica il termine è d’uso comune e appropriato da sempre, e quindi da ben prima che Rocco Casalino ne ebbe a cavalcare la cresta dell’onda montante gonfiata da una moda illetterata mettendole le redini per trainare afrorosamente il PNRR) in quella terra di baglieschi (il baglio - che in questo caso specifico è quello di Ranchibile - è una masseria “fortificata” con cortile/giardino interno) possedimenti, è il protagonista narrato(re) inconsapevole di questo romanzo breve, o racconto lungo che dir-si-voglia, dipanantesi non a chiave e non ad anello, ma un po’ di tutt’un po’, sciorinando l’ampia, vasta teoria di campìe aggiuccàte a pittare e definire la brulla e riarsa pianura ciottolo-collinosa del trapanese interno, continentale, ad appena tre lustri di mille metri l’uno dalle prime praje del mare più Mediterraneo che Tirreno, siccom’è sufficiente tirare una linea retta di - aggiungendo due nullotanto zeri alla misura suddetta - mille e cinquecento chilometri, partendo dalla Punta Sottile dell’egade Favignana per ritrovarsi, prima o poi, fuori dal Grande Lago Salato, oltre le Colonne d’Ercole di Gibilterra e Tangeri, senza sfiorare altra terr’alcuna. Mentre i tre stagionali braccianti giornalieri, un padre zoppo/orbo e un figlio riccio/pazzo, e una fimmina!, pure!, a loro non accompagnata d’alcuna parentela, pare, sono al lavoro, il protagonista s’inoltra tra le vigne coltivate basse e le selvagge lande secche, le praterie e le steppe punteggiate di poggi e dossi, gli aridi pascoli a sterpaglia e le scabrose garighe intorridite dalla rovente eliofania, perdendosi in quest’immenso, sterminato Cretto di Burri naturalistico. In quel mentre passato di tarda vendemmiatura oramai terminata, un accademico studioso di un’università trinacria, ossessionato dallo scovare un floricolo endemismo siciliano, coperto da un dottorato di ricerca e accompagnato prima da un assistente associato (cattolico praticante a cui Dio “ha ordinato di essere stupido”) e da un fotografo e dalle di tutti loro famiglie e poi via via abbandonato da quasi ognuno a causa del malagevole clima cataclismato da ondate di canicola, salva sul ciglio curvo di una carrareccia camionabile (“C’è una strada tra le campagne trapanesi, che non è raro incontrare...”, dice il libro, principiandosi al lettore, e scusate la doppia apocope/aferesi mancata) un uomo uscito da essa schiantandosi con l’auto, semisvenuto e malmesso, ancora al posto di guida… Poco più in là sul calendario, una giovane psicologa e un anziano scrittore si presentano al Commissariato P.S. di Marsala con tra le mani un manoscritto d’altre mani, un paio d’idee, qualche domanda, ma non la forza e l’esigenza per arrivare al tanto di sporgere una denuncia al fin di smuovere la lagnusìa del non-Ingravallo («“Ah! Scrittore!”, segnò il funzionario, come a ricordare a sé stesso che oltre ai questori ed alle mogli a dannare le mattinate esistevano pure i romanzieri...»), dotato o meno delle gaddianamente proverbiali “una o due macchioline d'olio sul bavero”…
Forte di una lingua antiqua & nova, “sbagliata” e incorreggibile -[i “fù” ed altri errori (con qualche virgola preminentemente musicale e ritmica messa tra soggetto e predicato di troppo) voluti e cercati “sono il marchio” - come dice l’autore stesso (messaggio privato; NdR) - “a ciò che vuol dire per me aver scritto questo raccontello [...], e cioè mettere l'accento sul passato…”]-, così come solo può esserlo un dialetto in uso (confermante & rinnovante) e in disuso (ricostruibile & reinterpretabile), “i Vendemmiatori - una Fiaba Nera Trapanese” di Marco Bagarella (su FilmTV.it come @lostraniero) , conquista e avvince nell’immediato ammalìando il lettore in tra le spire delle culòvrie (la natrice dal collare, un innocuo serpente colubride, comunemente noto come biscia d’acqua) allupate, le fauci dei vardalòmi (ramarri) famelici, gli artigli delle lavòrnie (termine generico per uccelli rapaci, generalmente accipitridi: aquile e poiane) che aggrànfano e delle tistarèdde (gheppi, rapaci falconiformi) che fanno lo spirito santo librandosi ferme in volo sopr’alle prede in attesa d’essere avvistate e ghermite in picchiata, e l’archetipico/mitopoietico fars’informe pareidolicamente sesquipedalico del metatronic’ortottero acridide, genius loci di un hortus conclusus a guisa di regno di un’infanzia quiescente e risorgiva.
Non me ne vorrà l’autore, che del resto pure Umberto Eco (ma qui i nomi e i cognomi son altri: da Elsa Morante a Gesualdo Bufalino, passando per Vincenzo Consolo e arrivando a, e perché no, Andrea Camilleri, e ancora transitando, e però, per Stefano d’Arrigo) riceveva note dai suoi lettori ammaliati da “il Nome della Rosa” informantilo del fatto che le talune e le talaltre essenze arboree non potevano trovarsi in quei dati luoghi e in quella tal stagione, ma “confondere, o mescere” le cicale (emitteri, o meglio rincoti) con le blatte (blattoidei) e con gli scarabei (coleotteri) “alati” (nel senso di “volanti”, ma tutti gli scarabei lo sono), beh (“Quella notte regnò uno strano livello di cicale, o blatte, di una famiglia degli scarabei alati che nessun tassonomista volle mai vattìare, tanto è crudele il loro cri-cri e noiosa la loro disciplina...”), non si fa.
La mafia è la protagonista assente di questa storia - che narra, anche, di diritto al e di diritti sul lavoro, e di scontro fra classi sociali, e sessi -, ed è portata allo scoperto dai marabù (non i Leptoptilos africani e asiatici, ovviamente, ma bensì, e però, le cicogne, e forse le gru, secondo l’autore, ma anche, probabilmente, non certo gl’inconfondibili fenicotteri, ma degli ardeidi delle varie specie e taglie, aironi in testa, o fors’e persino il più minuto recurvirostride cavaliere d’italia, quelli sì), che alle saline e agli stagnoni salmastri di Marsala oramai preferiscono i catini seminterrati a discarica d’acqua reflua infetta e percolante tossico putridume dell’entroterra trapanese ivi traslocato, lì andandovi a morire, attirati dalla perpetua festa di morte brulicante.
Un libercolo di "preziose maturanze".
Colophon. Marco Bagarella (su FilmTV.it come @lostraniero) - “i Vendemmiatori - una Fiaba Nera Trapanese” - CùncumaSelf / StreetLib, Salemi / Trapani, 2020 - pagg. 120, € 8.00 (edizione cartacea).
***¾ / **** – 7.75
Nota. Il volume, pur essendo un’autopubblicazione - reperibile anche su Amazon/IBS & C. -, fa parte, per scherzo & gioco, di una “collana”, HorrorVago, e questo spinge a favore dell’auspicio che un prequel o un sequel alla storia di questo “best seller di borgata” possa(no) avere luogo, col giusto tempo.
Postilla. Siccome la sotto-sezione “libriccini” - aperta dal volumetto precedente, “Memorie dal Sottobosco” di Tommaso Lisa - delle playlist “Libri Animati” comprende opere non solo minuscole per numero di pagine e per le dimensioni del formato, ma tali perché pubblicate anche da piccoli editori, o “addirittura” autoprodotte, pre-annuncio qui di séguito quali saranno i prossimi lavori che tratterò (elencandoli però, per mere ragioni pratiche, non nell’ordine in cui ne scriverò), nella speranza di donar loro quel minimo di pubblicità in più: -- Daryl Gregory - “Nove Ultimi Giorni sul Pianeta Terra” - Zona42, Modena, 2020 -- Nino Chiovini - “A Piedi Nudi - una Storia di Vallintrasca” - Tararà, Verbania, 2004 -- David Quammen - “Perché Non Eravamo Pronti” - Adelphi, Milano, 2020 -- Matteo Meschiari - “Antropocene Fantastico - Scrivere un Altro Mondo” - Armillaria, Milano, 2021
Google Street View. (Vista verso il catino d’acqua di Borgo Zaffaràna: in primo piano i vigneti con i filari a spalliera bassa e all'orizzonte una schiera di pale eoliche; e alle spalle, in contro/fuori-campo, Punta Zaffaràna.)
Google Maps. (Cartina & Satellite. Cerchiati in rosso, l'epicentro e i dintorni del racconto. Salemi invece è in basso a destra. Cliccare sulle immagini per ingrandirle.)
Il libro nei luoghi del libro. (Fotografie scattate dalla nipote dell'autore.)
Con Fernando Fernan Gomez, Ana Torrent, Isabel Telleria, José Villasante, Teresa Gimpera
Borgo Fazio spuntò. Un morbo lo governava. Stagione dopo stagione, erano sparite in quel vortice immobile, le facce, le voci ed i rumori dei contadini che attraversavano le sulle, interi armenti di pecore e crasti, pelli di furetti, culòvrie, lepri affamate e tistaredde in cielo. Nei sei torrenti che lo segnavano, tutta la vita appariscente s’era dileguata. Anche le pennàte e le costruzioni coloniche, ch’erano piccoli mondi d’intimità, ora stavano scardinate e le porte, vecchie madri dell’incontro, si spalancavano invitando a starsene alla larga. Da sempre sorridevano fontane e qualche biviere lippòso, ma adesso sia le prime che gli altri erano stati travolti da smottamenti, da avvitate genesi del terreno e della mente. Tutto taceva, aspettando le ultime carezze di una luce che, dietro alla gola aperta di Zaffaràna, tracollava. L’auto passò il rettilineo scandìsando le scaffe più buie, se ne andò a mancìna e la guglia di una dimora la riconobbe.
Era una storia come altre nell’antica nascita dell’uomo, che s’erano narrate e non avevano cambiato un filo di vento nella tempesta, non potevano scansiàre i malvagi e premiare con il lascito innumerevole, i giusti. Le stesse identiche parole, chissà quante volte erano risuonate in quei campi; la fatica uguale alla fatica, la conza di maggio, la provenna, ogni tanto un morto ammazzato ed il vivo obbligato a scannarlo, la spiranza in Diopadre e Diopadre che palla solo il latino, le idee che muovono, s’aggranfano, che lottano, che sanguinano. Che marciscono. E nuove pensate, nuovi padroni, nuovi servi. La modernità. I motori che riempiono l’azzòlo della campìa, famigghie emigrate, case sterminate, i bagli che si spopolano e le strade lucide sotto ai lampi. Qualche impiccato, l’ogni tanto. I debiti, le banche, chi compra e s’arricchisce e chi si vende pure l’animo. La fatica appresso alla fatica.
Fù in quell’istante che il Nostro sentì addosso alla sua carne, un peso infelice. Non sembrava nemmeno fosse il raccapriccio, sbuffo che prima nasce sugli stivali delle forre, poi s’allungha per le tasche ed i risvolti dei cacìsi, lì prova i suoi cataclismi, ed infine sventola tra le cammìse bianche delle nuvole. Quello che l’uomo avvertì, veniva da quella voce. Era quella voce. In quell’accento dimoravano le vocali, perché si schiudessero e lasciassero scivolare i loro tentacoli sulle consonanti, s’istruisse ogni spazio tra parola e parola, e la prima e l’ultima, chiuse come due rozzi muri di pietra, stessero lì a non far uscire dal suono nemmeno una singola filània.
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