Ieri, 31 ottobre 2021, Peter Jackson ha compiuto 60 anni e così, come con altri Autori, ho deciso di omaggiare la sua carriera affrontando una 'maratona' (ferma intanto a "The Lovely Bones") di revisione della sua filmografia ed elaborando una retrospettiva-omaggio, sotto forma di playlist. Ho inoltre letto il saggio di Giulio Cicala "Il cinema di Peter Jackson" trovando, nel suo nascere come tesi di laurea, degli interessanti spunti di osservazione e di retroscena, anche se non sempre mi ha convinto pienamente soprattutto quando denota, per "Braindead", di aver visionato esclusivamente la versione doppiata. Tra i più affermati, sia per successo di pubblico sia per acclamazione critica, Cineasti contemporanei, la filmografia e la vita di Peter Jackson sono sempre (o quasi) state guidate da una profonda passione per l'Arte cinematografica e, nello specifico, per la sua capacità di rendere reale l'immaginifico attraverso stratagemmi di varia natura, dai trucchi ottici agli effetti artigianali per approdare alle tecniche di manipolazione e animazione digitale. La sua evoluzione stilistica, ad una prima occhiata, può facilmente sembrare assurda e priva di un'identità unitaria: partendo da splatterate demenziali provocatoriamente di cattivo gusto ("Bad Taste", appunto, "Meet the Feebles" e "Braindead") egli è passato repentinamente al Cinema più prettamente 'autoriale' con "Heavenly Creatures", realizzando in seguito insieme a Costa Botes una brillante 'burla' metafilmica con "Forgotten Silver" per poi ritornare al genere Horror ma dal tono più 'hollywoodiano' con "The Frighteners". È però nei primi anni 2000 che Peter Jackson si impone sulla scena cinematografica internazionale con la Trilogia kolossal dedicata a "The Lord of the Rings", fino ad allora chimera tra la gente addetta al settore cinematografico (le precedenti trasposizioni animate non furono particolarmente apprezzate, mentre diverse versioni europee, soprattutto televisive, sono finite nel dimenticatoio, non senza buone ragioni stando a quegli stralci brevissimi da me visionati). Il Trittico jacksoniano vola immediatamente in cima ai massimi incassi di tutta la Storia del Cinema, la critica generalmente esalta quest'Opera monumentale attirandogli numerosi premi tra cui in totale 17 oscar (su trenta nomination), il fandom degli scritti tolkieniani (pur con qualche prevedibile distinguo) è soddisfatto del lavoro svolto e così l'ex-mago del grottesco sanguinolento ha la possibilità di dedicarsi al progetto covato fin da bambino, ovvero il remake del Classico "King Kong", incontrando anche qui un buon successo di pubblico e critica (anche se, forse a causa del suo status di rifacimento, meno forte rispetto a "TLotR"). Nel 2009 però la sua ascesa subisce un blocco in seguito al poco esaltante riscontro ottenuto da "The Lovely Bones" (per me estremamente sottovalutato) e, nonostante gli enormi incassi, il successivo ritorno alla Terra di Mezzo con la trilogia di "The Hobbit" non riaccende la fiamma prodigiosa dell'autore il quale, nel 2018, punta sul documentario (stavolta basato su fatti veri) con l'interessante colorizzazione della prima guerra mondiale in "They Shall Not Grow Old". Pur essendo da anni annunciata da anni la sua regia di un sequel del "Tintin" diretto da Spielberg, a quanto pare Jackson pare ancora legato al documentario come testimonia l'imminente uscita della miniserie sui Beatles. Al di là dell'apparente 'instabilità' di atmosfera della sua filmografia, la Poetica di Peter Jackson mantiene sempre, per chi osserva con una discreta attenzione, una sua costanza. Oltre alla citata passione per gli effetti speciali, che porterà all'incontro con Richard Taylor e di conseguenza alla nascita della leggendaria Weta, e la predilezione per generi fantastici (ma anche l'iniziale inclinazione verso la 'stranezza' permane, anche se meno insistito, in tutta la sua produzione includendo i titoli 'esplicitamente autoriali' e i kolossal), il suo Cinema tende spesso a raccontare incontri e scontri tra mondi e idee (etiche, culturali, perché no anche politiche) di mondo, approfondendo così motivazioni e caratteri dei vari personaggi con una certa attenzione, dopo l'incontro con la moglie Fran Walsh e l'inizio della loro indissolubile collaborazione nelle sceneggiature (a cui, da "The Lord of the Rings" in poi, si aggiunge Philippa Boyens), verso le figure femminili, tanto più evidente quando si tratta di riadattare materiali pre-esistenti come appunto i Romanzi di Tolkien (dove le donne appaiono molto poco) o il "King Kong" della RKO (dove la protagonista è di fatto la classica damsel in distress). Sul piano stilistico Jackson dimostra un'ottima padronanza (aiutata dal fondamentale contributo di collaboratori assidui tra cui spicca Jamie Selkirk) del montaggio alternato, grazie al quale riesce a costruire tensioni intense nei propri pubblici, mentre sul piano fotografico si nota un gusto a mio avviso 'giocoso' verso i Colori e le loro possibili implicazioni emotive. Diversamente da altri Registi, Peter Jackson non ha un vero e proprio compositore di riferimento, a meno che non contiamo l'operato di Howard Shore sulle due trilogie tolkieniane come sei partecipazioni differenti, ma in ogni caso il sapiente utilizzo delle musiche (originali oppure no) e il ritmo impeccabile con cui vengono assemblate sulle immagini è un altro dei grandi pregi dell'artista neozelandese. Ultimo, in questo mio scritto, ma non importante aspetto caratteristico del Cinema jacksoniano è l'attaccamento per la sua New Zealand, dalla quale si è allontanato (parzialmente) soltanto in "The Lovely Bones" e i cui suggestivi paesaggi ha più volte al contempo valorizzato e trasformato. Chiudo qui questa mia introduzione, spero non troppo noiosa, all'omaggio nei confronti di questo grande Autore la cui influenza, per quanto singolarmente si possa apprezzare o detestare l'opulenza produttiva della maggioranza delle sue ultime produzioni, non credo possa essere negata ad un livello obiettivo. Riguardo alla playlist in sé, ho deciso di concentrarmi unicamente sui lungometraggi di Jackson ma, a differenza di altri Autori, la sua filmografia non presenta un gran numero di corti (che non son riuscito a trovare, tra l'altro) o serie. Per le trilogie "The Lord of the Rings" e "The Hobbit" ho deciso di seguire il metodo usato, nella mia retrospettiva del 2018 dedicata a Tarantino, al dittico di "Kill Bill", ovvero non fornire un testo di riflessione specifico per ogni titolo ma elaborare dei contributi unitari dividendoli poi arbitrariamente in tre parti (per trittico). Avviso che, durante la lettura dei vari contributi (alcuni frutto di rielaborazione anche di mie riflessioni già pubblicate in questo sito), si incontreranno alcuni SPOILER. Sono tentato, inoltre, di proporre per alcuni di questi film delle versioni 'estese' dei miei pensieri, ma questo lo vedremo in futuro. Intanto vi auguro una buona lettura sperando di aprire interessanti dibattiti sul Cinema di Peter Jackson e oltre.
Con Peter Jackson, Mike Minett, Pete O'Herne, Terry Potter, Craig Smith
BAD TASTE
Esordio di Peter Jackson alla regia di un lungometraggio, dopo un'iniziale fase come cortometraggio dal titolo "Roast of the Day" e girato poi in week-end vari per circa 4 anni, "Bad Taste" è il Manifesto programmatico del primo stadio della carriera dell'Autore. Come dice benissimo il Titolo originale, il Film è all'insegna del cattivo gusto e per questo non è certamente un'opera adatta a tutti i palati (soprattutto quelli meno avvezzi a scene disgustose, ma anche a chi ha una visione 'purista' dell'Horror in cui non c'è spazio per la demenzialità). Viene però accolta piuttosto bene dalla critica specializzata nel settore e con gli anni si è guadagnata uno status di Cult tra chi ama il filone Splatter. Seppure apparentemente acerbo e tecnicamente para-amatoriale, il film è pervaso da una cura della messa in scena, da uno studio attento delle inquadrature (la fotografia è operata da Jackson in persona) e soprattutto da un brillante lavoro di montaggio (realizzato dallo stesso Jackson assieme a Jamie Selkirk, co-responsabile del montaggio sonoro e da qui fino a "King Kong" montatore di fiducia del Regista), molto sapiente nel dare il giusto ritmo a tutta la pellicola alternando spesso ambienti e personaggi diversi e attaccando in modo magistrale pezzi girati in tempistiche larghe. In questo senso la scena in cui Derek tortura l'alieno Robert è straordinaria, visto che i due Personaggi sono interpretati entrambi dallo stesso attore (ancora Peter Jackson, voce inoltre del Ministro sentito telefonicamente nel prologo), il tutto senza rivelare come le varie inquadrature siano girate in momenti diversi. Questo potrebbe sembrare una cavolata facilissima, ma posso garantire che assemblare riprese ottenute in giorni diversi senza tradire la loro differenza non è affatto semplice, soprattutto per questioni fotografiche, e in un film a bassissimo budget il tutto diventa ancora più difficile: non è un caso se, ad esempio, negli anni '90 diversi registi opteranno per il b/n nei loro esordi. Le trovate splatter sono tutte parecchio divertenti, come la loro realizzazione (ancora curata da Jackson), e il look degli alieni (anch'esso gestito in prima persona dall'Autore) è fantasioso nel suo gusto povero. Ci troviamo di fronte ad una sorta di 'trashata' volontaria e demenziale, destinata ad un intrattenimento simpaticamente provocatorio e a volte basso, ma non manca una sottile critica all'industria delle multinazionali alimentari e nemmeno una presa per il culo degli stereotipi eroistici tipici di certi action semi-propagandistici del periodo (abbiamo pure un certo rambismo da parte di uno dei 'Boys'). Insomma, "Bad Taste" è un piccolo Cult che merita molteplici apprezzamenti, nonostante o, meglio, grazie anche alla sua estrema povertà produttiva, brillantemente riscattata da una Genialità registica che merita già di essere ritenuta autoriale.
Con Danny Mulheron, Donna Akersten, Stuart Devenie, Mark Hadlow, Ross Jolly, Brian Sergent
MEET THE FEEBLES
Come con le varie serie animate per adulti moderne (ma la base filologica va ricercata nei contributi cartooneschi di Terry Gilliam al "Monty Python's Flying Circus"), anche qui l'uso di un mezzo tradizionalmente (in occidente) diretto all'Infanzia come i pupazzi (esplicito richiamo ai Muppets, anche per la struttura di show) viene ribaltato in un umorismo demenziale decisamente non adatto all'infanzia, mostrando animali antropomorfi impegnati in ammiccamenti e rapporti sessuali (almeno uno non consenziente), uso e abuso di droga, omicidi, massacri (e anche 'cannibalismo'), parolacce (le quali, paradossalmente, 'abbassano' la volgarità media) e chi più ne ha più ne metta. Il tutto è condito da un ritmo e un (anti)gusto spesso spinto verso l'esagerazione o, meglio, l'esasperazione. Si muovono critiche, sicuramente non 'nuove' ma sempre intriganti (almeno dal mio punto di vista), al mondo dello show business, del giornalismo scandalistico e in generale alla società del benessere, rivelandone la sporcizia interiore. Non manca inoltre una sottile denuncia del moralismo, incarnato nel porcospino Robert il quale, vedendo l'amata barboncina Lucille a letto (sotto effetti di droga) con il gangster ratto Trevor, non esita a condannarla senza sentire le sue ragioni. In mezzo al Delirio squisitamente anti-estetico trova comunque spazio la rappresentazione dei sentimenti e delle psicologie dei singoli individui, raggiungendo in Heidi tocchi per certi versi tragici nella sua illusione di diva ma soprattutto dell'amore per il bieco produttore Bletch. Il massacro finale è qualcosa di straordinario e in linea con il resto di quella che potremmo identificare come una sorta di 'trilogia del cattivo gusto, ma scene cult se ne trovano praticamente ovunque. Voci azzeccatissime per ogni Personaggio, una buona fotografia, un montaggio intelligente del fidato Selkirk (l'accostamento del brano "Sodomy" alla strage è pura Arte jacksoniana), Musiche e Canzoni (di Peter Dasent, che collaborerà col Regista anche in "Braindead" ed "Heavenly Creatures") in linea con lo spirito del film ed una fantasia nel design dei pupazzi contribuiscono a rendere "Meet the Feebles" un piccolo Gioiellino, importante nell'evoluzione stilistica di Jackson anche per l'inizio della collaborazione con lo sceneggiatore Stephen Sinclair, col produttore Jim Booth e soprattutto con la moglie Fran Walsh (sposata nel 1983), da qui in poi sempre al fianco del marito nella stesura degli script, e con l'effettista Richard Taylor, con il quale poi fonderò la rinomatissima Weta. Sicuramente non è un Capolavoro e in certi m omenti il cattivo gusto 'esagera' (mi disturba un po', personalmente, il razzismo del flashback in Vietnam, seppur 'giustificabile' come distorsione mnemonica dell'alligatore), ma nel complesso "Meet the Feebles" è un'opera che andrebbe riscoperta e che nel suo piccolo ha influenzato il Cinema contemporaneo.
Con Timothy Balme, Diana Penalver, Elizabeth Moody, Ian Watkin
BRAINDEAD
Nel 1992 Peter Jackson torna per la terza volta nelle sale cinematografiche dirigendo e scrivendo (insieme alla moglie Fran Walsh e a Stephen Sinclair) "Braindead", in cui inoltre interpreta come suo solito un cameo (saltato nel precedente "Meet the Feebles"), collabora alle miniature degli effetti visivi e realizza l'animazione in stop motion (del toposcimmia). Il Lungometraggio consacra l'Autore nel panorama Horror Splatter facendogli vincere vari premi specializzati in Cinema fantastico e di Genere, ed è l'Opera in cui la sua Poetica raggiunge una certa solidità se non addirittura maturità. In particolare, se "Bad Taste" e "Meet the Feebles" conservavano una patina grezza da lavori quasi amatoriali (però di un amatore geniale), "Braindead" denota subito una certa professionalità, con una crew di effettisti (Richard Taylor e la Weta) ed altri tecnici assai competenti ed un cast composto meno da amicizie personali e più da gente del mestiere (attiva soprattutto in tv), buona parte poi presenti in altri lavori jacksoniani. Distribuito in usa col titolo "Dead Alive" e in italia con "Splatters - Gli schizzacervelli" aggiungendo dialoghi inutili e stupidi per zombie e non solo, l'Opera riprende numerose influenze dal Cinema Horror, in particolare attingendo dagli zombie movie di Romero e dagli Evil Dead di Raimi, mentre nel rapporto asfissiante tra Lionel e la madre si può notare l'ombra dell'hitchcockiano "Psycho", senza dimenticare il prologo in cui si affronta la Skull Island dell'amatissimo "King Kong". Questo bagaglio culturale viene mescolato con l'estremismo demenziale gore del Jackson degli esordi, da un lato limandone la rozzezza della comicità e dall'altro invece portando lo Splatter ad un eccesso quantitativo 'da record' culminante nel massacro finale col tosaerba. Già imprescindibile per i lati splatter-comici, "Braindead" è impreziosito nei contenuti da intriganti frecciatine contro la società perbenista (tipica dei paesini e delle cittadine 'occidentali'), derisa già nelle versione umane di personaggi come la Madre, lo spregevole maschilista molestatore zio Lionel e il prete (che, bunuelmente parlando, rientra in una satira anti-borghese) per poi ricevere una deflagrazione parodistica nelle loro mutazioni zombiesche in cui la morale composta lascia il posto al marciume interiore (ma anche allo spontaneismo, come si vede nella coppia prete-infermiera). Peggio della piaga zombie, in ogni caso, è la meschinità di un mondo in cui nazisti, dissacratori di tombe e incompetenti possono trovare facilissimo rifugio grazie alle pieghe noiose di una diffusa mentalità 'pia' ed educata, mentre la Diversità, di carattere (Lionel) e di cultura (Paquita), è soggetta ad una sottile ma crudele emarginazione e/o alla brama di colonizzazione da parte della società. Impreziosito da quella che forse è la seconda migliore colonna sonora di Peter Dasent, in cui melodie rilassanti (richiamanti la canzone "The Stars and the Moon") si fondono con motivi prettamente orrorifici, e da un montaggio di Selkirk brillante, soprattutto quando inserisce a spezzoni sempre più chiari e completi (in una modalità analoga al percorso di rivelazione graduale del passato di Harmonica nel leoniano "C'era una volta il West") il flashback della morte del padre di Lionel (interpretato dal produttore Jim Booth), "Braindead" è un Cult imperdibile per chi ama lo Splatter e/o l'Horror comico e, per me, il primo vero Capolavoro di uno dei più influenti Autori del Cinema contemporaneo.
Ormai consacrato come Autore splatter demenziale, dopo "Braindead" Peter Jackson si approccia, su suggerimento della moglie Fran Walsh (co-sceneggiatrice) e con la produzione del fidato Jim Booth (morto dopo le riprese), al celebre caso di cronaca nera Parker-Hulmel. Nasce così "Heavenly Creatures" il cui debutto nel 1994 al Festival di Venezia, oltre a guadagnarli il Leone d'Argento, apre una calda accoglienza critica conferendo a Jackson un'aurea autoriale sicuramente non prevista dagli scribacchini medi nei suoi esordi. Il Cineasta, che oltre a dirigere co-sceneggia, co-produce e come al solito si riserva un cameo, concentra il proprio sguardo sulla relazione stabilita tra le due ragazze e sul loro mondo di fantasia, appoggiandosi ad un intenso lavoro di ricerca consistente in interviste a persone loro conoscenti e nel recupero di stralci del diario di Pauline. Il risultato è una toccante Tragedia sull'Adolescenza e i problemi anche gravi che possono crearsi in questa delicatissima fase della crescita personale: il Dramma, nella trasposizione di Jackson, ha origine principalmente nell'Incomprensione che esplode nel rapporto molto intimo e innocente tra le due Protagoniste, ma non è solo l'amicizia/amore (smentito da una delle due reali autrici dell'omicidio) tra le due ragazze ad essere vittima dell'incomprensione: questa colpisce anche la loro Fantasia, il loro Spirito anti-convenzionale e gioiosamente ribelle e si unisce col bisogno di determinati Affetti non corrisposti soddisfacentemente. Il punto di vista di Juliet e Pauline viene messo in scena con un Gusto molto fiabesco e spensierato distorcendo la realtà sia con intrusioni Fantasy sia con inquadrature otticamente distorte, aiutandosi inoltre con le intense interpretazioni delle esordienti Kate Winslet (l'esuberante Juliet) e Melanie Lynskey (l'introversa Pauline). Jackson però mostra anche il punto di vista delle rispettive famiglie e, in particolare, Honora, madre di Pauline e vittima delle due giovani, viene tratteggiata con molta umanità, facendo trasparire nella messa in scena e nella recitazione di Sarah Peirse un amore sincero per la figlia che però spinge la donna (e anche le altre figure genitoriali) ad azioni, parole e pensieri controproducenti e dannosi. "Heavenly Creatures" è un'Opera complessa, tra le più ambiziose e mature del Regista il quale tiene memoria degli Esperimenti formali realizzati nei grotteschi Film degli Inizi proiettandoli in una dimensione più drammatica ma mai pesantemente seriosa, non priva di auto-ironia e soprattutto sempre intimamente personale. Straordinaria la costruzione della tensione nel Finale che riprende con squisite variazioni il Montaggio iniziale (dopo la propaganda idilliaca della cittadina) in cui l'allegra corsa in bianco e nero (sognata) sulla nave è alternata alla corsa disperata e sanguinosa delle stesse dopo l'uccisione (inizialmente spacciato per incidente) di Honora per poi mutarsi concettualmente nella definitiva separazione delle due amiche dopo il processo. Un Cast in grandissima forma, una Fotografia sublime di Alun Bollinger, un ottimo montaggio di Selkirk e una meravigliosa colonna sonora di Peter Dasent con numerosi innesti classici (prevalentemente cantati da Mario Lanza) contribuiscono a rendere "Heavenly Creatures" un'Opera d'Arte imperdibile, un passaggio fondamentale nell'evoluzione stilistica di Jackson e, per me, il suo secondo Capolavoro, ottimo tanto nella versione internazionale sia in quella estesa.
Nel 1995 Peter Jackson co-dirige, co-sceneggia e co-interpreta con Costa Botes "Forgotten Silver", svolgendo inoltre il ruolo di produttore esecutivo mentre la moglie Fran Walsh fa da script consultant e supervisor. Lo Sperimentalismo del Cineasta neozelandese si dirige verso il documentario o, meglio, il mockumentary, di cui sottolinea le potenzialità meta-cinematografiche attraverso lo 'studio' della vita di un sensazionale (fittizio) Pioniere del Cinema, neozelandese e mondiale: Colin McKenzie. La serietà degli interventi (oltre alla seconda moglie di Colin, Hannah McKenzie, interpretata da Beatrice Ashton, abbiamo lo storico del Cinema Leonard Maltin, l'attore e regista Sam Neill e l'infame produttore Harvey Weinstein), del lavoro di 'autenticazione' sui 'filmati d'epoca' (entrambi, interviste e opere mckenzieane, dirette da Jackson, invece Botes si occupa delle parti più documentaristiche, suo campo principale d'interesse) e altri documenti ed elementi riescono a rendere quasi credibile questa scoperta incredibile, anche se le esagerazioni sulle scoperte (la carrellata, il sonoro, il colore, il primo piano, il kolossal e così via) e le bizzarrie della carriera di McKenzie sono indizi per un occhio attento e/o più o meno esperto della Storia del Cinema (e/o consapevole della natura mockumentaristica dell'Opera) piuttosto forti della 'giocosità' dell'operazione. L'(Auto)Ironia e la Goliardia tipica del primo Periodo di Jackson (ma presente, seppure più 'nascosta', in tutta la sua Filmografia) infatti è parte fondante dello Spirito del Film, nonostante l'apparente serietà con cui si presenta l'Opera: anzi, proprio a causa di essa lo scherzo riesce così egregiamente, sia nella commistione tra Omaggio e Parodia al Cinema e alla sua Storia (in particolare c'è chi ha avvertito un'irrisione nei confronti di certi documentari celebrativi e della pretesa di assumere la paternità nazionalistica della nascita della Settima Arte), sia nel suscitare un effetto sul pubblico (televisivo) a cui si rivolge, tant'è che diverse persone credettero realmente alla storia di McKenzie (interpretato da Thomas Robins, futuro Deagol in "The Lord of the Rings", mentre la sua amata May Belle è interpretata da Sarah McLeod, poi Rose Cotton, e Richard Taylor interpreta il 'primo aviatore'). A quanto pare la riuscita dello scherzo creò pure qualche controversia venendo interpretato da taluni individui come una specie di truffa arrivando anche ad esternazioni irate. "Forgotten Silver" è una Pellicola da vedere se si ama il Cinema ed inoltre è uno di quei Film la cui visione mi sprona a buttarmi anima e corpo nella realizzazione pratica di Opere audiovisive. Anche qui, inoltre, troviamo il gusto intrigante di Jackson per il montaggio alternato o, meglio, parallelo, avvertibile in particolare nell'ultimo atto del Film dove le vicende biografiche di Colin McKenzie si intersecano con la 'spedizione' di Jackson, Botes e compagnia varia alla ricerca del set di "Salome".
Concepito da Fran Walsh e Peter Jackson nel 1992, durante la stesura di "Heavenly Creatures", inizialmente l'intento è di vendere lo script ad Hollywood attirando così l'attenzione di Robert Zemeckis che, dopo un'idea di spin off per "Tales from the Crypt", decide di avviare il progetto ma con l'Autore neozelandese alla regia. La lavorazione, quindi, invece di svolgersi a Los Angeles si sposta in New Zealand dove vengono ricostruiti con una certa precisione gli united states medioccidentali. Oltre alla regia e alla sceneggiatura Jackson si assume l'incarico di produttore insieme al montatore Jamie Selkirk e, come suo solito, si ritaglia un cameo mentre la moglie co-sceneggiatrice Walsh svolge il ruolo di produttrice associata e il loro figlio duenne Billy interpreta un bambino. Visto parzialmente da ragazzino per caso in tv, ancora ignoravo che il film fosse diretto da Peter Jackson. Quando lo vidi integralmente (e in director's cut), nonostante il sostanziale divertimento dell'idea, della messa in scena (auto)ironica del Regista e di molte trovate, non mi convinse pienamente, soprattutto nella seconda parte in cui si assiste ad un confronto più mainstream tra bene e male. La divisione piuttosto marcata e manichea tra buoni e cattivi, con tanto di ripartizione dei primi in paradiso e dei secondi all'inferno, mi lasciò dell'amaro in bocca e un pochino mi irritai nel vedere quasi auspicata per la coppia di killer la pena di morte. Però poi ho pensato che questo 'manicheismo' avvicina "The Frighteners" alla Trilogia di "The Lord of the Rings" e quindi forse potrebbe essere letto come una metafora della lotta interiore per la Vita non come mera sopravvivenza ma come ripartenza nonostante le profonde Sofferenze. Riguardandolo, sempre in director's cut, pur confermando un minore apprezzamento rispetto ad altre Opere del Regista neozelandese e conservando i dilemmi morali, penso che "The Frighteners" si presenti come un passo importante nell'evoluzione di Jackson avvicinandolo, nonostante gli incassi non esaltanti (ma bilanciati da un buon apprezzamento critico e dalla soddisfazione di Zemeckis), all'ambizione 'da grande pubblico' di "The Lord of the Rings" e "King Kong". Molto ben costruiti, nella recitazione e nella scrittura, risultano i vari personaggi: in particolare Milton Dammers, l'agente speciale dell'fbi interpretato da Jeffrey Combs, con tutto il suo delirio forgiato da esperienze sotto copertura in molteplici sette schizzate conserva la Forza ai limiti del Grottesco di Jackson, e lo stesso vale per i numerosi Fantasmi, da quelli comprimari alle mezze comparsate. Gli effetti digitali hanno un loro perché e costituiscono un'importante palestra per i futuri kolossal dell'Autore e per la Weta in generale e nel complesso "The Frighteners" è un'opera minore ma interessante nella filmografia jacksoniana.
John Ronald Reuel Tolkien è sicuramente uno dei più grandi e influenti Scrittori del '900, specialmente per le sue Opere (molte incompiute e/o rielaborate, seguendo i suoi appunti, dal figlio Christopher) ambientate nella Middle-Earth, la Terra di Mezzo alla cui creazione dedicò praticamente tutta la sua vita curandone con estrema precisione storia e lingue, il tutto aiutato dalla sua vasta cultura negli ambiti mitologici e, appunto, linguistici. L'influenza dell'Autore sulla Letteratura contemporanea è incalcolabile e fondamentale è stato il suo contributo nel rilancio e nella ridefinizione del Genere Fantasy come lo intendiamo oggi. Non stupiscono, quindi, i numerosi tentativi di trasportare "The Hobbit" e "The Lord of the Rings" in altre forme artistiche e in particolare al Cinema. Con Tolkien in vita non ne venne realizzata nessuna (a parte, sembra, una miniserie televisiva svedese del 1971) ma di pretendenti ce ne furono parecchi tra cui Walt Disney (il primo, nel '38, a puntare "The Hobbit", quando il 'sequel' era ancora in fasi molto preliminari di composizione), Forrest J. Ackerman (poi apparso in "Braindead" di Jackson), i Beatles e John Boorman (il quale ripiegherà, con ottimi risultati, su "Excalibur"). Dopo la morte dello Scrittore, oltre a svariate versioni est-europee, escono tre film animati tratti dai suoi lavori: il televisivo "The Hobbit" di Rankin & Bass, il cinematografico "The Lord of the Rings" di Bakshi (che nel '77 aveva realizzato l'interessante "Wizards") e "The Return of the King" con ancora Rankin & Bass al timone, ma nessuna di queste pellicole ottiene particolari apprezzamenti da quel che mi risulta. Il progetto di un adattamento in live action rimane così per decenni una chimera fino a quando, durante la post-produzione di "The Frighteners", Peter Jackson e la moglie Fran Walsh non arrivano a discutere sull'idea di realizzare un fantasy originale: non riuscendo a pensare scenari estranei all'immaginario tolkieniano, la coppia decide di puntare ai diritti sulle Opere del Letterato britannico. Dopo un iniziale approccio con Harvey Weinstein, con cui speravano di realizzare prima "The Hobbit" e poi due "The Lord of the Rings" ma decidendo presto di invertire i progetti, ad un certo punto il bieco produttore si impunta per una sola pellicola di due ore minacciando la sostituzione di Jackson (con registi come Tarantino).
[continua in "The Two Towers" e in "The Return of the King"]
Fortunatamente, dopo varie traversie, i diritti passano alla New Line Cinema il cui CEO, Robert Shaye, richiede l'espansione in una trilogia, ipotesi molto superiore rispetto alle più rosee speranze del Cineasta neozelandese, e quindi finalmente "The Lord of the Rings" ha modo di nascere. Con una lavorazione mastodontica durata diversi anni, un imponente implemento delle tecnologie digitali per gli effetti speciali tra moltiplicazione delle masse e lavori avanguardistici sulla motion capture, la Trilogia, composta da "The Fellowship of the Rings", "The Two Towers" e "The Return of the King" (per facilitare le tempistiche montati da diverse persone, ovvero John Gilbert nel primo, Michael Horton, già 'usato' in "Forgotten Silver", nel secondo e il fidatissimo Jamie Selkirk nel terzo) esce nelle sale cinematografiche nel 2001, 2002 e 2003 guadagnando un enorme e crescente successo di pubblico e critica culminante negli 11 oscar (record con "Ben Hur" e "Titanic") per il capitolo conclusivo, imponendo Peter Jackson tra i più influenti cineasti del nuovo millennio (e permettendogli in questo modo di realizzare finalmente "King Kong") e, analogamente alla Saga letteraria, rilanciare e ridefinire il Fantasy cinematografico come lo intendiamo oggi. Da me vista e rivista più volte fin da ragazzino (il terzo pure in sala), soprattutto nelle versioni cinematografiche ma qualche volta (ultima inclusa) in extended cut (a tal proposito credo di preferire le prime ma mi intrigano diversi ampliamenti delle seconde), la Trilogia jacksoniana di "The Lord of the Rings" ha influenzato moltissimo i miei gusti cinematografici per anni: pur con alcuni mutamenti d'idea in base alle mie evoluzioni, l'ho sempre considerata una delle migliori opere cinematografiche in ambito mainstream e, riflettendo durante la mia recente 'maratona', son tornato ora a 'valutarla' come un Capolavoro. La Poetica di Jackson non si svende alle regole di mercato e anzi approfitta dei notevoli mezzi a disposizione per imprimere sulla propria estetica un'atmosfera genuinamente epica, e viceversa. Il materiale tolkieniano viene ripreso sì con una buona fedeltà e un profondo rispetto, grazie all'aiuto di parecchia gente esperta dei Libri a partire da Philippa Boyens che da qui in poi si unirà alla coppia Jackson-Walsh in praticamente tutte le loro successive sceneggiature, ma poi il Regista se ne appropria piegandolo alla sua Personalità, tra inserimenti auto-ironici e horror e un utilizzo intelligente del montaggio alternato e della dialettica tra diegesi ed extra-diegesi (soprattutto musicale). Emblematica, per questi ultimi due aspetti, la sequenza della disfatta di Faramir accostata al pranzo 'brutale' del padre Denethor mentre Pippin intona un canto melanconico.
[continua da "The Fellowship of the Ring" e da "The Two Towers"]
Le tematiche spirituali di Tolkien, tra critica (cattolica) alla corruzione del potere, visione terrificante della guerra e amore per la natura e la semplicità in contrasto con la freddezza crudele del mondo industriale (il termine "industry" è esplicitamente proferito da Saruman all'inizio di "The Two Towers") si trovano benissimo anche nelle trasposizioni jacksoniane in cui però vengono approfonditi (per me giustamente) i ruoli dei vari personaggi femminili che, pur mantenendo insieme un minutaggio inferiore a buona parte dei singoli protagonisti maschili (e restando sostanzialmente sempre solo Galadriel, Arwen ed Eowyin), hanno modo di valorizzare le proprie azioni e scelte nel corso delle vicende narrate. La Coralità del racconto è un altro elemento superbamente mantenuto nei Film e dà modo di brillare a Personaggi apparentemente secondari (se guardiamo superficialmente la loro volutamente modesta presentazione iniziale) come Samwise Gamgee, amato molto da Tolkien stesso se la memoria non m'inganna, oppure Pippin e Merry, Theoden, Faramir e così via. Ma è specialmente su Gollum/Smeagol che si è svolto il lavoro più impressionante, non solo nella realizzazione tecnica (ancora oggi la sua motion capture è sbalorditiva) e nell'interpretazione mimico-vocale del grandissimo Andy Serkis, ma anche nello spessore psicologico. Il suo costante conflitto interiore, espresso in monologhi magnifici sul piano del montaggio (gli stacchi danno un'impressione di campo e controcampo analoghi a quelli di Norman/Goblin nello "Spider-Man" di Raimi), conferiscono un'aurea tragica estremamente complessa e, nonostante la piega finale 'da villain' (che però, come nel Romanzo, salva inconsciamente la Middle-Earth cadendo nel Mount Doom con l'anello strappato a Frodo), non è mai chiaramente risolto in 'bene' o 'male', come si evince ad esempio nell'espressione commossa che gli sfugge durante il discorso di Sam sulle grandi storie in "The Two Towers". Impreziosito da una Colonna Sonora maestosa del cronenberghiano Howard Shore, un Cast tutto in parte, un reparto tecnico di altissimo livello e dalle suggestive ambientazioni neo-zelandesi, "The Lord of the Rings" è un Trittico imprescindibile nella Storia del Cinema, nonostante alcune cadute di tono qua e là (già vediamo, in particolare, alcune tentazioni di estremismo digitale, molto più circoscritte però rispetto ai successivi "The Hobbit") e un notabile ma giustificabile stacco atmosferico tra "The Fellowship of the Rings" (più 'dark') e gli altri due capitoli (più epici), difetti che però non danneggiano minimamente la forza di questo neo-Classico.
Com'è noto, tutta la carriera professionale di Peter Jackson ha, a partire da 9 anni, come fine 'ultimo' l'ambizioso progetto di remake del "King Kong" di Cooper e Schoedsack ed ogni esperienza tecnica verrà presa come auto-lezione fino a quando nel 1995 l'Universal, impressionata dai giornalieri e dai primi effetti di "The Frighteners" (in fase di riprese), offre al Cineasta la possibilità di lavorare al suo sogno per poi purtroppo bloccare tutto nel 1997. Dopo l'enorme successo di "The Lord of the Rings", in cui ha modo di sperimentare tecnologie digitali avanguardistiche, Jackson ri-calamita l'offerta dell'Universa e, scartando la bozza di script degli anni '90, con la fidatissima moglie Walsh e la nuova collaboratrice Boyens lavora su una nuova sceneggiatura volta a riprendere fedelmente il materiale di partenza re-inserendo varie parti tagliate e approfondendo caratterialmente i vari personaggi. Dopo un inizio quasi deludente al botteghino il "King Kong" jacksoniano guadagna presto i primi posti nelle classifiche d'incassi dell'annata e una buona accoglienza critica e ancora oggi sembra rimanere saldo nelle memorie e nell'affetto collettivo. Pur avendolo in alcuni momenti 'ridimensionato' come il tipico kolossal che vuole far vedere la sua 'grossezza' con eccesso di presunzione, ho sempre mantenuto una certa stima per quest'Opera, in cui si vede quanto l'Autore ci tenesse recuperando lo Spirito del Film originario e sposandolo alla propria Poetica, proponendo diverse trovate horror nella messa in scena senza aver paura dello Sporco e sottolineando la dimensione tragica e romantica dello Scimmione che passa dall'essere il Re Solitario di un'isola selvaggia alla condizione di 'Straniero' in un'isola (New York) 'civile' e crudele. Ho sempre, inoltre, apprezzato moltissimo il lavoro di ricostruzione storica degli usa piegati dalla crisi economica, evidente nel brillante prologo. Pur non perdendo qualche caduta (inconsapevole) nei cliché colonialisti dell'Originale e negli spettacolarismi più o meno fini a sé stessi, Jackson porta ancora avanti tematiche personali come l'incontro e scontro tra mondi e culture diverse, la rovina insita nell'ambizione liberata da scrupoli (il Carl Denham dell'insolito ma efficace Jack Black potrebbe per certi versi essere visto come un auto-monito del Regista) e infondendo nella Protagonista femminile una forza caratteriale decisamente maggiore rispetto all'urlante versione di Fay Wray. Intensa anche qui è l'interpretazione in motion capture di King Kong da parte di Andy Serkis (che veste pure i panni del cuoco Lumpy), credibile come gorilla gigante e al contempo pregno di umanità nelle espressioni mimiche del volto. I meravigliosi effetti speciali, le avvincenti Musiche di James Newton Howard, la pittorica Fotografia di Andrew Lesnie (suo collaboratore fisso da "The Lord of the Rings"), l'ottimo cast, il Montaggio sapiente, soprattutto nell'alternare scene differenti per veicolare un preciso stato d'animo (o ingannare il pubblico, come si vede nello spettacolo di Anne accostato all'esposizione di Kong), del fidatissimo Jamie Selkirk contribuiscono a rendere "King Kong" un'altra grande Opera d'Arte cinematografica per Peter Jackson e, dopo l'ultima visione (estesa, interessante ma non imperdibile nelle aggiunte in sé), rafforzo anche qui il mio gradimento reputandolo un Cult quasi imperdibile.
La volontà di trasportare al cinema il romanzo di Alice Sebold "The Lovely Bones" nasce già nel 2000 quando, due anni in anticipo sulla pubblicazione e con stesura ferma ancora a metà manoscritto, la Film4 ne acquista i diritti con Lynne Ramsay assunto per la regia e la sceneggiatura: dopo diverse traversie nel 2004 Peter Jackson, colpito dal Romanzo, insieme a Fran Walsh e a Philippa Boyens entra in trattativa per sviluppare il progetto e nel 2007 finalmente iniziano ufficialmente i lavori con la DreamWorks di Spielberg impegnata finanziariamente e per la prima volta il Cineasta gira negli usa, in Pennsylvania, ma diverse riprese continuano ad essere svolte nella sua New Zealand. Alla sua uscita la critica, pur elogiando le interpretazioni della protagonista Saoirse Ronan e dell'antagonista Stanley Tucci e apprezzando generalmente la regia tecnica di Jackson, accoglie malamente l'opera limitandone così il successo economico. Alla mia prima visione (diversi anni dopo essere stato attirato da una lettura su un best movie in omaggio al cinema) trovai "The Lovely Bones", nonostante magari qualche passaggio retorico e/o vagamente perbenista (il killer appare come un cattivo senza redenzione e alla fine muore) e/o vagamente buonista e nonostante la sostanziale onnipresenza della Voce fuori campo (espediente da me solitamente poco amato), un'Opera squisitamente poetica vicina per certi versi al Clima misto di Fiaba, Tragedia macabra e Lirismo che caratterizzava "Heavenly Creatures". Alla seconda visione confermo e rafforzo queste mie impressioni, ritenendolo ora un altro cult quasi imperdibile dell'Autore. I sopra citati 'difetti', innanzitutto, o rientrano nello spirito della Pellicola oppure addirittura si rivelano non essere ciò che sembrano: la 'punizione' del villain, ad esempio, non è per me una vera vittoria del 'bene' sul 'male' ma più una sorta di 'karma' senza tra l'altro arrivare all'arresto dell'uomo o alla scoperta del cadavere della Protagonista. Inoltre Tucci evidenzia con la sua interpretazione come le azioni orribili e imperdonabili del suo personaggio siano dettate (ma non giustificate) da una malattia e da un profondo Vuoto interiori, e a volte si arriva quasi a compatirlo, pur senza simpatizzare per lui. L'uso della voce fuori campo, invece, pur essendo come detto un espediente da me poco amato, qua risulta necessario e inevitabile: per quanto le Immagini del Limbo siano suggestive, da sole non bastano a dare un'idea delle Domande esistenziali della Protagonista Susie e comunque la sua narrazione non va ad indicare una verità dogmatica ma, appunto, instilla nell'individuo spettatore la brama vitale di cimentarsi in una Inchiesta interiore sull'Esistenza soprattutto personale. Sul piano estetico il Film vanta, oltre a delle Immagini estremamente suggestive del Limbo, una toccante Colonna Sonora di Brian Eno in cui si innestano brani preesistenti suoi e di altri artisti, un Cast intenso in cui, anche per me, spiccano Ronan nei panni tragici della Protagonista e un Tucci inquietantissimo. È però, insieme al Tema di incontro/conflitto tra mondi diversi, forse nel Montaggio, curato stavolta da Jabez Olssen (da qui sostituto di Selkirk), che ancora una volta Peter Jackson fa sentire potentemente la propria mano. Chiudendo, "The Lovely Bones" è per me una delle Opere migliori, sul piano artistico, dirette da Peter Jackson e merita un'attentissima Riscoperta.
Come per "The Lord of the Rings", anche "The Hobbit" è stato a lungo corteggiato da case di produzione e registi vari e lo stesso Peter Jackson aveva pensato, durante le trattative con Weinstein, di trasportarlo al cinema prima di ripiegare sull'altra Trilogia. Dopo una causa legale lanciata dall'Autore alla New Line Cinema nel 2007 questa, insieme alla MGM, annuncia l'inizio dei lavori di preparazione. Jackson, per evitare l'insoddisfazione di competere con la sua Opera più celebrata, rinuncia alla regia che viene affidata al grandissimo Guillermo del Toro, impegnato nella sceneggiatura insieme al solido trio Jackson-Walsh-Boyens. Il progetto prevede un dittico composto da una prima parte fedele allo spirito fiabesco del Romanzo ed una seconda invece con la funzione di traghettare la nuova saga nella dimensione epica di "The Lord of the Rings", attingendo anche ad appendici tolkieniane varie. Segue però un oceano di problemi, tra guai finanziari della MGM (a rischio bancarotta), allontanamento (ufficialmente spontaneo, ma i sospetti di 'giochetti' produttivi sono fortissimi) di del Toro e ritorno, dopo altre opzioni, della regia nelle mani riluttanti di Jackson (a cui viene dato poco tempo per preparare la 'sua' versione mentre quella, frutto di anni di lavoro, di del Toro deve essere 'distrutta'). Inoltre giunge uno sciopero nel reparto cinematografico neozelandese cui seguono minacce (appoggiate anche dallo stesso Regista) di abbandono della New Zealand per culminare nella controversa 'Hobbit Law' (in alcune letture interpretata come un atto di svendita del paese alle major hollywoodiane) e infine si approda al gonfiamento del progetto in una trilogia.
[continua in "The Desolation of Smaug" e "The Battle of the Five Armies"]
Tutto questo casino (consiglio a riguardo la visione di un trittico, ironicamente presentato come 'dittico' nelle prime diue parti, di analisi video elaborato da Lindsay Ellis aiutandosi con interviste a persone varie tra cui membri del cast) si avverte nella trilogia. È soprattutto evidente come la Passione e la ferrea volontà di realizzare qualcosa non solo di fedele alla fonte ma soprattutto di personale da parte di Jackson (sua costante nella precedente Trilogia e in tutta la sua carriera finora) venga soppiantata dal desiderio delle major di sbancare al botteghino senza rischiare troppo. Il risultato è, quindi, un tentativo raffazzonato di accontentare il fandom dell'epica della vecchia serie trilogica con quello più legato al Romanzo specifico in questione e, nello stesso tempo, attirare il pubblico di massa (con roba come il Marvel Cinematic Universe in via di espansione) il tutto allungando il brodo in tre film da quasi 3 ore di durata ciascuno, infarcendola di momenti dal sapore troppo videoludico (gusto che sempre di più ha colonizzato il cinema mainstream), tira e molla nei rapporti tra i personaggi, una storia d'amore infilata a cazzo (scontentando Evangeline Lilly che accetta il ruolo appositamente creato dell'elfa Tauriel a patto di non avere interessi sentimentali, ma le major se ne sbattono e così compromettono uno dei personaggi potenzialmente più in linea con le forti protagoniste jacksoniane), senza dimenticare altro fan service a gogo.
[continua da "An Unexpected Journey" e "The Desolation of Smaug"]
Aggiungiamo una CGI estremamente invasiva (mentre prima Jackson e la Weta avevano sempre brillantemente bilanciato effetti digitali con trucchi ottici e artigianali), un crescente decentramento di Bilbo Baggins (l'Hobbit su cui si focalizza il titolo) soprattutto in "The Desolation of Smaug" e "The Battle of the Five Armies" ("An Unexpected Journey" fortunatamente lo mette 'sotto i riflettori' dovendo presentarlo e proporre il suo scontro con Gollum), un 3D inutile e una disturbante velocità di ripresa in 48 fps, un cast sì buono ma in gran parte sottotono, musiche di Shore sì molto buone ma spesso dall'effetto déjà vu, battute (quelle non tolkieniane) in certi punti banalissime, voglia di avere dei nani 'fighi' confondendo però la figaggine con lo spessore psicologico e altri motivi e la delusione enorme, mia e non solo, nei confronti di questo progetto si spiega facilmente. Per contro, però, va detto che tecnicamente Jackson è sempre molto valido, anche se svogliato e stanco, i momenti più in linea con il Romanzo funzionano quasi sempre bene, Martin Freeman è un Bilbo Baggins straordinariamente in parte in quanto perfetto inglese di campagna, la voce di Benedict Cumberbatch su Smaug (e il 'Necromancer') è sensazionale, e qualche spunto di riflessione ad esempio sugli orrori della guerra e l'avidità si trova. Insomma, la trilogia di "The Hobbit" è per me preferibile rispetto a buona parte dei recenti film Marvel (per non parlare di altra robaccia blockbuster), ma è sicuramente il punto artisticamente più spento e deludente raggiunto da Peter Jackson in tutta la sua filmografia registica: forse per questo ultimamente sembra più interessato ai documentari...
Più di 20 anni dopo il geniale "Forgotten Silver" Peter Jackson torna sul mezzo documentaristico ma, stavolta, il materiale affrontato è autentico. Infatti nel 2015 il Cineasta neozelandese viene approcciato dalla 14-18 NOW e dall'Imperial War Museum, con la rete televisiva BBC pure interessata, per realizzare un progetto di ricordo della prima guerra mondiale in occasione del suo centenario. Da sempre affascinato da quest'evento storico, in cui partecipò suo nonno in prima persona (come anche J.R.R. Tolkien), Jackson accetta l'incarico e nasce così "They Shall Not Grow Old", debuttando prima ad una presentazione speciale al BFI London Film Festival e poi venendo distribuito in alcune sale. Il film riprende diverse interviste (il materiale vagliato pare aggirarsi sulle 600 ore) a veterani vari, molti dei quali minorenni al momento dell'arruolamento, e recupera inoltre filmati d'epoca (su un centinaio di ore raccolte) ma Jackson, invece di costruire un documentario didattico qualsiasi, decide di puntare sull'immersione psicologica degli individui spettatori nell'atmosfera respirata dai soldati. Per ottenere ciò ancora una volta opta per la sperimentazione di tecniche particolari, in particolare colorizzando le immagini e aggiungendo suoni e dialoghi (ricostruendo in certi punti i labiali delle persone filmate). Inoltre, invece di presentare le interviste con le tradizionali didascalie volte ad indicare l'identità delle persone parlanti, l'Autore preferisce costruire un'antologia di impressioni e ricordi soggettivi mantenuti nell'anonimato ottenendo così un mosaico emotivo del conflitto che evita di scadere nella solita propaganda retorica, militarista e patriottica: certo, dalle parole dei reduci non mancano alcuni accenni di questi sentimenti, ma rispondono all'emotività soggettiva di chi parla senza particolari enfasi programmatiche e il più delle volte emerge un'impressione di totale inutilità del conflitto, con ammirazione per i soldati nemici tedeschi e riconoscimento, in essi, delle stesse sofferenze e fatiche subite dagli inglesi. "They Shall Not Grow Old" è, dunque, un lavoro molto interessante, rafforzato nelle musiche dei Plan 9 (che già avevano lavorato al citato "Forgotten Silver") e ancor di più nelle canzoni in voga nell'esercito (in particolare "Mademoiselle From Armentières", che sentiamo estesa nei titoli di coda). Spero di rivederlo presto, così come sono curioso di visionare l'imminente miniserie, sempre documentaristica, "The Beatles: Get Back", presentato da Jackson come «a documentary about a documentary» (un documentario su un documentario).
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