Amo il Teatro, che a modesti livelli ho anche fatto, e trovarlo a volte abbinato all'altro piacere del Cinema mi da una grande gioia.
Questa passione, senz'altro condivisa da molti, mi ha portato a scegliere una dozzina di film fra quelli degli ultimi 50 anni tali da soddisfare il requisito, evidentemente generico, di avere dentro "abbastanza" teatro, cioè che esso costituisca un elemento con una significativa incidenza negli equilibri generali del film, e che soddisfino pure l'altro requisito di non essere una pura e semplice messa in scena cinematografica, dal primo istante alla parola Fine, di un'opera teatrale (com'è il "Romeo e Giulietta" di Zeffirelli).
Oltre quelli presentati ce ne sono molti altri (fra i quali due che mi ero perso ma dovrebbero arrivarmi a breve) e conto che molti ci aiutino con il loro contributo a superare queste mancanze. Buon Cinema e Buon Teatro a tutti.
Con Carol Burnett, Michael Caine, Denholm Elliott, Christopher Reeve
Bello per chi ama il cinema, bello per chi ama il teatro e bellissimo per chi li ama tutti e due. Mostra una scalcinata compagnia teatrale e il suo povero regista (Michael Caine) alle prese con le prove di una commedia dalla trama particolarmente movimentata. Fra entrate e uscite, cambi di stanza e di piano, attori che non sanno la parte o sbagliano i tempi, o litigano per invidie e gelosie, offre una girandola di esilaranti situazioni, a volte farsesche mai grevi, che riescono a regalare a raffica divertiti sorrisi e convinte risate. Gli spostamenti della compagnia, mostrata al lavoro in altre sedi e su altre parti della commedia, uniti all'evolversi dei vari rapporti personali mantengono la freschezza evitando ripetizioni.
Si basa sulla commedia di Michael Fray, messa in scena raramente in Italia anche perché un palcoscenico teatrale difficilmente può offrire la possibilità di immediato passaggio dalla vista sul palco alla vista del dietro le quinte che il cinema consente.
Con Wallace Shawn, George Gaynes, Julianne Moore, Brooke Smith
Per la felicità degli appassionati, e degli amanti di Cechov in particolare, qui di teatro ce n'è molto. Vediamo un regista e degli attori normalmente vestiti recarsi alle prove dello "Zio Vanja", sistemarsi in una comune ampia sala dove in sequenza provano le varie scene della commedia. Nelle pause si dissetano, scambiano qualche parola, e chi prima non era impegnato si fa avanti per la sua scena.
Tutto qui? Tutto qui, salvo una piccola precisazione: recitano uno Zio Vanja da brividi per la bravura di tutti, non solo di una Julienne Moore nella sua forma migliore. Ma allora perché farlo dentro un film e non a teatro? Elementare Watson: perché la mancanza di ambientazione, abiti di scena, trucco, fondali, giochi di luce e musiche di accompagnamento permette e/o costringe tutti a concentrarsi interamente sul proprio personaggio depurandolo dal superfluo e dandogli una verità che arriva in pieno allo spettatore.
Edmond Restand e il suo amico Volny affidano i loro successi l'uno come autore e l'altro come attore alla commedia "Cyrano di Bergerac". Come riuscire a scriverla in 20 giorni? Utilizzando anzitutto i romantici versi di una fitta corrispondenza amorosa che avviene fra scambi di persona, gelosie coniugali e litigi fra i due amici. Così il mondo del teatro diventa il protagonista principe della pellicola, con ambigui finanziatori, avversari determinati a impedire la rappresentazione, problemi per gli abiti, ma anche prove sul palco, primattori che se la tirano e questioni fra i comprimari.
E se alla fine la platea è mezza vuota ecco irrompere le disinvolte fanciulle del "Alle belle gallinelle" e gli avventori dei bar vicini. Vivaci i ritmi di una regia che consente di saltellare fra i momenti clou del "Cyrano" messo in scena, compresa la commovente scena finale nella quale puro teatro e puro cinema si fondono.
Qui di recitazione sul palcoscenico ne vediamo poca e solo alla fine, eppure di teatro ce n'è tanto, proposto in modo sottilmente intrigante. Maria, un'importante attrice interpretata dalla Binoche, fatica ad accettare l'avanzare dell'età. Qui la vediamo preparare il suo prossimo spettacolo con l'aiuto di un'efficientissima assistente (Valentine, interpretata da Kristen Stewart) insieme alla quale ripassa la parte.
Grande la bravura delle due protagoniste, supportate da un'adeguata regia e sceneggiatura. Tanto che di fronte ai contrasti che emergono nei dialoghi fra le due donne si fatica a distinguere se si tratta davvero di un ripasso del testo teatrale o se non è invece l'emergere di latenti tensioni fra le due donne dovuti alle differenze di età, carattere e visione della vita. Intorno a questo asse portante una serie di situazioni e di personaggi non secondari rende ricca e complessa la trama del film.
Un attore cinematografico che ha riscosso enormi successi interpretando per anni la parte di un supereroe in abiti di uccello (Riggan Thompson interpretato da Michael Keaton) si rende conto dell'impoverimento professionale ed umano che gliene è derivato. Cerca la propria rinascita mettendosi in gioco come interprete teatrale in una pièce tratta da un impegnativo testo di Raymond Carver.
Per farlo dovrà confrontarsi con l'attore suo antagonista nella commedia, con una figlia con la quale ha un rapporto irrisolto, con la critica teatrale che lo ha già condannato prima di vedere lo spettacolo e con varie altre figure che nel loro insieme finiscono per descrivere un mondo orientato a un successo da misurarsi solo in termini di risultati economici e di numero di visualizzazioni. Un interessante finale, nient'affatto scontato, può tanto sconcertare quanto lasciare curiosamente sorpresi.
Con Andrea Renzi, Anna Bonaiuto, Iaia Forte, Roberto De Francesco, Marco Baliani
È un film che divide. Può essere giudicato difficile, aspro, intellettuale, sofisticato, - lo capisco, -ma resta comunque un grande film, definito dal Morandini il miglior film italiano degli anni novanta. Diretto da Mario Martone (regista teatrale e cinematografico) mostra le mille difficoltà di una piccola compagnia dei quartieri Spagnoli di Napoli tenuta faticosamente in piedi dal suo regista Franco, alterego di Martone.
Intendono mettere in scena la guerra fratricida dei "Sette contro Tebe" di Eschilo, proprio mentre Sarajevo, dove hanno un contatto, brucia sotto le bombe della guerra in Bosnia ed Erzegovina. Le prove e la vita degli attori e di Napoli vanno avanti fra qualcuno che lascia e una nuova entrata, ma non si arriverà alla conclusione e al debutto. Alla fine Franco assisterà amareggiato al successo di un'altra compagnia, ben lontana dai suoi ideali di impegno politico e sociale.
Con Michael Maloney, Richard Briers, Joan Collins, Celia Imrie, Julia Sawalha, Gerard Horan
Un regista squattrinato e demoralizzato decide di lanciare il guanto di sfida alla sorte mettendo in piedi una compagnia rimediata attraverso annunci sul giornale per andare a rappresentare nientemeno che l'Amleto. Non su un vero palco, ma in una chiesa sconsacrata di un paesino dove gli spettatori saranno da andare a stanare casa per casa.E come va? Va che ci si diverte dall'inizio alla fine. Certo, non la risata grassa bensì il sorriso divertito di chi ama le battute leggere, intelligenti e inaspettate.
Per farlo, Branagh si serve di veri attori scespiriani, poco noti, i quali devono essersi divertiti come matti a raffigurare la scalcinata compagnia di imbranati che bravi non sono. Il film, in elegante bianco e nero, è un omaggio al teatro al quale si contrappone il consumismo hollywoodiano impersonato da una Jon Collins che invano minaccia di portarsi via il coraggioso regista sempre convinto della sua missione.
Titolo originale Rosencrantz and Guildenstern Are Dead
Regia di Tom Stoppard
Con Tim Roth, Gary Oldman, Richard Dreyfuss
La storia c'è ed è una bella storia, con tanto di interessante inizio, animato svolgimento e degno finale. In più c'è dell'altro, che si può cogliere o non cogliere, esserne incuriositi o disturbati… Infatti pur avendo preso l'Oscar nel 1990 il film è stato poi molto discusso e criticato. Qualcuno ci vede dentro un caleidoscopio in cui gli stessi pezzi di vetro colorati disegnano ad ogni movimento figure diverse.
C'è una moneta che cade sempre e soltanto sullo stesso verso, ci sono due uomini che si chiedono se sono se stessi o personaggi di un'opera più grande. E su questo sfondo, già "amletico" di suo, c'è una compagnia che recita l'Amleto scespiriano, dentro la quale compare e ricompare la scena voluta dal principe di Danimarca per smascherare il tradimento dello zio fratricida mimandone il delitto. E se alla fine qualcuno dovesse porsi l'interrogativo se abbiamo o no il libero arbitrio… beh che ci sarebbe di male?
Con Catherine Deneuve, Gérard Depardieu, Heinz Bennent, Jean Poiret
Ci sono diverse commedie in cui tutto gira bene: c'è l'amore, i legami, le tentazioni, i tradimenti e ci sono i rischi, le paure, gli ostacoli, a volte molto seri, e insieme c'è pure il momento storico, che incide sullo svolgimento dei fatti, e poi l'arte, in questo caso il teatro. Ecco: ne "L'ultimo metrò" tutto ciò non gira soltanto bene, gira benissimo!
In una Parigi occupata dai nazisti Bernard, un Depardieu ancora simpatico ragazzone, è il protagonista di una commedia messa in scena da un regista ebreo, costretto a nascondersi ma che ancora segue in qualche modo la commedia. Protagonista femminile è sua moglie Marion, una Catherine Deneuve qui bellissima, di cui l'attor giovane inevitabilmente si innamora, nella realtà così come fra i personaggi sul palco. La scelta di Bernard di passare alla resistenza partigiana rischia di concludere tragicamente la vicenda, qui risolta in un finale che non delude.
Con Albert Finney, Tom Courtenay, Eileen Atkins, Edward Fox, Zena Walker, Michael Gough
FilmTv considera sia la versione del 1983, diretta da Peter Yates, con Albert Finney e Tom Courtenay, sia quella di Richard Eyre, 2015, con Anthony Hopkins e Ian McKellen. La trama è identica (una messa in scena del Re Lear) e sempre eccelsa la qualità della recitazione (con mia soggettiva preferenza per la prima).
Ci sono sì importanti figure femminili e altri ruoli maschili, ma l'asse portante sta nel rapporto fra Sir, il grande attore, e Norman, il suo assistente che lo accudisce, lo sostiene, lo protegge, lo cura con un'amorevolezza che si estende lungo tutta la gamma che va dalla sollecitudine materna a venature di un inespresso innamoramento. Per contro Sir possiede un carisma di attore e una capacità di fascinazione tali da poter vivere e vedere accettato da tutti il suo strabordante egocentrismo. È di Norman il bellissimo "Non mi interessa se ci sono solo tre persone in platea, so che almeno una è in grado di capire e io recito per lei".
Una importante attrice (interpretata da Gena Rowlands) vede morire una sua giovanissima fan investita da un'auto mentre la stava rincorrendo. L'episodio fa emergere la sua difficoltà ad accettare gli anni che passano e con essa le sue riserve sulla commedia che sta provando. Di qui una serie di scontri sul palco e nella realtà, con il protagonista maschile (John Cassavetes, nella realtà suo marito) con cui ha dei sospesi irrisolti, con il regista deciso e sostenerla in ogni modo, con il produttore e l'autrice della commedia che sfocia in duri faccia a faccia.
L'alta qualità di recitazione, regia e sceneggiatura concorre a rendere fluido e perfettamente godibile il continuo scorrere di interno-esterno e personale-corale. Altre parti del film, come le non brevi sequenze dalla medium e dall'analista appaiano non necessarie e secondo me, in un film di due ore, di fatto inutili. Un gran finale mette d'accordo tutti.
Alla versione del 1983, "Essere o non essere" diretto da Alan Johnson, preferisco l'originale di Ernst Lubitsch del 1942 disponibile in versione restaurata, un capolavoro assoluto, che voglio illustrare rubando le parole dalla recensione di un amico: "da vedere lasciandosi trascinare nel gioco degli equivoci, dei travestimenti, degli incroci fra realtà e palcoscenico, da un canovaccio “a orologeria” solo in apparenza “leggero” (la sceneggiatura e la regia sono al fulmicotone, di quelle indiavolate e piene di trovate che si possono a buon diritto definire senza un attimo di tregua), ma che aiuta a pensare e riflettere seriamente sulle cose, mentre ci si scompiscia dalle risa. Una pellicola che è uno strepitoso, feroce e corrosivo attacco al nazismo, ma anche una acuta riflessione sul mestiere dell’attore e sulla sostanza del teatro che mantiene inalterato valore e verve senza denunciare il peso dei quasi 80 anni che ha sulle spalle. (Grazie spopola)
Sotto le bombe tedesche c'è ancora un teatro a sfidare il pericolo. L'eccentrica milionaria Lady Henderson ne è la proprietaria e si è inventata un modo per renderlo una florida impresa in tempo di guerra. Abilmente giocato sugli scontri verbali tra Judi Dench e Bob Hoskins, "Lady Henderson presenta" si prende la libertà di ridere delle differenze di classe e riflettere sui drammi del conflitto in un teatro "alternativo" di Londra.
Qui, in questo film, il luogo ideale per raccontare il romanzo e le sue pulsioni in una nuova forma e dimensione, non è più la realtà, il realismo, ma bensì la finzione “mediata” che è propria del teatro (qui trasfigurato però dalla potenza immaginifica del cinema che offre soluzioni impensabili per le semplici assi di un palcoscenico e che nella pellicola assurgono al rango di pura poesia dell’immagine).
Sotto una pioggia torrenziale, la cinepresa avanza scivolando leggera fra gli alberi che costeggiano il sentiero laterale di un boulevard, accompagnata (e quasi ritmata) dalle suadenti, giocose note di una musica che ha il tocco inconfondibile di Alexandre Desplat…. poi scarta verso destra, e mostra la facciata piuttosto fatiscente di un teatro (o meglio “du Theatre”) alla cui insegna corrosa dal tempo e altrettanto scalcinata, manca la H caduta chissà quando e mai ripristinata in loco.
La cinepresa scende vorticosa verso il basso avvicinandosi lentamente all’edificio, quasi volesse accarezzarlo… davanti a noi l’ingresso, con le sue porte che si spalancano e si fanno “penetrare”… un piccolo movimento delle tende appena superato l’atrio, un sussulto quasi accennato, e si è finalmente dentro la sala ovattata e accogliente come una vagina: è fatta, e il “gioco” di questo ironico e stupefacente “faccia a faccia” fra i due sessi può così iniziare. Comincia infatti quasi subito e si fa immediatamente scoppiettante con le due parti in causa chiaramente dichiarate: il “servo” e il “servitore”.
Cinematograficamente molto affascinante nel suo parlare soprattutto di teatro, ma declinato in una inedita modalità di rappresentazione che lo fa quasi diventare una versione esasperata della vita, il film trae origine da un complotto (o presunto tale) che ha radici lontane ma che si sviluppa dietro le quinte di una sala dove sulle assi del suo palcoscenico un regista, Gérard, sta provando con la sua compagnia, una nuova versione di Pericle principe di Tiro di Shakespeare: Whem I was born // Never was waves nor wind more violent etc. etc… che è stato tradotto così (versi 60-67 di una delle più conosciute versioni in lingua italiana del dramma shakespeariano): “quando nacqui, le onde e il vento del Nord non furono mai più così violente. Dalle sartie spazzarono via un gabbiere e con grondante destrezza saltarono da prora a poppa. Il nostromo fischiava, il capitano gridava e triplicava la confusione” .
Il dramma nel teatro allora, o forse meglio ancora, il teatro del dramma. Mentre però nel teatro (come per altro accade anche in Pericle) alla fine – sia pure al termine di un viaggio spesso tortuoso - tutti i nodi vengono rigorosamente al pettine, la stessa cosa non accade invece con Rivette, perché il suo dramma (che ribadisco ancora punta soprattutto a una sintesi morale delle cose) che parla di “testi”, di “regia” e di “interpretazione”, seppure ambientato in quel contesto, rimane comunque e intenzionalmente fuori dal recinto quasi sacrale della scena (regole comprese) e soprattutto lontano da un palcoscenico “classicamente” e canonicamente inteso, il che consente al regista di “espandersi” senza troppe preoccupazioni formali anche in altre direzioni,
Tutto il film è una riflessione sul non senso della vita e perciò sulla morte, incubo onnipresente e concluso con l’agghiacciante e poetica scena finale della città di Schenectady priva di vita, come i corpi che dappertutto giacciono sulle strade che furono, un tempo, lo scenario nel quale si svolse la loro esistenza. Onnipresente, per tutta la durata del film, la riflessione sull’arte, sul suo significato e sui modi possibili della rappresentazione teatrale, con ampie citazioni da Beckett, a Pirandello a Pinter e ad altri autori del teatro moderno e contemporaneo(Commento ripreso dalla bellissima recensione di @laulilla //www.filmtv.it/film/38286/synecdoche-new-york/recensioni/979183/#rfr:film-38286
Un grande attore scespiriano uccide tutti i suoi critici detrattori,che lo definivano un vecchio trombone,ispirandosi ai vari omicidi descritti da W.Shakespeare.Una fine che meriterebbero di fare tutti i colleghi utenti che non hanno inserito questo gioiellino, a cominciare da....SPOPOLAAA!!!Mi dispiace, ma io non c'entro per carità,la colpa è solo vostra,io non concorro per niente,ho un'alibi di ferro.Non vi resta che vedere il film e scegliere la vostra fine preferita.Dai coraggio,sempre meglio che morire di Covid...almeno è più dignitoso oltre che pertinente a questa play.
“Solo quando un uomo conquista la sua coscienza tragica ci sembra che apra gli occhi sul mondo - dice il filosofo - Ora infatti, avendo coscienza di essere al limite del mistero, nasce in lui quell’inquietudine che lo spingerà innanzi. Nessuna situazione per lui può essere stabile perché niente lo appaga. Con la coscienza tragica ha inizio il movimento della storia, che non si manifesta solo in avvenimenti esteriori, ma si svolge nelle profondità stesse dell’animo umano”K.Jaspers
Dal dramma Na dne (Nel fondo del 1902, noto anche come L'albergo dei poveri) capolavoro teatrale di Maxim Gorkij, nasce questo affresco cupo di miseria, derelitti e falliti chiusi in un ospizio per poveri nei bassifondi della vita da dove non ci si rialza più.
“La musica, rende visibile ciò che i nostri occhi non possono vedere, si tratta di essere coinvolti a un livello profondo, che è quello che voglio da questo film: dirci chi siamo e perché siamo sarebbe impossibile senza musica.
Träumerei di Schumann e il secondo Piano Trio di Schubert esprimono le aspirazioni di Miss Julie, mentre il Primo Piano Trio di Arensky è la musica di John. Verso la fine del film si sente la Suite per violoncello di Bach. Si tratta di perdono, riconciliazione”(Liv Ullmann)
Nori e Shokuchi,a metà film, assistono ad una scena del teatro No.
Il teatrino è senza pretese ma lo spettacolo è solenne, gli spettatori sono assorti, immobili, rapiti. il grande teatro di tradizione fra una cerimonia del té e una bevutina di sakè al bar ci sta, Ozu sa come fare
Una sala di teatro kabuki di periferia, a storia di una geisha che s’innamora del cliente, la mdp gira fra il pubblico, quasi tutto maschile, attento, seduto a terra con i ventagli in movimento continuo.E poi la gag, Ozu ristabilisce subito il contatto col reale e un portafoglio a terra fa sempre gola.
Il teatro è virtuale, nel parco di Tokyo è sera, silenzio e solitudine, i due poveri fidanzatini non hanno alternative. Dal palcoscenico dell’Auditorium del solitario parco notturno nel buio l’orchestra invisibile prepara gli accordi,le braccia di Yuzo si sollevano, è il segnale, entrano i violoncelli e i contrabbassi nel registro grave del primo movimento dell’Incompiuta di Schubert.
Si apre il primo tema, purissima melodia esposta da oboe e clarinetto, e l’allegro moderato si distende per tutta la sequenza e quella successiva, finale, del film.
La tragedia del “beccaio morto e della sua demoniaca regina” è ancora una volta occasione per parlare delle profondità insondabili dell’animo umano, della sete di potere e della solitudine che ne è la condanna, dell’ambizione e della paura, dell’esaltazione e della caduta nella voragine della follia.
“Ho dimenticato Shakespeare e ho girato il film come se fosse una storia del mio paese” dichiarò Kurosawa,ed è infatti il Giappone del XVI secolo il teatro della corrusca vicenda, lo scenario in cui i personaggi si muovono seguendo il ritmo lento e ieratico del teatro NO, avvolti in costumi di sontuosa maestà, che si tratti delle sfolgoranti armature dei samurai o di preziosi kimono degni di una reggia.
Un Demme forse "minore", dall'omonimo (Who Am I This Time?), bellissimo racconto di Vonnegut del '61, contenuto in Welcome to the Monkey House. Un Tram Chiamato Desiderio, l'Importanza di Chiamarsi Ernesto e lo stesso Romeo e Giulietta. Ah, già: un gran film sul recitar vivendo.
L'attore Melville non si sente all'altezza del compito assegnatogli dalla major Vaticano S.p.A. di fare incassare il soldo necessario al blockbuster cui è stato chiamato a partecipare come protagonista assoluto: lascia la scena, ma rimane sul palco: la platea, muta, si scambia un segno di embè.
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