“La comprensione ha un prezzo, è di per sé una cazzo di malattia.”
Il linguaggio - tanto quello parlato/ascoltato quanto quello scritto/letto (ma non quello pensato, ovvero auto-prodotto/riferito) - è diventato tossico per tutti gli esseri umani adulti: gli schiamazzi di gioia, le richieste d'attenzione, qualsiasi frase (innocente o con voluto intento malefico) esca dalla bocca dei ragazzi fa ammalare gli adulti. Nei boschi c'è una rete di cunicoli radiofonici cronenberghiani in cui rabbini saggi dispensano consigli scemi. Da qualche parte nel Paese c’è un centro di ricerca che studia una cura: dai palliativi semantici ricavati da ogni alfabeto conosciuto, sia esso arcaico od inventato all’uopo, alla forza bruta dell’estrazione fisica di fluidi, sali, essenze corporali dai ragazzini immuni, infetti ed untori, portatori sani tanto dello sterminio epidemico quanto del miraggio di una cura.
L’alfabeto egoista. Language is a virus, diceva quello. E, per contro e viceversa, i virus e tutti gli esseri ad esso superiori che possiamo definire viventi, vegetali ed animali*, non sono altro che la manifestazione su grande scala del “gene egoista” (come diceva quell’altro quello), atti e predisposti a perpetrare con un’azione di autistica pervicacia la propria riproduzione infinita attraverso la replicazione, la propagazione, l’inseminazione del proprio codice: Io sono! Io sono! Io sono! Esclama il virus. E come possiamo dargli torto? Lo facciamo anche noi, e su larga scala.
*Ma perché limitarsi, a questo punto? Ché del resto, cosa fanno le stelle - il cui DNA/RNA a doppia elica si chiama Tavola di Mendeleev e i cui geni egoisti si chiamano elementi chimici -, dalle cui ceneri tutti deriviamo (e il cui sottoprodotto complesso, infatti, si chiama catena di amminoacidi** interstellari e planetari, e via con l’uroboro della Vita…), se non replicarsi per partenogenesi (il Sole è un astro di seconda generazione, nato dall’addensarsi di una piccola porzione dei residui dell’esplosione di una supernova) consumando prima tutto l’idrogeno, e poi tutto l’elio, e poi via via, sempre più velocemente e sempre più difficoltosamente, giungendo sino al ferro, per lì fermarsi e decidere (o meglio: scoprire) se implodere e collassare od esplodere e rifulgere in un ordine di grandezza esponenzialmente superiore elevato a potenza, dando così vita ad un’altra successiva generazione di stelle?
**Ovvero: le prime parole - anzi, i primi vagiti, le prime lallazioni - della Vita.
La lettera ebraica segreta. Sgranocchiandone in media un capitolo a settimana alla fine ci ho messo un anno di tempo lordo per riuscire a portare a termine la lettura di “l’Alfabeto di Fuoco” di Ben Marcus, probabilmente tanto tempo quanto il suo autore ha impiegato a scriverlo (con minutaggio netto ben maggiore, ovvio): non mi è proprio… come dire… piaciuto, ma grandemente qualcosa di più… e qualcosina di meno…
È un libro scritto magnificamente (che vuol dire tutto e nulla), ripieno, strapieno, densissimo, ricolmo, stracolmo, debordante, ma, proprio per questo, anche pesantuccio (e non solo per la carta su cui è stampato, ottima: per reggere un florilegio delle edizioni Black Coffee - così come accade per molte piccole case editrici generose e serie - occorrono ripiani di libreria in legno massello e solai rinforzati). Quindi, più che per il peso, si diceva, è la massa a renderlo un corpo gravitazionale di cellulosa, colla e inchiostri al tempo stesso attraente e respingente. Le parole, le idee, soppesate una per una, distintamente e in concerto, prorompono, strabordano, ribollono: nella letteratura postmoderno-massimalista contemporanea, anzi recente, ne ho ritrovata una tale massa critica in “Gain” di Richard Powers e in “Arc d’X” di Steve Erickson (entrambi pubblicati in Italia dalla meritoria Fanucci dei tempi d’oro, vale a dire quella degli anni ‘00, delle collane Immaginario, Avant Pop e Solaria, con Luca Briasco alla guida, mentre oggi Powers, dopo Bollati Boringhieri, Fanucci e Mondadori è un autore nel listino de la Nave di Teseo ed Erickson è nel catalogo, dopo Fanucci e Bompiani, de il Saggiatore).
Ad ogni modo, stabiliti i molti pro e i non del tutto trascurabili, se pur minimi, contro, per chi abbia amato “Pontypool” e per chi ama la letteratura speculativa e quella delle parole, penso sia una lettura d'obbligo, prim’ancora e ben oltre ogni parallelo spurio con l’epidemia di CoViD-19 causata dal SARS-CoV-2 la quale, in alcuni casi, ha tenuto, al contrario, fin troppo vicini genitori e figli durante il periodo di lock-down…
È un romanzo che tratta del nostro vile desiderio di parlare, di scrivere, di essere ascoltati, e di come, nel disastro cangiante della contemporaneità [chiamiamolo Chthulucene, con Donna Haraway: non c’entra Lovecraft (quello è Cthulhu), ma il greco: khthon (sotterraneo, ctonio per l’appunto) e kainos (nuovo, recente, ad esempio in cenozoico)], potremmo anche riuscire a trovare una qualità positiva al disastro, ovvero, ad esempio, il poter fare a meno di parole da fraintendere. Ma mai della famiglia.
Colophon. Ben Marcus - “the Flame Alphabet” - 2012 [“l’Alfabeto di Fuoco” - ottimo compromesso rispetto al titolo originale, e migliore rispetto al forse più letterale “l'Alfabeto Fiamm(eggi)ante” -, Black Coffee, 2018 - traduzione (molto buona, e per lunghi tratti eccezionale, e da elogiare anche solo per il coraggio d'aver intrapreso una simile impegnativa avventura) di Gioia Guerzoni - rilegato filo refe, copertina flessibile con alette, stampato da Printì (Manocalzati, Avellino) - 360 pagg., 15.00 €]
Con Preben Lendorff-Rye, Henrik Malberg, Birgitte Federspiel, Ann Elisabeth Rud
Non potevamo pronunciare il vero nome di Dio e nemmeno, se eravamo devoti, accennarvi. Nozioni di base. Ma era l’aspetto midrashico dell’alfabeto di fuoco a farne qualcosa di elitario, perché a quanto ne sapevo, ne parlava solo il rabbino Burke, nel nostro capanno. Poiché l’intero alfabeto è impregnato del nome di Dio, affermava Burke, e poiché comprende ogni combinazione di lettere, tutte le parole rimandano a Dio, non è così? È questo che sono le parole: varianti del suo nome. Il linguaggio non conta. Qualunque cosa diciamo, pronunciamo il nome di Dio. Questo entusiasmava Burke al punto di farlo gridare. Quindi il linguaggio stesso era, per definizione, proibito. Ogni singola parola. Era meglio lasciar perdere. L’epoca del linguaggio era quasi finita. Difficile, se non impossibile, negare la logica di quel ragionamento.
“Come sempre, la gente si soffermerà sui malintesi più gravi. Le persone tendono a sbagliarsi nei modi più spettacolari. Si può diventare famosi. Siamo nell’alta stagione degli errori. Ma non si inganni. Di libri non ne scriveranno ancora molti. Non vedremo molta analisi documentata, o non ne vedremo affatto. Questa crisi è diversa. Sarà accolta nel silenzio. Non c’è tempo per l’ultima parola. L’ultima parola è già stata detta, e non da noi. È la prima epidemia della civiltà che elude uno scambio pubblico verbale. È una pestilenza per cavernicoli e ben presto non potremo fare altro che emettere dei grugniti in proposito. Non puoi descrivere un veleno usandolo, o scrivere del potere tossico della scrittura. E ben presto le cause non avranno più molta importanza. Tutta quella stupida ricerca di una causa non avrà senso.”
Le Bov rese pubblica la sua diagnosi alla radio – trasmetteva da una postazione isolata per la propria sicurezza – additando il bambino ebreo come tossico. La malattia si diffondeva dal suo perimetro, irradiandosi dalla testa, dal viso, dalla mente. Ci sono particolari che non ho il desiderio di condividere, disse Le Bov. Una segretezza che faceva sembrare ancora più vere le sue dichiarazioni. Era difficile non essere d’accordo, ma tutti lo contestavano. Protestavano per convinzione o paura o negazione, o per una reale conoscenza scientifica. Il dibattito infuriò con sostenitori e detrattori che si lanciavano prove da una parte all’altra dell’enorme stagno in cui tutti nuotavamo. I colpevoli, i portatori, gli agenti dell’infezione, erano i bambini ebrei, tutti i bambini, non solo i bambini, anche alcuni adulti, tutti noi. I colpevoli erano i malati, o forse solamente i sani, o forse quelli che avevano mangiato sporcizia, o non ne avevano mangiata abbastanza. Venne richiesta un’autopsia di tutto il pianeta vivente. Le conoscenze erano scarse e romantiche, e potevi appellarti a una o all’altra, se non ti disturbava l’idea di sbagliare. Per complicare la situazione, in una colonia in Arizona dove non c’erano bambini erano comparse vittime con sintomi identici: tratti del viso rimpiccioliti, letargia, un indurimento sotto la lingua che ostacolava la parola. Nessuno era stato esposto ai bambini, tantomeno ebrei. Le Bov non vi diede peso. “Sto parlando della causa”, disse, “e la causa si è propagata molto velocemente molto tempo fa. I nostri ebrei delle foreste sanno di cosa parlo, basta chiedere a loro.”
Con Jennifer Jason Leigh, Ian Holm, Jude Law, Don McKellar
E poi si formulavano ipotesi sugli oscuri strumenti elettronici che permettevano di diffondere quei messaggi, su come potesse funzionare un sistema del genere. A un certo punto parve che si trattasse di una consolle radio con una base di carne. Moduli con guaine di garza, lubrificanti estratti dai bambini e iniettati in strumenti appositamente studiati. […] A volte, quando Thompson parlava, dovevo toccare il ventre bagnato del ricevitore per stabilizzare il segnale. Altrimenti tremolava, si zittiva. Questo succedeva di rado durante i sermoni di Burke. Appoggiavo il dorso della mano contro la superficie liscia, fresca del ricevitore, premendo sulla superficie morbida finché non incontravo resistenza, come se nel profondo, se schiacciavi abbastanza il gel, ci fosse un lungo osso piatto.
La segretezza che circondava i capanni era giustificata. Il vero insegnamento ebraico non è fatto per un consumo di massa, per i gruppi, non va inquinato nemmeno da un singolo gesto di comunicazione. I messaggi, quando vengono diffusi, si diluiscono. Anche comprenderli è un compromesso. Il linguaggio uccide sé stesso, muore in chi lo ospita. Agisce come un acido sul proprio messaggio. Se non ti interessa più un’idea o una sensazione, trasformala in linguaggio. Sarà di certo l’ultima volta che emerge, la fine che merita. Linguaggio è sinonimo di bara. Bauman ci disse che l’unica cosa di cui dovevamo preoccuparci circa i sermoni era se li capivamo troppo bene. Quando quel giorno fosse arrivato, allora sì che avremmo dovuto iniziare a preoccuparci.
Con Pernilla Allwin, Bertil Guve, Börje Ahlstedt, Erland Josephson, Allan Edwall
“Non c’è niente di peggio che essere profondamente fraintesi. Lasciate che gli altri espongano i propri segreti, pubblicizzino la propria identità, neutralizzino i propri misteri ricorrendo a un linguaggio impreciso. Un ebreo deve proiettare un comportamento distante dal suo scopo, deve creare un mondo di marionette per quelli che guardano. Marionette in carne e ossa. Marionette che piangono, sanguinano, muoiono.”
Solo quelli convinti che non esistessimo parlavano in nostra difesa. Eravamo stati inventati dai nostri nemici per avere qualcosa da sbranare. Che comodità, un ebreo con segreti importanti. Che manna per l’egocentrismo, dicevano. Questi erano i nostri difensori, ma per loro eravamo un’invenzione. Non era chiaro se dovevamo essergli grati.
Forse, se non volevi nulla, non avevi motivo di parlare. In una rubrica di aneddoti storici lessi che nel 1825 Jacob Gallerus, un chimico, dichiarò in una lettera al capo del dipartimento di Medicina di un college di Dublino - in cui chiedeva una verifica esterna, che poi non fu concessa - che la sua famiglia lo faceva ammalare. Lamentava nausea e capogiri in loro presenza ed era certo che questi sintomi emergessero solo quando i vari soggetti gli parlavano. La risoluzione del problema non era riportata e anche la diagnosi era assente. Ascoltare la sua famiglia era una forma di endogamia, dichiarò. C’è una sorta di amplesso nel linguaggio. Illecito, osceno. Una frase del giornale che non dimenticherà mai: “Non sto così male con gli sconosciuti.” Nella sua cantina Gallerus costruì una stanza insonorizzata per recuperare e purificarsi - diceva esattamente così - dal contatto con la moglie e i figli. Non diceva come era andata a finire, né di cosa era morto. Oltre agli aneddoti storici c’erano consigli medici, confutazioni, trattamenti preventivi. Se un bambino era considerato virale, veniva trattato con il sale. Questo accadeva tra gli ebrei, diceva. Anche se non era chiaro quale tipo di ebrei, né in quale periodo ci trovassimo. Il bambino veniva letteralmente “salato”: gli sfregavano del sale sugli arti, gliene versavano in bocca, negli orifizi. Forse erano tutte invenzioni. Fantasie. Ma se così fosse stato, non erano né belle né intere, quanto piuttosto fatti travisati, sezionati e ricomposti come bugie. Sembravano opera di qualcuno che avesse recuperato certe informazioni di storia passata e le avesse riadattate, ma con le mani sporche. A che pro? Non trovavo un senso a quel bisogno di falsificare dettagli. Inoltre ce n’erano troppi che ero certo fossero veri.
Una sera sentii Esther gridare “Fai schifo!” e quando entrai in camera vidi Claire distesa sulla schiena che mi guardava sorridente. Aveva avuto quello che voleva. Aveva abbracciato sua figlia e, nonostante la sua reazione ostile, ne era valsa la pena.
Quando finalmente la sera prima mi ero seduto a registrare un messaggio vocale, dalle labbra mi erano uscite soltanto scuse. La retorica dell’edulcorazione. In ciò che dissi non c’era nulla che potesse passare per tenero, il che significava che avevo già comunicato tutto sull’argomento. Tutto il resto, come gran parte del mio ruolo di genitore, avrebbe dovuto fare a meno di parole, di azioni. Ma quando riascoltai la registrazione, per controllare la qualità del suono, mi parve di sentire la voce di un uomo con uno straccio infilato in bocca. Alla fine, quello fu tutto ciò che lasciai a Esther. Non disponevo di una saggezza più grande da tramandarle.
Con Stephen McHattie, Lisa Houle, Georgina Reilly, Hrant Alianak, Rick Roberts, Boyd Banks
Erano nati nell’era del linguaggio, erano nati per parlare, ascoltare, e condividere sentimenti e pensieri. Se quelle attività di colpo erano diventate fatali, allora si sarebbero lasciati andare.
Ogni giorno, seduto alla mia scrivania, inseguivo l’idea che l’alfabeto come lo conoscevamo fosse troppo complesso, pregno di significato, e stimolasse il corpo a produrre una sostanza chimica evidentemente letale. Nelle sue parti, in combinazione, il nostro sistema di caratteri scatenava una reazione negativa. Se l’alfabeto avesse potuto essere assottigliato, ripulito, per ingannare in qualche modo il cervello, forse saremmo riusciti a utilizzare il nuovo set di simboli, oppure un simbolo unico, del tipo che puoi tenere in mano e rimodellare per ottenere significati diversi, per comunicazioni modeste, utili almeno alle emergenze. Decisi di risalire alle prime scritture. Dovetti escludere gli alfabeti cuneiformi e i geroglifici, dall’egizio la scrittura ieratica e demotica. Era impossibile essere accurati, quindi presi delle scorciatoie. Del cuneiforme, analizzai e scartai l’hurrita, l’urarteo e il sumero. Ricreai ciascuno di questi con esempi dettagliati che poi venivano prelevati da un tecnico che di pomeriggio arrivava al mio piano con la sua borsa da medico a raccogliere tutti i campioni che avevo, campioni che creavo nascondendomi da me stesso, in condizioni che arrivai a definire di ignoranza controllata. Dal mio ufficio gli esemplari venivano portati al piano di sotto, pronti per essere testati sulle persone, persone già prostrate e prossime alla morte, sovraesposte a quella cosa che, ogni giorno, io stesso producevo in quantità. E così il mio lavoro incominciò: escludevo determinati approcci, esploravo la storia di lettere e alfabeti, attingevo liberamente da scritture tra loro incompatibili, ne inventavo di nuove, correggendo errori ormai incastonati in quelle vecchie. La scrittura Pollard non funzionava, e nemmeno il Fraser. Quando li mescolavo era ancora peggio e anche quando vi infilavo lettere da altre scritture - come la Bamum e quella dell’Alaska, di cui cercai di appiattire dei caratteri: dalle lettere, infatti, si poteva amputare un’ossatura centrale e la parola intera si sgonfiava - l’intruglio risultava ugualmente nocivo. Il linguaggio in sé importava? Mi chiedevo se il nostro si fosse esaurito e se avremmo dovuto rianimarne uno antico, o inventarne uno nuovo di zecca, evitando i pericoli di ogni linguaggio esistito fino ad allora. Oppure c’entrava il modo in cui il linguaggio veniva reso, disegnato, proiettato, visto. Avevamo tentato il possibile in quel campo? Il problema era il sistema di rappresentazione?
E vedevo la natura durante le mie osservazioni, uno spettacolo osceno. Il binocolo amplificava la catastrofe. Vedevo indecenti sperperi di bellezza quando l’estate apriva enormi buchi nel terreno, da cui scaturiva una processione disgustosa di qualsiasi tipo di pianta, come se il mondo di colpo soffocato degli umani lasciasse alla natura più spazio da riempire, e lei fosse ben lieta di farlo.
Con Birgit Doll, Dieter Berner, Leni Tanzer, Udo Samel, Silvia Fenz, Robert Dietl
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E poi tra i silenziosi si era diffusa la strategia delle tende. Ovunque erano state erette tende con i colori del circo, legate agli alberi. In fila, davanti alle porte di tessuto, c’erano i silenziosi, ed entravano uno ad uno. Passavano cinque, dieci minuti dentro, a volte di più. Non vedevi i loro attacchi, non udivi gli ultimi respiri. Uscivano sulle barelle, coperti da un lenzuolo. Qualche volta nemmeno. Una squadra di volontari portava le barelle in un campo e le capovolgeva in una buca, facendole tornare leggere. Erano le tende della pietà. Dentro la gente sentiva qualche ultima canzone, qualunque cosa decidesse di richiedere, e poi crollava. Una strategia di estinzione acustica. Suicidio tramite linguaggio. Pietà era il termine giusto. Quei luoghi erano chiaramente una forma di gentilezza nei confronti di chi era rimasto. Nessuno era obbligato a entrare, eppure la gente sgomitava.
Poi avevo preso le distanze dalla componente visiva della scrittura e avevo cominciato a chiedermi come il contenuto causasse repulsione. La nostra avversione alla lingua era basata su quello che ci dicevamo? Commenti diretti, deludenti, neutri? Era colpa di quello che non dicevamo? Non eravamo riuscite a dire o a scrivere qualcosa che ci avrebbe assicurato la sopravvivenza, e ora questo fallimento era diventato gigantesco, irreversibile? Eludevo quelle domande troppo grandi, troppo difficili. Ma ne arrivavano altre. Il linguaggio ricco di informazioni, dettagli e dati verificabili, era peggiore di quello che mentiva? Quale dizione ci faceva ammalare di più? Il linguaggio astratto, quello che scansava tutto ciò che era visivo ponendo idee e requisiti prima della concretezza, era meno dannoso? Le espressioni d’amore erano più sicure delle minacce? Tutto ciò che producevo e inviavo giù in cortile perché fosse testato suggeriva che era la comprensione stessa a risultarci insopportabile. I giorni della comprensione erano finiti. Il quesito che non riuscivo nemmeno a formulare era il seguente: cosa avremmo potuto fare ora che era impossibile capirsi senza essere colpiti da una malattia orribile e rapidissima? Non era più una malattia portata dal linguaggio, era una malattia dell’intuizione, della comprensione, del sapere.
Con Volker Spengler, Janos Derzsi, Erika Bók, Mihály Kormos, Ricsi
Senza linguaggio la mia vita interiore - se un’espressione del genere ha ancora senso di esistere - era puramente aneddotica, un sentito dire. Anzi, nemmeno quello. Era come i rumori di fondo che si possono sentire accostando un microfono a una pietra nel bosco. È troppa fatica indovinare l’attività interna di cose come le persone. C’è un motivo per cui questo materiale soggettivo è intrappolato dentro di loro e non può essere lasciato uscire. I miei pensieri, quando mi prendevo la briga di averne, mi annoiavano, in particolar modo perché non potevo più liberarli nel mondo attraverso la bocca e ottenere qualche reazione dalle altre persone, così li ignorai e mi misi al lavoro.
Di notte, Claire e io ci eravamo ritrovati nudi a letto per così tanti anni che fra di noi si era sviluppata un’indifferenza animale. Potrebbe quasi essere una definizione basilare di amore. Eravamo creature simili che pascolavano e si nutrivano nella stessa zona, che badavano alla stessa, difficile prole. […] Quando Eshter era passata dall’aver bisogno di noi a odiarci - forse le due cose non sono poi così diverse - Claire e io avevamo smesso di dormire nudi. Questa è soltanto una delle migliaia di coincidenze che si inanellano per formare lo scheletro di un matrimonio.
Con Gene Wilder, Peter Boyle, Marty Feldman, Teri Garr, Cloris Leachman, Madeline Kahn
Pensare è il primo veleno, ha detto qualcuno. Non ci si chiede mai in occasione di una crisi, perché non è andata peggio? Perché non ci hanno strappato il pensiero? Chi se ne frega della parola resa pubblica, è quella privata a recare i danni più durevoli, di persona in persona. Il pensiero doveva essere fermato prima. Il pensare. Forse è il prossimo nella lunga, strisciante conquista di questa malattia, un’altra fondamentale attività umana che gradualmente ci verrà sottratta. Lo spero proprio, cazzo.
Non quelli dentro il bunker, non quelli con le scorte alimentari, nessuno di città, si salveranno indios, balti, masai, beduini protetti dal vento, mongoli su cavalli, e poi uno di Napoli nascosto nel Vesuvio, e un ebreo avvolto in uno sciame di parole, per tradizione illesi dentro fornaci ardenti.
Si salveranno più donne che uomini, più pesci che mammiferi, sparirà il rock and roll, resteranno le preghiere, scomparirà il denaro, torneranno le conchiglie.
L’umanità sarà poca, meticcia, zingara e andrà a piedi. Avrà per bottino la vita la più grande ricchezza da trasmettere ai figli.
Erri De Luca - "Dopo" (versione in recitato di Vasco Brondi)
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