La recente e corrente emergenza sanitaria, affrontata soprattutto attraverso il distanziamento sociale e conseguente contenimento (se non azzeramento) delle attività umane non essenziali, ha messo in evidenza tutte le debolezze sistemiche italiane. Non ultima, quelle insite nel calderone che per semplificare, mi verrebbe da definire, all'inglese, leisure/entertainment: viaggi, turismo, arte, cultura, bellezza etc. Non proprio una sciocchezzuola o una attività "tanto per divertirsi": parliamo di fatturati e di posti di lavoro, oltre che, in parte, di creazione e di espressione libera, Il cinema, ovvio, fa parte di questo universo complesso e nel nostro paese si è dimostrato, purtroppo e più che mai, un anello debolissimo miseramente spezzato dall' ennesima mancanza di idee, progettazione, coesione e senso del bene comune. Come detto, la crisi viene da lontano e già qualche anno fa se ne tiravano le somme: https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/03/20/cinema-il-paradosso-meno-spettatori-ma-piu-film-in-sala-ecco-perche-e-una-strana-agonia/4237384/
Difficile tenere in piedi un mercato quando non esiste la domanda. Ci si è spesso soffertati sull'offerta, sul valore artistico, ma quale valore artistico esiste senza un pubblico che ne fruisce? Questo è il punto: l'opera necessita di chi la guarda, la legge, l'ascolta, la distribuisce, la diffonde. Prima di essa, esiste un destinatario: è un equilibrio sottile e crudele che accomuna l'uomo preistorico che incide la pietra per pregare un Dio e contemporaneamente suggellare un legame nella comunità (che si fermerà davanti a quei cervi, a quelle montagne, a quelle capanne stilizzate, a quei soli sentendosi da essi rappresentata traendone ammirazione ed appartenenza); il pittore medievale che riempie di colori le pareti per istruire il suo spettatore; il compositore che accontenta il committente o si libera di esso per diventare un professionista; lo scrittore di corte o quello contemporaneo che discute una pubblicazione; il produttore, il distributore, il regista che non possono dirsi sul serio tali fino a che qualcun altro non lo decreta guardando il film.
La forzata chiusura ha obbligato il fruitore di cinema a nuovi mezzi: non me ne vorranno i puristi, ma il percorso è quello che altri prima avevano già intrapreso: il calcio, o l'attività museale. Svuotati gli stadi, le partite sono sulle pay-tv e/o reti nazionali: quasi mai in presenza. Diradati gli ingressi a mostre e/o esposizioni, i percorsi virtuali si sono intensificati. E' un bene? E' un male? Non lo so, probabilmente entrambi. Il pericolo è però dietro l'angolo: la pluralità di mezzi è sempre un vantaggio purché uno non schiacci l'altro. Perchè anche il luogo della fruizione conta: se l'ebook non ha sostituito e non deve sostituire il cartaceo; se la registrazione non può soppiantare in toto l'esecuzione dal vivo, la sala cinematografica deve essere difesa come valore in sé. L'arte è comunicazione comunitaria, identità culturale, espressione individuale e collettiva: in quanto tale, necessita di scambio. Di umanità. Di presenza. Di condivisione. Che non può essere solo astratta, teorica, virtuale, ma esperienza tangibile, concreta, sensoriale. Siamo fatti di carne, sangue, umori, e siamo sociali. Di velluto rosso e morbido delle poltroncine, di odore di sudore del vicino, di chiacchiericci sommessi e di mugugni di approvazione, di colori nel buio, di definizione immagine su grandi superfici (cavoli, non so come si dica, qualcuno mi aiuti!) di rimbombo e Dolby, di pop corn da dividersi, di "per fortuna che sono qui che fuori piove", di fila alla biglietteria o di sconsolata solitudine, di maschere con la torcia e di un tempo in cui non c'erano e rischiavi di calpestare qualcuno all'entrata, di "posso passare che il mio posto è quello là?", di odio per la testa davanti a te troppo alta, di un bacio rubato, di un sobbalzo ed una risata, di un applauso sullo schermo nero, di calduccio l'inverno, di sole che tramonta dietro gli alberi mentre partono i titoli di testa, di "ho buttato via i soldi del biglietti", di farsi venti chilometri in macchina per andare al cineforum, di mio padre che scappava dal collegio per andare a vedere "Benhur" e di mio cognato che fino a due anni fa ancora sbobinava, di una sedia scomoda alla sala parrocchiale e di domeniche all'oratorio, di pianti, di "ma questo è un genio!", di imbarazzo quando entro da sola e di mia cugina che mi accompagna e poi ci facciamo una tisana, di ricordi, di speranze, di profumo di caramelle gommose.
Questo preambolo del tutto superfluo, in fondo, soprattutto qui fra amanti della settimana arte, mi ha aiutata a metabolizzare la frustrazione ed il dolore nel vedere, ancora, tutte le sale della mia zona chiuse. L'unica proprietà ha esposto questo cartello agli ingressi e sul web: "Carissimi clienti, speriamo di trovarvi tutti in salute. Scriviamo per informarvi che, nonostante le disposizioni di regione Lombardia ci diano possibilità di riaprire le nostre sale il 15 giugno, abbiamo deciso di prolungare la chiusura ancora per alcune settimane. Il cinema è un luogo di cultura e divertimento, ma pensiamo che con le regole imposte per la salute, vostra e nostra, questo attimo di svago che vi concedereste sarebbe vissuto poco serenamente. A maggior sostegno della nostra decisione la mancanza di nuovi titoli da proporvi, almeno per un altro mese. Nell’augurio comune che la situazione vada sempre migliorando, speriamo di rivederci presto!"
Che dire di altro? Che fare se il primo schermo sta a 60 chilometri e solo a pensarla questa cosa mi assale l'angoscia? Perchè questa non è più una scelta, ma un obbligo. Che tutti speriamo momentaneo ma che con la sola speranza non si combatte: serve resistenza. E allora, anche se forse non serve a niente e come ho già detto mi pare di travasare l'acqua del mare con un cucchiaio, il mio lavoro oggi è di convincimento. Soprattutto per le giovani generazioni: con gli amici, con la preside, con il regalo della tessera in prevendita. Qualsiasi sia il film: andate in sala. Amate la sala.
C'è sempre un inizio per chiunque: questo fu il mio. Avevo 4 anni, il cinema era il vecchio Garden ed era inverno. Stavo seduta fra mamma e papà. Mi dissero, se non mi piaceva, di dormire. Ma c'era troppo rumore, chiudevo gli occhi ma mi rimasero impressi dei flash di violenza sul ring e ne ricavai una avversione inconscia per la box che ancora resiste.
Del mio primo film in sala non ricordo quasi nulla e non l'ho più rivisto.
Ancora negli anni '80 il gap fra l'uscita nel paese di origine e la distrubuzione mondiale era di almeno qualche mese. "Top gun" arrivò al vecchio Cinema Garden nell' autunno del 1987, se non ricordo male. Avevo dodici anni e andai a vederlo con mio padre. Figlio del Dopoguerra, apparteneva a quella generazione cresciuta a western e kolossal americani che tornava in sala persino più volte a rivedere la stessa pellicola. Non fu questo il caso, ovviamente. Sbuffava e scuoteva la testa: "che americanata!". Cercò di convincermi della pochezza di quel lavoro, ma io ero già inesorabilmente rapita: Tom Cruise fu la mia prima e vera cotta cinematografica. Ne appesi un grande poster in cameretta e da allora, per almeno 3 anni, non mi persi nulla di lui.
La sala divenne una consuetudine, con i pochi soldini che mi risparmiavo
Il mio primo film con un'amica: Monica. Frequentavo la quarta ginnasio, lei la 1E del liceo scientifico. Sempre la sala 1 del vecchio Garden, gremita all'inverosimile. Quell'inverno a cavallo fra il 1989 ed il 1990 fu straordinario: "Batman" lo guardammo sedute sui gradini perchè le poltroncine erano gremite, lo stesso fu per "Indiana Jones e l'ultima crociata", "Ritorno al futuro II", "Senti chi parla" "Ghostbusters II" "Nato il 4 luglio" (ovviamente: c'era Tom Cruise), "La Sirenetta". Nessuno controllava, nella bolgia stavamo per due visioni. All'ingresso, nella fila, si incontravano amici ed amiche. Poi tornavamo a casa a piedi e parlavamo, parlavamo, parlavamo e contavamo il numero delle macchine che ci strombazzavano. La sala era il luogo di incontro, la bussola dei nostri desideri e pensieri. Cominciai a tenere un quadernino con le recensioni: ma solo delle visioni sul grande schermo. Perchè quelle erano "importanti" ragionate: le mie scelte. A casa, la TV era ancora e solo una ed io non avevo potere di selezione.
Dublino: giugno 1990. Ho appena compiuto 15 anni e sto' vivendo la mia prima vacanza lontana dalla famiglia. Il gruppo di amici decide di andare a vedere "Pretty Woman" ma è vietato sotto i 16 anni. Fuori, in O'Connell Street, la fila è chilometrica: mai visto nulla di simile. Le scale del vecchio Garden gremite, al confronto, impallidiscono. Nella ressa mi infilo pure io, e di tutta la pellicola ricordo solo il vestito rosso dell'opera. La sala, in Irlanda, è simile all'italiana, solo un po' più frugale negli arredi: mi rendo conto sempre più che il cinema, per me, è partecipazione: amicale e politica. Sto' prendendo coscienza di me e del mondo
Stefano sta' in quarta ginnasio, io in quinta, ma lui è arrivato da un'altra scuola dove era stato bocciato quindi è mio coetaneo: è già alto ed indossa degli occhiali rotondi. Prendiamo il bus insieme, la mattina. Mi propone di andare insieme al cinema d'essay del mercoledì al Cinema Sorgente - il piccolo monosala ad un chilometro da casa. L'accordo è: un film lo scelgo io, un film lo scegli tu. "My own private idaho" segna l'inizio del mio personale sodalizio con Gus Van Sant, che seguirò per anni. E la definitiva consacrazione della mia nuova cotta cinematografica: River Phoenix. Di quel periodo è "Edoardo II": per fortuna il Sorgente oltre il mercoledì culturale trasmette anche i film con il bollino rosso: come potrebbe stare in piedi con quattro telespettatori? Io e Stefano siamo orgogliosi del nostro essere intellettuali e snob. Ma è con "Fuoco cammina con me". che qualcosa si spezza: capisco che il cinema è sì partecipazione ma la sala è più che mai esperienza affettiva e sessuale. Ci arrivo troppo tardi, e Stefano non mi invita più.
"Andiamo a vedere questo film?" tutti ne parlano, ma io resisto. Ho appena conosciuto un ragazzo, è carino, ma il fatto che mi inviti a vedere una pellicola con Demi Moore mi lascia perplessa. Ho una platonica avversione per la brunetta in questione. E se vale la voce: "esperienza affettiva e sessuale" io con lei non ci voglio avere nulla a che fare. E' una presa di posizione netta, la mia: quella "onestà intellettuale" che mi fa dire e fare cose a tratti imperdonabili. Cedere alla furbata di Barry Levinson proprio no! rifiuto. "Ma è solo un film" dice lui. "No, non è solo un film: è una scelta. E io non posso farla".
Il ragazzo alla fine ci va sul serio a vedere "Rivelazioni" e ci va con mia cugina. La storia resiste alla mia ostinazione.
Resiste perché l'anno dopo andiamo a vedere questo kolossal, e ci andiamo, che vergogna! insieme a mio padre. Ho vent'anni, e devo accomodarmi due poltroncine oltre quella dove sta il mio vecchio. "Fate come se non ci fossi. Ma io, questo film, volevo proprio vederlo!". In effetti lo conosco troppo bene: non è qui per spiare me, ma per Mel Gibson. Al cinema Sorgente tornerà per una seconda visione in solitaria: era dai tempi di "Balla coi lupi" che non si concedeva il bis.Tra l'imbarazzo e la noia, sopravvivo. Sarà il mio, sarà il nostro addio, al glorioso monosala: verrà chiuso di lì a poco. Che peccato.....
Sono passati 18 anni e parecchia acqua sotto i ponti: ho 38 anni ed una consapevolezza tutta nuova: sono grande. Sul serio. E non è un caso che anche il mio immaginario, il mondo favoloso di letture, visioni, pensieri emozioni, melodie, rimandi, all'improvviso ritorni a casa. Nel primo film italiano in questa playlist. Il cinema è sempre il Garden, ma ora è diventato un multisala con la macchina dei pop corn e i dispencer to soft drinks. Convinco mia cugina, complice scalpitante, a seguirmi.
Il cinema è esperienza affettiva e sessuale ed io sono innamorata, anche se ancora non lo so.
Siamo pochi nella sala 4, c'è un bel calduccio e fuori piove.
Roma all'improvviso si stende davanti a me in tutta la sua monumentale bellezza fatta di miseria, Storia ed azzurro: sembra racchiudere la narrazione della mia vita, delle nostre vite. La musica l'accompagna: ancora non so che anche quella sarebbe finita, solo dodici mesi dopo: ora la seguo con gli occhi camminare sinuosa sul Lungotevere.
Rivedrò "La grande bellezza" molte volte, apprezzandola, criticandola, analizzandola. Ma quel rapimento, quell'amore non ammesso in una sera invernale, non si ripeterà più
Con Philippe Noiret, Salvatore Cascio, Jacques Perrin, Leopoldo Trieste, Marco Leonardi
In streaming su Rai Play
Questo è tutto il passato ...... ma il futuro? Il futuro non lo conosco. Non lo posso predire, non so.
In questi mesi è campeggiato ovunque un arcobaleno con "Andrà tutto bene" ma io non ci ho mai creduto sul serio, che andasse tutto bene. I catastrofisti, per contro, urlano che "Nulla più sarà come prima" ma io ai drammi ho sempre preferito le commedie. I toni lievi.
E allora, forse non sto' nè da una parte, nè dall'altra. Sto' dalla mia di parte, come sempre.
Un cantante popolare, e citarlo riallaccia a Sorrentino appunto, diceva: "Certi amori, non finisco. Fanno dei giri immensi e poi ritornano": oggi la sala è muta, spenta. Anche il cinema in parte lo è: perchè non può esserci senza sala. No.
Ma a me piace credere che sia solo una pausa di riflessione, questa. E che come i grandi amori, non esista la parola fine ma solo cambiamento. Bisogna lavorarci, certo: nulla si improvvisa. Ma da dove lavorare? Da cosa ripartire? Beh, la mia risposta è semplice: dalla passione. Dalla nuda ragione per cui siamo qui ed ora.
Dunque, riguardiamoci "Nuovo cinema paradiso", nella versione Crisanti o Tornatore, va bene comunque, e aspettiamo che la tempesta passi. Passerà.
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