"Quando mi sento davvero insicuro s’una mia idea, per prima cosa maltratto coloro di cui ho bisogno, quindi mi faccio un sonnellino. E poi ricomincio tutto da capo, per vedere se giungo allo stesso risultato."
Inizia con la televisione (e con essa proseguirà, declinata attraverso vari aspetti e funzioni: da elettrodomestico a “famigliare acquisito”, da veicolo di cronaca, politica e storia a propalatore di input commerciali), traslata in campo da una testa di ponte / cavallo di troia / infiltrato speciale sotto mentite spoglie di Don Draper (Jon Hamm) - “Don chi? La nostra ex moglie collettiva, che riceve ancora gli alimenti?” -, e prosegue metacinematograficamente, autocitandosi diegeticamente per bocca di Neve Campbell s’un volo TWA lungo la tratta notturna L.A.-N.Y. ad inseguire l’alba, la prima parte dell’ultima stagione della serie che, con “the Sopranos” di David Chase (alla cui scuola lo stesso Matthew Weiner è cresciuto) e “the Wire” di David Simon, ha portato il cinema dalla forma-romanzo a quella postmoderno-massimalista del cinema-mondo, passando dal Tristram Shandy alla Recherche attraverso il feuilleton dickensiano, e infine giunge a casa: tre colleghi, né estranei né amici, che inscenano, per un momento, una specie di famiglia.
- Sembra che tu abbia spento i motori spaventandoli a morte. Inoltre hai dimostrato un sincero desiderio di morire. - Volavi anche tu! Non l’hai mai provato quell’impulso? - Sopra a Dresda? Io volevo vivere!
Nel frattempo, Joan (Christina Hendricks) lotta, Peggy (Elisabeth Moss) crolla e risorge, Sally (Kiernan Shipka) cresce [“I’m so many people!”, parafrasi (in)consapevole del "contengo moltitudini" waltwhitmaniano], the Spencer David Group (“I’m a Man”), Vanilla Fudge (“You Keep Me Hangin’ On”), the Turtles (“Elenore”), the Zombies (“This Will Be Our Year”), the Jimi Hendrix Experience (“If 6 Was 9”: “Alright, if all the hippies cut off all their hair / I don't care, I don't care / Dig, 'cos I got my own world to live through / And I ain't gonna copy you”), the Hollies (“On a Carousel”), Waylon Jennings (“Only Daddy That'll Walk the Line”) e Frank Sinatra (“My Way”) suonano e cantano, e Nixon si fa bello uscendo dalla jungla del VietNam e portando l’essere umano sulla Luna.
"E se esistesse un posto in cui stare, nel quale non c’è la televisione, dove puoi mangiare e parlare in compagnia, e chiunque si sieda a tavola si sente in famiglia? Ecco… […] Non c’è bisogno di farvi pagare per una ricerca che vi spieghi come la maggior parte dei televisori si trovi al massimo a due metri dal tavolo da pranzo. Quel tavolo è il vostro campo di battaglia e il vostro premio. Questa è la casa in cui vivono i vostri clienti, e questo è il vostro tavolo da pranzo. Al padre piace Sinatra, al figlio i Rolling Stones… La tv è sempre accesa. Il Vietnam fa da sottofondo. Il telegiornale vince ogni sera. E voi avete fame. Non soltanto di cibo. Ma se ci fosse un altro tavolo, dove tutti ottengono ciò che vogliono, quando lo vogliono? È lucente, e pulito. Non c’è il bucato da fare, niente telefono, e niente tv. E possiamo sentire quella connessione di cui abbiamo tanto bisogno. Anche se a casa c’è il caos… c’è una cena in famiglia da Burger Chef!"
Lo scavo psicologico, l’architettura dei caratteri, il privato e il pubblico, la cronaca e la storia, la morale e l’etica, il personale e il politico: “Mad Men”, come da 7 anni, deflagra magnificamente le capacità di Matthew Weiner (perfettamente riscontrabili anche nel suo romanzo d’esordio, “Heather, the Totality”) e della sua squadra [alle sceneggiature – per questa stagione alcuni episodi sono lasciati a mani altrui, con la prossima ed ultima invece ogni frammento del mosaico sarà scritto o co-scritto dal creatore stesso – si alternano, oltre all’autore di “the Romanoffs”, Jonathan Igla, Heather Jeng Bladt, Erin Levy, David Iserson, Semi Chellas e Carly Wray, mentre le regìe sono curate da Scott Hornbacher, Christopher Manley (il principale direttore della fotografia della serie), Michael Uppendahl, Phil Abraham e dallo stesso Matthew Weiner, che si riserva il finale di (metà) stagione] di ricordare, esplorare, riscrivere ed avverare, riavviare, inverare un Mondo e un Tempo. 1969. Si compie il primo passo (dopo anni, decenni e secoli di gattonamento) verso quel 2001 che doveva essere e che non sarà. In “Monolith” si Guarda la Luna (questa è per pochi; NdR) e in ufficio giunge un supercomputer di una concorrente della IBM, probabilmente la HAL [o la JCN (questa è per pochissimi; NdR)]), e in “the Runaways” il film cardine/fulcro e pietra miliare del XX° secolo viene espressamente ed esplicitamente citato con la parafrasi della scena della lettura dei movimenti labiali. Verrà il 1970. Poi il ‘71. (Ma quello si chiamerà “the Deuce”, a tre isolati dall'estremità sud di Madison Avenue.) La Coca-Cola ci mangerà l’anima. Poi ci digerirà con un bel rutto.
Lista dei post e delle playlist che ho dedicato alla serie di Matthew Weiner (all'interno di ognuno di essi, grazie a permalink e tag, è possibile muoversi lungo le varie stagioni e i relativi episodi):
Con Anouk Aimée, Gary Lockwood, Alexandra Hay, Carol Cole
Postcard(s) for/from VietNam.
Nel 1967 Jacques Demy e Agnès Varda goes to L.A., California: lei esplora la controcultura e gira “Black Panthers” e lui, per interposta persona del retrofuturisticamente contemporaneo Frank Pool di “2001: a Space Odyssey” (Gary Lockwood), gira per la Città degli Angeli (il suo primo ed ultimo film Made in U.S.A. lo voleva intitolare zeitgestianamente “Los Angeles, 1968”) in cabriolet verde smeraldo finendo per incontrare Lola - sì, quella Lola - (Anouk Aimée) mentre il fronte all’orizzonte si avvicina contromano [e Betty ex-Draper (January Jones) in un funambolico e controproducente cortocircuito inverso democratico/repubblicano perora la permanenza nel Sud-Est Asiatico].
Mai inserimento diegetico-metacinematografico fu più azzeccato.
Il corvino cameo di Neve Campbell colpisce (così come, ad esempio, tra la moltitudine, quello - per i più giovincelli - recente e rosso di Tora Birch in “the Last Black Man in San Francisco”) un giovanotto degli anni ‘90 come me (qualcuno ha nominato Selma Blair, Lara Flynn Boyle, Sherilyn Fenn, Sheryl Lee, Mary Stuart Masterson, Mary-Louise Parker?), perciò… Nevecampbelleide!
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