“Metti i tuoi desideri su un piatto e la merda sull'altro, e vedi da che parte pende la bilancia.”
Un buon-ottimo King -{solamente nel finale, dalle ultime 75-100 pagine, certe linee di dialogo del ragazzino protagonista appaiono “forzate”, non soltanto per ciò che dice, ma anche perché lo scrittore si limita a rappresentare i dialoghi [non come il Gaddis di “Jr.” (ch'è un romanzo-oceano seminale, e me ne servo solo per spiegare meglio ciò che intendo esprimere), eh, ma insomma...], senza indirizzarli con notazioni caratteriali di tono e inflessione}-, fra i suoi migliori lavori -[escludendo le raccolte di racconti, che meritano un discorso a parte e sono più o meno tutte bellissime, i racconti lunghi e/o novelle brevi “Elevation” e “Gwendy's Button Box” (quest'ultimo scritto in coppia con Richard Chizmar) e l'ottimo saggio “On Writing”]- dell'ultimo periodo (dal 2000 in poi): è secondo “solo” a “Revival” (uno dei 4/5 capolavori seminali del Re), “From a Buick 8” (uno splendido romanzo sottovalutato), “Lisey's Story” e alla mastodonticità di “22/11/'63” e “Under the Dome”, se la batte (direi, in parte, vincendo) con “the OutSider”, “Duma Key” e “DreamCatcher”, è superiore a “Colorado Kid”, “JoyLand” e “the Cell” e nettamente migliore di “Doctor Sleep”. [Non ho letto i 4 volumi della serie “la Torre Nera” (che sembra instillare punti di contatto, per ambientazione e tematiche, in "the Institute") usciti nel periodo qui considerato ai fini del discorso di raffronto (come del resto nemmeno i precedenti 4), né “Sleeping Beauties”, scritto col figlio Owen, e “Black House”, scritto con Peter Straub, e non ho ancora completato la trilogia di “Mr. Mercedes”, mentre “Blaze” è stato ripescato dai primi anni '70.] Ed infine, i paragoni con "It" o anche solo "the Body" sono improponibili.
Affrontando le prime 50 pagine del libro dopo aver spulciato le sinossi editoriali, pubblicitarie, critiche e della quarta di copertina, la prima impressione è quella di maneggiare e sfogliare un'edizione difettosa (hanno stampato per errore un'altra storia sempre innegabilmente dell'autore, sto leggendo una copia proveniente da un universo parallelo però racchiusa nella giusta e corretta sovraccoperta, hanno invertito la foliazione e un blocco di pagine del corpo centrale o del finale sono state inserite all'inizio, cose così). Ma è solo il destino, ovvero il caso, che (pre)dispone le carte... –[Da una parte c'è Tim che tempo fa prese una decisione, sbagliata, che l'ha portato nel qui ed ora in cui gli tocca di prenderne un'altra. Dall'altra c'è Kalisha che ha chiesto a Luke di tener d'occhio Avery, di prenderlo sotto la sua ala, proteggerlo e volergli bene. E Luke lo ha fatto. E Avery (che, commettendo un errore di ingenuità ha consentito ai cattivi di ritrovare Luke... lasciando l'Istituto in balìa degli altri compagni di sventura diretti verso un sacrificio che... omissis) ha pensato al resto.]– ...in attesa del grande gioco epigenetico del libero arbitrio.
Perché questa è la storia di Luke, un ragazzino di 12 anni estremamente e precocemente intelligente che legge “come le mucche al pascolo, spostandosi dove l'erba è più verde”, al quale una notte una squadra d'assalto (non “di un”, ma) dell'Istituto ne uccide i genitori e lo rapisce trasportandolo a migliaia di chilometri di distanza facendolo risvegliare in quella che sembra proprio in tutto e per tutto la sua stanza... fatto salvo il fatto che al posto della finestra di fianco al letto c'è solo la continuazione ininterrotta della parete... e facendogli compiere anche un improvviso e prematuro balzo “in avanti” nel tempo, trasportandolo forzatamente nell'età adulta: un mese che vale 10 anni... Ma è anche, in parte, la storia di Tim, un uomo che adulto lo è già, e che il lettore incontra mentre si trova in fuga... in viaggio... in cerca, costretto a muovere passo dalle sue origini per uno di quei casi della vita che avvengono perché accadono siccome succedono, e che, per l'appunto, impariamo a conoscere in quelle prime 50 pagine... “Perché così va il mondo, si disse. Così va il mondo.”
Un mondo in cui, “surfando sull'onda del ronzio”, i bambini perduti dalle “facce tatuate dall'ombra della rete metallica” che li ingabbia nel loro personale e condiviso inferno sulla Terra, scatenano le serrature facendo collassare la loro prigione. Non sarà una vittoria, sarà in parte una vendetta, un risarcimento, e specialmente un sacrificale atto d'amore verso sé stessi, i loro compagni e chi, per via del loro coraggio, non dovrà subire la stessa sorte. Soprattutto, un puro atto di coraggio.
Ed è una storia sul rapporto costi-benefici, e di gente che - ben predisposta - fa del male per - autoingannandosi e autoconvincendosi - far del bene (“Abbiamo dovuto distruggere il villaggio per poterlo salvare. […] Non l'ha detto qualcuno, a proposito del Vietnam?”), e finendo, quasi, per crederci.
Stephen King - “the Institute” - 2019 (ediz. ital. Sperling & Kupfer, traduzione di Luca Briasco, 570 pagg., 21.90 €)
* * * ¾ (* * * *) - 7½ (8)
Refusi: nessuno. Concordanza verbale ballerina: pag. 348: “...alzò le mani, con aria soddisfatta. […] La zeppola era tornata, e Tim trova la cosa molto interessante.”
Luke leggeva come le mucche al pascolo, spostandosi dove l'erba è più verde.
“È sempre più frustrato e infelice per la sua situazione attuale, perché ha fame di imparare. Muore di fame, letteralmente.”
“Ci sono così tante cose che voglio imparare, e capire. Ho questa cosa nella testa... che conquista un risultato... e a volte è soddisfatta, ma quasi sempre no.”
La fame atavica di Totò, di Pinocchio, di Tom Sawyer & Huckleberry Finn, di Oliver Twist, degli hobo (lavoratori stagionali, vagabondi e migranti) della Grande Depressione che saltavano su e giù dai vagoni merci dei treni - lunghi come una panoramica di Sergio Leone - in cerca di un nuovo orizzonte salariale; dei Tom Joad, con madre e famiglia, raccontati da John Steinbeck, traslati da John Ford (e Bruce Springsteen) e impersonati da Henry Fonda, in imperitura marcia tra i diavoli della polvere sollevata dai Grappoli d'Ira/Furia; dei contadini in viaggio in cerca di una tomba per un'altra figura matriarcale, quella del "Mentre Morivo" di William Faulkner; degli abitanti stanziali di tutte le rust-belt dell'orbe terracqueo, raccontati e fotografati, in un Alabama sineddoche del Mondo, da James Agee e Walker Evans...
Si infilò i gettoni in tasca. Erano nove, se aveva contato bene. Ne avrebbe dati tre ad Avery, e tre per ciascuna alle due gemelle Wilcox. Sufficienti per le merendine, ma non per gli alcolici o le sigarette. Per quanto lo riguardava, voleva solo una gran quantità di proteine e carboidrati. Non gli importava cosa ci fosse per cena: contava solo che ci fosse cibo in abbondanza.
[…]
Il paradiso assunse la forma di una focaccina con il formaggio e la salsiccia, di una tortina alla frutta e di una bottiglia di acqua minerale Carolina Sweetheart. Luke dovette fare appello a tutta la sua forza di volontà per non scolarsela in un sorso. Ne lasciò un quarto, la mise giù, poi la afferrò di nuovo e riavvitò il tappo, sapendo bene che se un improvviso sobbalzo del treno avesse rovesciato l'acqua sarebbe impazzito. Ingoiò la focaccina in cinque morsi voraci e la accompagnò con un altro, lungo sorso d'acqua. Si leccò via l'unto dal palmo della mano, quindi prese la tortina alla frutta e la bottiglia e tornò nel suo nascondiglio. Per la prima volta da quando era sceso lungo il fiume a bordo della S.S. Pokey e aveva guardato le stelle. Sentiva che la sua vita era degna di essere vissuta. E benché non credesse esattamente in dio , considerando le prove della sua esistenza meno convincenti del loro contrario, pregò ugualmente, ma non per se stesso. Pregò quell'ipotetico potere superiore perché benedicesse l'uomo che lo aveva chiamato fuorilegge, e che aveva gettato quella busta di carta marrone nel vagone.
Premesso che è il personaggio - attraverso il narratore onnisciente -, e non l'autore, a parlare, e fatto salvo il fatto che la prova della non esistenza di dio è la sua non esistenza stessa, se King mi facesse invece il favore di presentarmi una delle “prove” dell'esistenza del suddetto Supposto...
Agli occhi di Luke, il tono calmo e fluido di Maureen - senza traccia alcuna di interiezioni come “eh”, “cioè”, “una specie” - era un'autentica rivelazione, che gli provocò imbarazzo e dolore al tempo stesso. Sembrava molto più intelligente di quanto gli fosse apparsa durante le loro conversazioni sussurrate vicino al distributore del ghiaccio. Era stata lei a fingersi stupida? Forse sì, ma forse, invece - anzi, molto probabilmente - era stato lui che, vedendola con un'uniforme da donna delle pulizie, aveva dubitato a priori della sua intelligenza.
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