Sesto anno. Una sola giornata di pioggia, per il resto tanto caldo e tanto sole. Festival affollato, accrediti a migliaia, tanto pubblico. Star innumerevoli, specialmente statunitensi, a percorrere il red carpet. A Mattotti l'onere dell'introduzione ai film: animazione singhiozzante, colori accesi, fanfara e mandolino d'accompagnamento. Tra scimmioni e acrobati, una gincana fra le bandiere del mondo, poi un lento avanzamento verso il tempio del cinema, e infine una donna che guarda il mondo attraverso un minuscolo schermo.
Per chi scrive, sesto anno a Venezia. E' tanto tempo. Di film se ne sono visti parecchi in questi anni, e nel frattempo il tipo di giudizio è cambiato. L'occhio forse è più smaliziato (o viziato?) e l'attenzione sa posarsi sugli aspetti importanti (o forse si lascia distrarre più facilmente?). Quindi un resoconto finale non può non dipendere da questi aspetti e da queste trasformazioni.
Il festival, a dirla tutta, si è rivelato sottotono. Poche sorprese, troppa prudenza. Il concorso si è attenuto alle solite certezze (pochissimi i titoli entusiasmanti), gli Orizzonti hanno mantenuto quella patina arty di "cinema da festival" tanto ripetitiva (sufficienze e promozioni stentate e poco felici), le sezioni collaterali (per quel poco che si è visto) non hanno dato segni di ripresa rispetto a un 2018 che era stato abbastanza fiacco. L'usuale rifugio nei classici restaurati (selezione impressionante quest'anno) ha garantito una buona resistenza contro il leggero tedio. Non si nasconda: vedere un festival la sesta volta non può essere come la prima, o come la seconda. L'abitudine fa capolino, l'esperienza perde il fascino dell' "evento unico", e per un appassionato come chi scrive il Palazzo del Casinò e le varie solite sale diventano se va bene una n-esima casa, se va male quasi un luogo di lavoro. No, non si lavora davvero, ma comincia a percepirsi quell'atmosfera più incisivamente: i professionisti tutti attorno, i tempi risicati, la stanchezza.
Può essere che l'età contribuisca. L'entusiasmo è una montagna russa, sale e scende con altrettanta facilità. Compagnie e persone - dentro e fuori FilmTv - aiutano ad affrontare le delusioni, a godersi le soddisfazioni e a coprire i tempi morti. Può essere che sia l'età che ha spinto il sottoscritto a ridurre il numero di visioni giornaliere - una giornata e mezzo da influenzato non ha aiutato - con conseguente diminuzione delle visioni in generale. Le statistiche parlano (non si considera Venezia 71, seguita solo per metà).
50 film nel 2015 (Venezia 72)
57 film nel 2016 (Venezia 73)
57 film nel 2017 (Venezia 74)
62 film nel 2018 (Venezia 75)
44 film nel 2019 (Venezia 76)
ma oltre ai 44 ci stanno
3 cortometraggi
1 mediometraggio
6 film del passato
Il numero è drasticamente diminuito. In un paio di occasioni si è pure lasciata la sala in anticipo (i film in questione non sono stati considerati): è la strana conseguenza di un'imprevista disillusione.
Bando però agli aspetti negativi: di positivi ce ne sono altrettanti. Si sono visionate opere che certamente faranno discutere parecchio nei prossimi mesi, con l'ingresso ufficiale nella stagione degli Oscar (si spunta la voce: mondanità e attualità); si sono conosciute ancora più persone (l'età porta la disillusione ma porta via la timidezza) e si sono potute ritrovare le già conosciute (del sito, Alan Smithee, supadany, maghella e yume, ormai certezze costanti nell'appuntamento veneziano); ci si è concesso qualche giro per il Lido, atto all'esplorazione; e poi per finire, gli spritz ovviamente.
Ed è comunque meglio vedere pochi film entusiasmanti che non tanti film medi.
Qui di seguito, il pagellone finale, con tutte le sezioni e tutti i titoli visionati:
CONCORSO
'La mafia non è più quella di una volta' di Franco Maresco 8/10 ‘Saturday Fiction’ di Lou Ye 8/10 ‘Martin Eden’ di Pietro Marcello 7,5/10 'A herdade' di Tiago Guedes 7/10 ‘Il sindaco del rione Sanità’ di Mario Martone 7/10 ‘Guest of Honour’ di Atom Egoyan 7/10 ‘J’accuse’ di Roman Polanski 6,5/10 ‘Marriage Story’ di Noah Baumbach 6,5/10 ‘About Endlessness’ di Roy Andersson 6/10 'Wasp Network' di Olivier Assayas 6/10 'The Laundromat' di Steven Soderbergh 6/10 ‘La Vérité’ di Hirokazu Kore-eda 5,5/10 ‘Ad Astra’ di James Gray 5/10
'Waiting for the Barbarians' di Ciro Guerra 5/10
‘Babyteeth’ di Shannon Murphy 4,5/10 ‘No. 7 Cherry Lane’ di Yonfan 4/10 ‘Joker’ di Todd Phillips 4/10 'Gloria Mundi' di Robert Guédiguain 4/10 ‘The Perfect Candidate’ di Haifaa al-Mansour 3,5/10 ‘The Painted Bird’ di Vaclav Marhoul 3/10 ‘Ema’ di Pablo Larraìn 3/10
FUORI CONCORSO
‘I diari di Angela: noi due cineasti - Capitolo secondo’ di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi 8/10 ‘Adults in the Room’ di Costa-Gavras 7/10
'State Funeral' di Sergei Loznitsa 7/10 ‘Irréversible: Inversion Integrale’ di Gaspar Noé 7/10 'The Kingmaker' di Lauren Greenfield 6/10 'Seberg' di Benedict Andrews 4/10
'The Burnt Orange Heresy' di Giuseppe Capotondi 3,5/10 ‘The King’ di David Michôd 3/10
ORIZZONTI
'Giants Being Lonely' di Grear Patterson 7/10 ‘Atlantis’ di Valentyn Vasyanovych 6,5/10 ‘Qiqiu’ di Pema Tseden 6,5/10 ‘Moffie’ di Oliver Hermanus 6/10 'Revenir' di Jessica Palud 6/10 'Pelikanblut' di Katrin Gebbe 5/10 'Borotmokmedi' di Dmitry Mamuliya 4/10
EVENTI SPECIALI
'Never Just a Dream: Stanley Kubrick & Eyes Wide Shut' di Matt Wells 4,5/10
GIORNATE DEGLI AUTORI
'They Say Nothing Stays The Same' di Joe Odagiri 6,5/10 'Seules les betes' di Dominik Moll 6/10
GIORNATE DEGLI AUTORI - CORTI MIU MIU
'Shako Mako' di Hailey Gates 4/10 'Brigitte' di Lynne Ramsay 4/10
SETTIMANA INTERNAZIONALE DELLA CRITICA
'All This Victory' di Ahmad Ghossein 4,5/10 ‘Psykosia’ di Marie Gretho 3,5/10
'Veronica non sa fumare' di Chiara Marotta 4,5/10 ‘Fosca’ di Maria Chiara Venturini 3/10
SCONFINI 'Electric Swan' di Kostantina Kotzamani 6,5/10 ‘Chiara Ferragni - Unposted’ di Elisa Amoruso 6/10
VENEZIA CLASSICI
'Francisca' di Manoel de Oliveira 8,5/10 'Estasi' di Gustav Machaty 8/10 ‘Maria Zef’ di Vittorio Cottafavi 8/10 ‘Viburno rosso’ di Vasily Sushkin 8/10 ‘Il grande gaucho’ di Jacques Tourneur 7,5/10 ‘Current’ di Istvan Gaal 6,5/10
DOCUMENTARI VENEZIA CLASSICI
'Leap of Faith' di Alexandre O. Philippe 6,5/10
'800 Mal Einsam - Ein tag mit dem Filmemacher Edgar Reitz' di Anna Hepp 5/10 ‘Fellini fine mai’ di Eugenio Cappuccio 4/10
La media di apprezzamento del sottoscritto è pari a 5,42 (escludendo i classici, come si sono esclusi anche gli anni passati). Si è abbassata:
2015 - 6,41
2016 - 5,94
2017 - 5,94
2018 - 5,46
2019 - 5,42
Ma, come già detto, i gusti sono cambiati. E può anche essere che il sottoscritto sia diventato una persona un po' più noiosa. Anche perché sulla carta dal 2016 il concorso veneziano ha promesso molto di più rispetto a 2014 e 2015, in termini di scaletta e nomi. Addirittura il 2018 avremmo potuto definirlo "clamoroso" date le firme presenti. Ma tant'è.
Ecco dunque l'ultimo giorno, l'usuale report finale in Sala Stampa. Sono le 17:03 ed è ancora vuota: ma fra un'ora e qualcosa comincerà a riempirsi, e si potrà assistere all'esultanza da stadio dei giornalisti di fronte alle decisioni della giuria presieduta da Lucrecia Martel. Intanto, il Palmarès ideale del sottoscritto è come segue:
Leone d'Oro - La mafia non è più quella di una volta di Franco Maresco
Gran Premio della Giuria - Martin Eden di Pietro Marcello
Premio Speciale della Giuria - A Herdade di Tiago Guedes
Leone d'Argento per la miglior regia - Lou Ye per Saturday Fiction
Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile - Francesco di Leva in Il sindaco del rione Sanità
Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile - Catherine Deneuve in La Vérité
Premio Mastroianni - Eliza Scanlen per Babyteeth
Premio per la miglior sceneggiatura - Noah Baumbach per Marriage Story
Si tenti pure una previsione, ma si sbaglierà sicuramente:
Leone d'Oro - J'accuse di Roman Polanski
Gran Premio della Giuria - Martin Eden di Pietro Marcello
Premio Speciale della Giuria - The Painted Bird di Vaclav Marhoul
Leone d'Argento per la migliore regia - James Gray per Ad Astra
Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile - Joaquin Phoenix per Joker
Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile - Scarlett Johansson per Marriage Story
Premio Mastroianni - Mariana di Girolamo per Ema
Premio per la miglior sceneggiatura - Steven Soderbergh per The Laundromat
Facile. De Oliveira gira il titolo migliore della manifestazione. Con un restauro impressionante. Amori e rancori in un film dall'impianto teatrale ma non solo: forse il teatro al cinema non ha mai rimesso tanto in discussione tempi e spazi della Settima Arte. Un crescendo emotivo e poetico, da godersi in ogni dettaglio.
Qui ci si esprima solo parzialmente: manca il capitolo primo. Non è un'opera narrativa, non dovrebbe essere troppo grave. Basta anche questa per dire che l'operazione di Gianikian è sorprendente, commovente, e ci riporta a un cinema "materiale", viscerale, come se ne faceva un tempo. Un diario del passato, nostalgico e sentito. Sterili le polemiche a proposito dell'utilizzo nella voce fuori campo della nuova compagna di Gianikian: grazie a Dio la vita va avanti.
Coloratissimo restauro per il film di Vassily Sushkin, compagno di studi di Andrej Tarkovskij ma totalmente diverso rispetto a quest'ultimo. Dalle ceneri del cinema di Ivan Pry'ev, una tristissima commedia che sfiora lo slapstick, premia il grottesco ma regala sparuti momenti improvvisi di tenerezza.
L'esperimento di Pietro Marcello è un compromesso fra il suo vecchio cinema e un cinema più aperto al grande pubblico. Il risultato è un'opera di grande rigore, con un lavoro inaudito su ambientazioni e primi piani, nonché un carisma notevole nel tratteggiare il coming of age di un intellettuale. Sorprendenti gli inserti documentaristici, che non solo rendono conto di un'epoca filmica lontana e della sua natura capricciosa (il London originale non si ambientava certo in Italia), ma reagiscono all'evoluzione drammaturgica in modo inedito. Se Marinelli vincesse la Coppa Volpi non ci rimarremmo male.
Grandissimo e sottovalutatissimo western di Jacques Tourneur, che non solo permette a Gene Tierney di esibirsi in una delle sue prove più affascinanti, ma mette in crisi in anticipo rispetto a molti altri il modello del cowboy giusto e onesto facendo scontrare cultura indigena e cultura conquistatrice, portando all'interno del singolo individuo i dilemmi più elevati. Western intimo, romantico e crepuscolare.
Un titolo che ha spezzato in due la critica. Fra quelli visti di Orizzonti, il migliore, il più esterno all'asfittico formato di "film da festival". La recensione qui.
Loznitsa prosegue il suo viaggio nella storia dell'URSS. Questa volta mettendo da parte il crescendo drammaturgico quasi angosciante di Process per lasciarsi andare a un'immersione - filologicamente esemplare - nei filmati di repertorio dei quattro giorni che vennero dedicati al funerale di Stalin nel 1953. Impegnativo ma teso e problematico.
Un'esperienza immancabile, un incubo. A detta di Noé serve per chiarire meglio alcuni passaggi della semplicissima trama. Può essere. L'esperienza è diversa a posteriori: questa volta ci addentriamo gradualmente nell'incubo, imparando a conoscere i personaggi e imparando a capirne le caratteristiche senza essere direttamente buttati nell'ingorgo infernale del Rectum e dello stupro del sottopassaggio. Visto due volte sul grande schermo, fa sempre male ed è sempre bellissimo.
L'opera più amata dagli spettatori del Lido è un'operazione di grande accuratezza quasi archeologica, ma che procede a ritmo ondivago, non concedendo la tensione costante che da Polanski ci si aspetterebbe. Esclusi gli splendidi incipit ed excipit, si tratta di un Cinema abbastanza senile, stanco, fermo. Ma sempre affascinante e interessante, specie quando ricorre alle classiche ossessioni polanskiane (crescendo drammaturgico tramite piccoli oggetti e piccoli eventi, lettere e stemmi, aule di tribunale e Emanuelle Seigner).
Da Pema Tseden dopo Jinpa era lecito aspettarsi di più. Quegli stessi luoghi perdono il fascino onirico dell'opera precedente - che era prodotta da Wong Kar-wai e si vedeva - e si caricano di un'atmosfera più spigliata, che però sa anche dedicare un po' di minutaggio ai piccoli sogni dei piccoli protagonisti.
L'opera più media del festival, piena di cose positive ma alla fine dei conti non troppo interessante. E' bello che Assayas costruisca un falso film di spionaggio concentrandosi per lo più sulle relazioni intime dei suoi protagonisti, trasformando la Storia in un rimosso narrativo, in un invisibile che febbrilmente possa essere reso dalla movimentata regia. Lo si riconosce in questo, certo, ma non c'è nient'altro che possa procurare carisma al risultato finale, fatta eccezione per le riprese in volo.
Oppenheimer ridimensionato in modo meno incisivo, ma comunque interessante spaccato di cronaca: questo è il doc su Imelda Marcos e sul suo ritorno nelle Filippine.
Hermanus, dopo The Endless River, torna con un film decisamente meno silenzioso, più chiaro nei suoi intenti e anche più appassionante. Non che dica granché di nuovo, ma passa veloce con qualche picco di stile.
Soderbergh è un regista che dice di spiegare e invece urla. Incapace di mezzi termini, schietto al prezzo dello stile, scatenato e divertentissimo. Ma di riserve ce ne sono parecchie. La recensione qui.
Gray delude. Il suo film è troppo classico e trattenuto, non eccede in niente benché ambisca alla riflessione cosmica. Troppa indifferenza alla fine, troppo scoperte le metafore omeriche. E troppo assurdo rispetto alle pretese realistiche che il regista ha detto esplicitamente di avere.
Deludente documentario su un regista che si esprime certamente meglio per immagini che non per parole. Molte ovvietà, qualche aneddotto ma nessun ingrediente in più a quei capolavori che sono i film di Heimat. C'è anche una certa supponenza nel montato, confusa per raffinatezza.
Moscio Ciro Guerra. Poco da dire sull'intenso Mark Rylence, ma il film vorrebbe contare su un'atmosfera che non c'è, e che viene salvata da qualche notevole ma aneddotica idea di montaggio.
Un horror vestito da mélo, con una possessione demoniaca trattata come dramma familiare. Troppo sottovalutato, discretamente asfissiante ma niente di indimenticabile. Brava Nina Hoss.
Teendrama strappalacrime ma genuino, ottimo per la televisione di sera con amici e famiglia. Ma è palinsesto televisivo e poco altro. Incipit notevole, poi la regista si scorda della regia, e preferisce un pathos a lungo rilascio, senza picchi drammatici - per fortuna - e con la decenza di non risultare ridicola, ma con soluzioni un po' troppo facili e dotando i personaggi di sufficienti nevrosi che coprino i buchi caratteriali.
Il vincitore della Settimana della Critica è un assedio: cinque personaggi, una casa, e la guerra che infuria fuori. L'idea è appassionante, e rendere invisibile la minaccia interessante. Ma i pochi mezzi rendono il tutto non sempre credibile.
Guédiguain non è mai stato così patetico. Abbandona completamente il senso della misura per un dramma di sfighe continue e di personaggi urlanti, cinici e disperati. Fa il paio con il deludente Loach del 2019, Sorry We Missed You.
Scusa per presentare materiale inedito su Fellini. Ma è anche al di sotto del compitino: diciamo pure che è fatto male, montato in maniera mediocre e totalmente casuale, senza concept.
Sembra di guardare una versione poco meno scema ma altrettanto imbarazzante della Migliore offerta di Tornatore: thriller della critica d'arte, della realtà e della finzione, dei simboli e delle bugie. Robetta se non robaccia per com'è scritto, costruito e girato.
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