Rieccoci di nuovo in sala stampa. Sullo stile degli ultimi giorni di festival di Venezia, anche qui a Cannes ci mettiamo in posizione strategica per seguire le premiazioni alla televisione appesa al muro, in questo caso la parete è esattamente quella dietro alla nostra postazione, perché quella di fronte, la più comoda, sarebbe stata con una tastiera francese. Ormai, invece, preferiamo le americane, giusto il tempo di abituarsi alla chiocciola sopra il tasto del numero 2 e al punto interrogativo più basso. Il problema-accenti permane, come rimane aperta su Google Chrome la pagina 'vocali accento' per poter copiare/incollare all'evenienza le lettere utili, perché la pigrizia - e la fretta - non permette di decodificare tutti i consigli sul web per aggiungere la scorciatoia della combinazione di tasti. Ci avviamo a scrivere la chiusa di questa avventura cinefila ingorda tenendoci questo fardello, e sentendolo, data l'abitudine, molto più leggero.
Alle 14 la sala stampa è vuota, segno di un evento che sta per concludersi. Tre soli concentrati nelle postazioni francesi, e una decina nelle postazioni americane, compreso il sottoscritto. Fuori dalla sala, nell'androne del primo piano del Palais - che rimane un luogo misterioso e dalle tante possibilità anche dopo 11 giorni - si sentono gli ultimi che approfittano del chiosco Nespresso installato qui dentro, espressi cappuccini e latti macchiati gratis a volontà, confortante ristoro nei pochi, rarissimi, attimi di tregua semmai ce ne fossero stati, bicchieri di carta utilizzati e svuotati nelle infinite file per l'ingresso alle sale, buttati in fretta nel cestino subito prima dei controlli agli zaini, oppure poggiati momentaneamente per terra su indicazione della guardia di turno in smoking. Si capisce che tutto sta per finire, in quella strana fiera o in quello strano comicon del Marché du Film al piano più basso tutto è chiuso e imballato, pronto per essere rispedito al mittente, non troppo diverso dagli addobbi natalizi che tiri fuori per un breve periodo dell'anno e poi rinchiudi nel loro buio letargo per i mesi successivi. Le file per i film, da un paio di giorni - nell'epoca del post-Tarantino - sono molto più brevi, si può arrivare anche all'ultimo, in Debussy fanno addirittura sedere in platea noi accrediti blu che per Tarantino siamo entrati in una trentina, per ultimi, tanto che una volta salite le scale abbiamo visto la guardia dire no all'accredito blu successivo, disperato dopo 3 ore e mezza di fila, quelle che sono state anche le nostre solo con quei pochi, fatalissimi, attimi in più. Once Upon A Time...In Cannes c'era un 21 maggio in cui un film cambiava le regole di molte cose e io sono entrato e c'ero. Bella sensazione, ma si passi oltre.
Il resoconto finale del festival è al netto di tutto positivo. Certe cose negative erano prevedibili: il caos, gli spazi stretti, le follie di certe organizzazioni - Frankie di Ira Sachs costretti a vederlo dalla piccionaia della Sala Debussy nonostante una platea completamente vide, 'c'est vide' si continuava a ripetere alla maschera che per disposizioni dall'alto non permetteva a noi sventurati di scendere - le caste e le spaccature sociali dei diversi tipi di accredito, con la fretta o la gloria di chi entrava prima e lo scontento e lo sbuffo di chi entrava dopo o non entrava affatto. Altre cose positive altrettanto prevedibili: la bonheur di riuscire a entrare quando si riusciva, la bellezza di molti film, la sensazione dell'anteprima, le star intraviste, le amicizie fatte in fila con chiunque da tutte le parti del mondo. Imprevedibile era un po' la pioggia che in molti giorni ha reso più sgradevoli le code fatte all'esterno, e imprevedibile era la media qualitativa dei film alla fine, ma rimane la soddisfazione e la gioia di aver partecipato.
Evitando i pronostici, che non azzecco mai, mi limito a dire quali sono i film che premierei personalmente.
PALME D'OR: 'Once Upon A Time...In Hollywood' (Quentin Tarantino)
GRAND PRIX: 'Il traditore' (Marco Bellocchio)
PRIX DU JURY: 'Mektoub, My Love: Intermezzo' (Abdellatif Kechiche)
PRIX D'INTERPRETATION MASCULIN: Pierfrancesco Favino ne 'Il traditore'
PRIX D'INTERPRETATION FEMININ: Isabelle Huppert in 'Frankie' (ma giusto per non darlo alle due del Portait della Sciamma)
PRIX DE LA MISE EN SCENE: Quentin Tarantino per 'Once Upon A Time...In Hollywood'
PRIX DU SCENARIO: 'Parasite' (Bong Joon-ho)
Come di consueto a Venezia, ma stavolta con le visioni cannensi, mi avvio a elencare in ordine di preferenza i film visti, 46 titoli, meno di quelli che riesco a vedere a Venezia abitualmente ma con file molto meno lunghe. Escludendo Mr. Klein in quanto classico (BELLISSIMO), la media dei miei voti è 5,75, media analoga a quella raggiunta di solito durante Venezia, forse di poco superiore, e che rende conto di uno spettro di giudizi (dal 9/10 al 3/10) davvero vasto. Qui di seguito una lista generale divisa per categoria:
CONCORSO 'Once Upon A Time...In Hollywood' (Quentin Tarantino) 9/10 'Il traditore' (Marco Bellocchio) 8/10 'Mektoub, My Love: Intermezzo' (Abdellatif Kechiche) 7,5/10 'Bacurau' (Kleber Mendonça Filho, Juliano Dornelles) 7,5/10 ‘A Hidden Life’ (Terrence Malick) 7/10 'Le jeune Ahmed' (Jean-Pierre e Luc Dardenne) 7/10 'Dolor y gloria' (Pedro Almodóvar) 7/10
'The Wild Goose Lake' (Diao Yi'nan) 7/10 'Little Joe' (Jessica Hausner) 6/10 'Parasite' (Bong Joon-ho) 6/10 'Portrait de la jeune fille en feu' (Céline Sciamma) 5,5/10 'Atlantique' (Mati Diop) 5,5/10 'The Dead Don't Die' (Jim Jarmusch) 5/10 'Roubaix, une lumière' (Arnaud Desplechin) 5/10 'Les misérables' (Ladj Ly) 5/10 'It Must Be Heaven' (Elia Suleiman) 4,5/10 'Frankie' (Ira Sachs) 4,5/10 'Sorry We Missed You' (Ken Loach) 4/10 'Sibyl' (Justine Triet) 4/10 'La Gomera' (Corneliu Porumboiu) 4/10 'Matthias & Maxime' (Xavier Dolan) 3/10
FUORI CONCORSO (+ PROIEZIONI SPECIALI) 'Être vivant et le savoir' (Alain Cavalier) 7,5/10 'Too Old To Die Young' 1x04-05 (Nicolas Winding Refn) 7/10 'Lux æterna' (Gaspar Noé) 6/10 'Tommaso' (Abel Ferrara) 5/10 'Les plus belles années d'une vie' (Claude Lelouch) 4,5/10
Attualmente è il film dell'anno, e ha una portata tale da farci credere che lo rimarrà. Una straordinaria nuova puntata dell'immaginario occidentale che fa un passo avanti sull'essenziale percorso dell'autocoscienza. Tarantino ha riscritto il genere, ha riscritto la Storia, oggi riscrive il Cinema e il modo in cui lo immaginiamo.
Con Helmut Berger, Stefano Cassetti, Johanna Dumet, Ingrid Caven
Serra con un film che ci fa esplorare, come fossimo palombari, un oblio tutto fatto di brutture e nefandezze. Un viaggio oscuro in cui il Potere passa attraverso lo sguardo, dal binocolo del Presidente di Salò al monocolo dalla lente sporca del grasso di Liberté. Un horror della Storia.
Un grandissimo Bellocchio gira un capolavoro con lo smalto che l'aveva caratterizzato in altre grandissime pellicole (prima fra tutte, Buongiorno notte), evitando l'apologia ma parlando piuttosto dei fantasmi e dei simulacri che produce la Storia quando diventa Mito, o Manifesto. Pierfrancesco Favino all'interpretazione della sua vita. Rispetto ai due scadenti titoli italiani cannensi dell'anno scorso, quest'anno ci presentiamo a testa altissima.
Con Shain Boumedine, Ophélie Baufle, Salim Kechiouche, Alexia Chardard
Una fiera del movimento e del deretano, ma non solo, anche una riflessione su cosa crea lo sguardo desiderante dopo che in Canto Uno il giovane Amin aveva imposto il suo filtro, mentre adesso quelle creature magnifiche riescono a vivere autonomamente, eseguando i loro rituali, cercando e trovando piacere, sempre più ataviche e misteriose. E l'uomo non capirà, e resterà a guardare.
Un orrore tutto nuovo, per l'horror tutto nuovo di Robert Eggers, nel suo post-VVitch pronto a sconvolgere con altre forme, col brutale ma anche col grottesco, col formato e con un acidissimo bianco e nero, con spaventi e risate a denti stretti. E' difficile al Cinema oggi, con lo spettatore sempre più smaliziato, rendere plausibile l'inabissamento in un baratro di follia. A quello che è forse il più grande regista indie attualmente vivente va dato atto di essere riuscito nell'impresa. Dafoe e Pattinson epocali.
L'immagine amatoriale ha sempre avuto enormi capacità poetiche e liriche, per come è in grado di far sentire, direttamente con mano (con occhio) cos'è che il regista vuole osservare, cos'è ciò su cui vuole soffermarsi, cos'è che ha la dignità di farlo fermare dalle sue normali attività per lasciare un po' attoniti, a ricordarsi di essere vivi. Un poemetto adagio e commovente.
Con Sonia Braga, Udo Kier, Barbara Colen, Thomas Aquino, Silvero Pereira, Thardelly Lima
Selvaggia incursione in Brasile, dove la distopia si combina alla mistione dei generi e produce un sanguinario conflitto definitivo, con un occhio al Cinema Novo, un occhio a Freaks di Browning, e un occhio a Yojimbo di Kurosawa. Sonia Braga immensa.
Un soggetto che è un pretesto per creare un nuovo poema di scultura delle emozioni, inquadrature che sono impalcature del sentimento umano, una cinepresa che perde peso e svolazza, ci dà la percezione della Fede e del Desiderio.
Un Ahmed rosettiano protagonista del nuovo gran film dei maestri Dardenne. Rovente, sgraziato come ai bei vecchi tempi, eppure essenziale nel saper tracciare dietro un semplice gesto un affresco infinito di umanità.
Episodi 4 e 5. E' evidente che la trama della serie di Refn sia talmente liquida che anche due puntate che non sono le iniziali possono essere seguite ugualmente e dare infiniti indizi e infinite tracce di quello che sarà l'intera serie. Un post-post-polar sanguigno e torbido, una seduta ipnotica, in cui la reazione dello spettatore non solo è calcolata al millimetro, ma è stravolta, insoddisfatta, allontanata e riavvicinata, accolta e respinta, un tumulto di sensazioni bellissime che dopo The Neon Demon appaiono meno innovative ma di certo sempre efficaci.
Con Louise Labeque, Wislanda Louimat, Mackenson Bijou, Katiana Milfort, Adilé David
Riti voodoo e un decoupage dell'ipnosi: grande Bonello, languido e maligno, che ci immerge in una fiaba horror inquietante che è uno degli esemplari più aggraziati, maturi e consapevoli della New French Extremity.
Film della maturità e anzi, osiamo dire, dell'anzianità, della vecchiaia saggia, capolavoro di misura e di coerenza. Un primo grande film di Almodovar senza scene madri, un candido flusso di memorie e di malinconie, totalmente convincente anche nello stile che ridiscute la telenovela - ogni campo/controcampo di Almodovar è come una firma. Personalmente, una riappacificazione con l'Almodovar drammatico, sempre apprezzato ma mai realmente amato.
Il promettente Midi Z ha il gusto di lasciare tutto poco chiaro, blurring al confine fra realtà e finzione, con un occhio ai maestri taiwanesi e un occhio a occidente, ma soprattutto occhio al buon gusto.
Pamphlet di follia sulle tendenze del cinema contemporaneo - split-screen, stregoneria, digitale, mockumentary, effetti speciali. Il Cinema al rogo, condannato, una catarsi esplosiva. Se volete assistere a un'esplosione al neon, sarete accontentati.
Curiosa incursione nello sci-fi per l'autrice austriaca che non ha mai brillato per originalità estetica ma che qui dialoga anche con il cinema britannico (tramite un cast ben fornito) per produrre effetti di straniamento a tratti inediti. Un bel film che sa di occasione sprecata.
Dupieux in uno dei suoi film migliori: rimane un anedotto che sa di barzelletta e che ci si chiede se meritasse un lungometraggio. Ma il gioco metacinematografico è per una volta finalmente azzeccato, e genuino e ghiotto di piccole simpatiche riflessioni sulla messa in scena. Mai vista Adèle Haenel così ispirata e divertente.
Con Lise Leplat Prudhomme, Jean-François Causeret, Daniel Dienne, Fabien Fenet
Il nuovo film di Bruno Dumont è problematico, poiché si intravede ancora la grandezza di un maestro che sa dare tempo alle scene, e sa ritrovare l'invisibile (divino?) in uno sguardo in camera, in un contre-plongée verso il cielo, in un fittissimo campo/controcampo. D'altronde il regista francese ha sempre detto che è nel Cinema che può trovarsi il divino, nel miracolo di un tempo perfetto, di un modo ordinato e opportuno di vedere il mondo. E in Jeanne tutto questo c'è. Ma convince non troppo la voglia di esaltare ancora e ancora l'aspetto teatrale della realizzazione, anzi verrebbe da dire il suo carattere da recita. Anche se l'ingenuità dà purezza estatica al tutto, il meccanismo non aggiunge niente all'opera di Dumont, che tornando seria sembra retrocedere e sperimentare la metà del solito in termini di esplorazione del grottesco nel suo immaginario. Un film minore di Dumont rimane un film di pregevole fattura, ma si consenta di nutrire qualche piccolo dubbio.
Film piccolo, umile, sincero e appassionato, decadente ma senza miserabilismi, fantasioso ma immerso in drammi reali. Piccola perla in un mare di fango.
Con Julianne Moore, Mia Goth, Kyle MacLachlan, Kiki Layne, Alba Rohrwacher, Marthe Keller
In streaming su Rai Play
Un enorme spottone pubblicitario di 37 minuti squisitamente citazionista e in grado di creare mistero pur lasciando la patina pop come richiesto da commissione, e che Guadagnino sa reggere ottimamente.
Catchy incursione nel passato in costume, ammaliante e spudorato allo stesso tempo, interessante per certe geometrie registiche ma al confine col polpettone quando arriva dove vuole andare a parare. Il film più ambiguo e problematico di questa Cannes.
Sembra di vedere un indie, per come è orgogliosamente anti-provinciale il film di Valkeapaa. Eppure è un film finlandese, della patria di Kaurismaki. Pieno di bondage, sadomaso e un pochino di macabro sentimento. Passabile.
Enigma in terra senegalese, un mistero patinato e irrisolto in narrazioni e intenzioni, capace di disorientare con un ritmo lento e soffuso, e mai realmente convincente nonostante sporadici attimi di grande bellezza.
Il Jarmusch di maniera, il film in concorso più fuori posto di tutti, e uno scherzetto tra amici che fa ridere a corrente alternata, ironia stitica e un po' stantia.
Tipico film da sezione collaterale di un festival del Cinema, fatto un po' con lo stampino. Ma oltre a permettere allo spettatore di accedere con la visione alla Crimea, terra di nessuno, elabora un tristissimo finale davvero efficace che ricorda le potenzialità espressive del fuoricampo.
Ladj Ly e la banlieu parigina. Gli stereotipi ci sono tutti, in più c'è giusto un po' di coscienza civile, buona tenuta del ritmo e personaggi genuinamente sgradevoli. Non sembra però bastare.
E' indubbia l'impresa di gettare in mezzo alla guerriglia e ai movimenti dei lavoratori in sciopero una cinepresa pronta a tutto, anche ad azzardare un incontro ravvicinato con poliziotti e manganelli. Ma rispetto ad altri illustri esemplari di cinema militante, qui la resa, anche in fase di post-produzione, azzera tutte le potenzialità, e resta un film troppo grezzo e poco appassionante.
Solo per chi crede che Ferrara abbia ancora qualcosa da dire. In questo caso si premia il gesto amatoriale e l'atmosfera cupa, ma non si sentiva alcuna urgenza.
Qui è un discorso delicato. Perché i volti, i luoghi e i sapori sono quelli di un tempo. Solo che ora, apparte un paio di gag divertenti, sembra solo esserci feticismo cinefilo.
Loach che ripropone la sua formula. In realtà sarebbe anche interessante la sopravvivenza di un Cinema così piccolo e schietto. Ma allora perché quell'ultima inutile mezz'ora?
Porumboiu delude (quasi tutti) con un commedia spionistica scemotta e anonima, che pensa di poter creare un lungometraggio intorno a un'unica aneddotica trovata. Insulso e rimovibile.
Solito stra-noto film sulla provincia americana, sulle sue promesse e le sue delusioni. Ma anche un racconto (solito, stra-noto) di una donna che vuole imporre la sua volontà e le sue ambizioni. Salvo poi lasciare il freddo più assoluto a fine visione.
Insulsa paccottiglia di buoni sentimenti, paracula e piena di musiche al posto giusto, in cui l'attrazione fra i due protagonisti è data per scontata se non addirittura dimenticata fra i miliardi di inutili personaggi e gli infiniti ridicoli vezzi, fra cui i cambi di formati (pensa Dolan che sia un tratto distintivo?) e l'utilizzo della pellicola. Gli input del metacinema hanno pochissimo significato.
Con Mina Farid, Zahia Dehar, Benoît Magimel, Clotilde Courau, Nuno Lopes, Lakdhar Dridi
Anonimato totale: ed è cocente delusione, perché Rebecca Zlotowski (specie nel Grand Central con Seydoux e Rahim) i corpi li sapeva far parlare. Qui, se li fa parlare, fa dire loro solo idiozie.
Con Anne-Élisabeth Bossé, Patrick Hivon, Evelyne Brochu, Sasson Gabai, Micheline Bernard
Velo pietoso. Indegno esordio della Monia Chokri dolaniana nella commedia più scema e ridicola. Non fa ridere, non ha un bel montaggio - tutto tagli e taglietti, velocità, salti di palo in frasca, ammiccamenti e fighettate - e ha personaggi insopportabili. Se non esisteva era meglio. Anche perché dura 120 assurdi minuti.
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