Anche quest’anno la sigla è cambiata, e l’attenzione fin dall’inizio è stata per la singolare, splendida, figura di una donna coricata sul letto, con le sole mutandine rosse, a pancia sotto e con il volto rassegnato. Le memorie cinefile personali non portano il sottoscritto a identificare immediatamente l’attrice, uno dei pochissimi volti sconosciuti di questa nuova sigla festivaliera in perfetto stile Filmissimi Rete 4. Dopo alcuni giorni e consultazioni tra amici, si identifica la mitica come Maruschka Detmers di Prénom Carmen, che improvvisamente sale in primo posto nella lista d’attesa dei classici da recuperare a casa al ritorno dall’immersione nel contemporaneo che ha offerto la 75esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Urge confronto con le scorse annate, benché una differenza macroscopica si possa già fare: i nomi di questa 75esima edizione, in generale, promettevano un festival con fulmini e saette, un concorso che concorreva decisamente con quello di un qualunque Cannes. I nomi erano di fatto molti di quelli che normalmente ospita il festival francese (Lanthimos, Audiard, Assayas, Reygadas), e sono stati accaparrati dal festival di Venezia per una successione incredibile di eventi fortunosi: per esempio, si vocifera che Cannes abbia rifiutato il (bellissimo) film di Assayas, anche se è difficile capire la motivazione di tale scelta. Per non parlare del dibattito Netflix-Fremaux che ha portato al Lido titoli attesissimi come Roma di Cuaròn, l’editing di The Other Side of the Wind di Welles, The Ballad of Buster Scruggs di Joel e Ethan Coen e 22 July di Paul Greengrass. L’accumulo di nomi rende dunque questa Venezia, a prescindere dai giudizi finali, un evento abbastanza storico: che sia l’annata che conferma ufficialmente la nuova risalita di Venezia a discapito di Cannes, o che sia stato semplicemente un caso?
Il giudizio complessivo è mediamente positivo, come sempre: vedere quest’anno addirittura 66 film in poco più di 10 giorni (61 film del 2018 compreso il film editato di Welles e 5 classici) e 5 cortometraggi (dal concorso SIC@SIC) risulta essere una montagna russa di sensazioni e riflessioni che costringono, vista l’altalenante qualità e il ritmo ai limite del sostenibile, qualcosa di poco definibile nella mente, forse confusione o magari semplice senso di sovrabbondanza. Al quinto anno si impara però qualcosa in più: certi film non meritano questo ritmo. Idealmente sembrerebbe il contesto migliore per vedere un film, quello di un festival del cinema, ma in realtà pensare di affrontare la visione di Nuestro tiempo di Reygadas incastrata fra altre due visioni, per esempio, è quanto di più controproducente si possa immaginare. Ci si costringe a una scelta: assimilare qualcosa, o accumulare rischiando di mangiare così tanto e sollecitare le papille gustative fino a non sentire più i sapori? Nel caso di chi scrive, la via scelta è una terza, combinata purtroppo alla seconda: dare giudizi non definitivi. Ecco dunque allo stato attuale qual è il resoconto numerico di questo avventuroso Venezia 75.
Nei post già dedicati a Venezia negli scorsi anni, la media di apprezzamento totale (comprensiva di lungometraggi, classici e corti) è andata scemando. Venezia 72 conteggiava 6,41/10, Venezia 73 e 74 a pari merito con 5,94/10 e Venezia 75 quest’anno arriva addirittura a 5,46/10 (se si escludessero i 4 cortometraggi, realmente di basso livello, si arriverebbe comunque a 5,53/10). Degli ultimi 4 anni sembrerebbe essere stata la peggiore Venezia, ma i criteri di giudizio cambiano, e riguardando indietro alle edizioni precedenti i voti dei film subirebbero una drastica diminuzione. D’altronde ogni anno che passa si consuma la sfida ideale fra il sottoscritto e se stesso di cercare di dare voti che affrontino il film nella maniera più oggettiva possibile, non con snobismo ma nel tentativo di una contestualizzazione più generale, di un’analisi di natura più esegetica e trasversale, rispetto a quanto della storia del Cinema si è visionato in 22 anni di vita. All’apparente rigore di questa scala di valori si oppone la grossa plasticità di un approccio critico che cambia col passare del tempo (se evolva o involva non si può sapere), e non ha lo scopo di essere più severo e “cattivo” ma piuttosto di essere più circostanziato, aperto e asciutto. Quantomeno coerente con un approccio generale, scientifico e storiografico.
Alla luce dei voti che riporterò alle varie voci della playlist, qui di seguito scrivo quello che sarebbe il mio Palmares ideale, seguendo la regola non scritta che ad uno stesso film la Giuria principale del Concorso non dà mai più di un premio. Per cui, se la miglior regia il sottoscritto la affida a Luca Guadagnino piuttosto che a Carlos Reygadas, per esempio, non è perché sia effettivamente migliore, ma perché lo sperato Leone d’Oro si vorrebbe che andasse al film del secondo, Nuestro tiempo; dunque è una scelta dettata da necessità piuttosto che da analisi più precise. D’altronde, questa è proprio la conseguenza di un approccio critico che guarda al film nel suo complesso, e a cui ormai viene difficile distinguere fra miglior regia, miglior film e miglior sceneggiatura.
Palmares personale:
Leone d’Oro: Nuestro tiempo di Carlos Reygadas
Leone d’Argento per la migliore regia: Luca Guadagnino per Suspiria
Gran Premio della Giuria: Killing di Shinya Tsukamoto
Miglior sceneggiatura: Doubles Vies di Olivier Assayas
Premio speciale della Giuria: The Ballad of Buster Scruggs di Joel & Ethan Coen
Coppa Volpi alla migliore interpretazione maschile: Willem Dafoe in At Eternity’s Gate di Julian Schnabel
Coppa Volpi alla migliore interpretazione femminile: Olivia Colman in The Favourite di Yorgos Lanthimos
Premio Mastroianni alla migliore attrice emergente: Juli Jakab in Sunset di Laszlo Nemes
La lista che segue invece, quella dei pronostici, viene stilata il pomeriggio dell’8 settembre, in Sala Stampa, a un computer di fronte a un televisore che manderà la diretta della Premiazione alle 19. Non è prevedibile l’orario di pubblicazione di questo post, potrebbe essere successivo alla consegna dei premi; nonostante ciò riporto comunque i miei pronostici proprio per cercare di collocare i premi principali alla luce di ciò che si prevede e si vocifera nelle bocche dei vari giornalisti.
Leone d’Oro: Roma di Alfonso Cuaròn
Leone d’Argento per la miglior regia: Carlos Reygadas per Nuestro Tiempo
Gran Premio della Giuria: Suspiria di Luca Guadagnino
Miglior sceneggiatura: The Favourite di Yorgos Lanthimos
Premio speciale della Giuria: The Nightingale di Jennifer Kent
Coppa Volpi alla migliore interpretazione maschile: Willem Dafoe in At Eternity’s Gate di Julian Schnabel
Coppa Volpi alla migliore interpretazione femminile: Olivia Colman in The Favourite di Yorgos Lanthimos
Premio Mastroianni alla migliore attrice emergente: Juli Jakab in Sunset di Laszlo Nemes
Prima di fare la lista dei titoli visionati con relativo commento ed eventuale link alla recensione più dettagliata, viene qui di seguito realizzata la lista dei titoli ahimè persi, e che si spera non si tarderà a recuperare in futuro.
Il diario di Angela – Noi due registi di Yervant Gianikian
A Tramway in Jerusalmen di Amos Gitai
Magic Lantern di Amir Naderi
Tel Aviv on Fire di Sameh Zoabi
Charlie Says di Mary Harron
American Dharma di Errol Morris
Carmine Street Guitars di Ron Mann
The Ghost of Peter Sellers di Peter Medak
El Pepe, una vida suprema di Emir Kusturica
They’ll Love Me When I’m Dead di Morgan Neville
Si riportano qui due recensioni di due classici non presenti in database, e de L'amica geniale di Saverio Costanzo:
BRICK AND MIRROR
Il film più bello visto a Venezia 75 è un classico, com’era stato L’oeil du malin di Claude Chabrol a Venezia 74. Si tratta del restauro di uno dei lavori più importanti e rappresentativi del Cinema iraniano anni ’60, una di quelle opere da noi poco conosciute e che deve essere stato riferimento assoluto e inviolabile per tutti gli autori iraniani di maggiore successo, da Abbas Kiarostami a Amir Naderi in giù, come per anche tanti altri autori del Medio Oriente. Il film di Ebrahim Golestan arriva nel 1964 a dettare legge sulle nuove tendenze del Cinema mondiale, europeo e non, arrivando poco dopo lo scoppio della Nouvelle Vague ma non essendone affatto influenzato visto che in Iran allora film come A bout de souffle non giungevano affatto, essendo privi di distribuzioni. Brick and Mirror è un manuale di inventiva che mescola realismo e impressionismo onirico, azzardando carrelli spericolati, scenografie talvolta umili talvolta barocche nella loro complessità, decadrages vertiginosi e sequenze di puro montaggio, prima ancora di molte conclusioni che si paleseranno concretamente solo nel cinema degli anni ’90. Premiato a Cannes, un film che forse visto da pochi avrà influenzato tantissimo quantomeno i più importanti registi teorici del Cinema.
Voto: 9/10
LA VOLPE FOLLE
Tomu Uchida si configura, nel clima del cinema giapponese di metà Novecento, come uno dei registi più puri e volendo “reazionari”, almeno a giudicare da La volpe folle, un viaggio quasi psichedelico nel teatro kabuki e nei meandri più oscuri della tradizione. Non c’è folklore, che comporterebbe uno sguardo “dall’esterno”, ma c’è piuttosto reale immersione, in cui nulla è spiegato e tutto si palesa con affascinante gratuità. Le ambientazioni teatrali e i paesaggi semoventi dànno forse una delle lezioni più definitive su quello che è il movimento al Cinema: se non è la cinepresa ad andare verso l’inquadratura, portiamo l’inquadratura verso la cinepresa.
Voto: 8,5/10
L’AMICA GENIALE
I primi due episodi della serie di Costanzo non sembrano diretti da Costanzo, ma dal primo che capita. È un gran peccato.
Il montaggio del progetto irrealizzato di Orson Welles si basa su appunti e sketches che il grande regista americano ha lasciato dopo la sua morte, nonché tutte le ore di girato che – si intuisce guardando il film – dovevano essere davvero un labirinto di stralunate emozioni. Il film, che sarebbe idealmente uscito nel 1975, sarebbe risultato l’opera new hollywoodiana definitiva, talmente estremo da essere rigettante ancora oggi. Un film dal ritmo eccessivo e fulminante, come un Hollywood Party di Blake Edwards lanciato alla velocità di Walden di Jonas Mekas, e con ambizioni metacinematografiche felliniane (8 ½ sopra tutti). Lo spettatore è strapazzato senza requie tra flash subliminali e dialoghi irregolari in cui il principio altmanesque dei discorsi sovrapposti in fase post-produttiva si mischia inesorabilmente all’antispettacolarità espressionistica di Cassavetes come anche all’epicità di Francis Ford Coppola. Il clamoroso sogno di uno schizofrenico.
Reygadas è giunto a nuove conclusioni, più distruttive dei suoi film precedenti nonostante l’apparente linearità accondiscendente del suo ultimo grandioso film. Nuestro tiempo è un encomio della contraddizione e dell’impotenza come sineddoche di un mondo che pone ad altissima differenza di potenziale il mondo del visibile con il mondo dell’invisibile. La sfida è giocata tutta nell’arena della percezione, fra ciò che si prova e ciò che non si prova, ciò che si sente ma non si può vedere, e ciò che si vede ma magari non c’è. La recensione qui.
Un nuovo tassello al mondo di Wiseman, che è il mondo di tutti. Una nuova esplorazione delle potenzialità del montaggio. Il capolavoro del 2018. La recensione qui.
Assayas colpisce ancora: la sua nuova commedia, apparentemente semplice, ha in realtà lo sguardo velenoso di una realtà incerta e sempre più inafferrabile. La recensione qui.
Come previsto, del Suspiria argentiano Luca Guadagnino ha desunto gli aspetti più carnali, fisici, e le conseguenze più teoriche. Ne risulta un film diverso ma che arriva imponente nel contrastante contesto del cinema contemporaneo. La recensione qui.
Film a episodi dei Coen, che fanno di necessità virtù, avendo loro deciso di non fare di Buster Scruggs una serie televisiva antologica. Il risultato è costruttivamente frastornante. La recensione qui.
Il doc di Bogdanovich sul grande “capitombolo” è costruito come una screwball comedy, una delle operazioni più sottili e affascinanti dell’anno. La recensione qui.
Con Jeff Goldblum, Tye Sheridan, Danielle Smith, Hannah Gross, Udo Kier, Amy Stiller
Il film più odiato del Lido è anche il film che più ha disorientato. Una lente di ingradimento clinica e corrosiva sulla maturazione della percezione di un giovane uomo. La recensione qui.
Mike Leigh in qualche modo retrocede rispetto alle vette di Turner per liquefare la linea narrativa e renderla una girandola di situazioni collettive, assorbite dal flusso degli eventi e delle parole. Una ronde sconclusionata proprio come lo è la Storia, fatta di campi/controcampi che illudono della razionalità di un dialogo ma ne mettono in mostra, allo stesso tempo, le cricche e le disomogeneità. Un film sull’impossibilità della dialettica, responsabile di ogni vero conflitto.
Titolo originale Women Make Films: A New Road Movie Through Cinema
Regia di Mark Cousins
Documentario di Cousins, letteralmente un road movie tra le suggestioni che il cinema delle donne ha offerto al mondo. Si sappia, è così che si fa una lezione di Cinema.
Il miglior titolo di Orizzonti quantomeno tra quelli visti, un collegamento impossibile fra il cinema di Kiarostami e quello di Wong Kar-wai. È quest’ultimo che produce una storia di doppie strade e doppie narrazioni. La recensione qui.
Con Valeria Bruni Tedeschi, Pierre Arditi, Valeria Golino, Riccardo Scamarcio
In streaming su Rai Play
Il primo piano di Frederick Wiseman nel film della Bruni Tedeschi è la cosa più bella di tutta Venezia 75. Il film è concentrato di inesauribile nevrosi, e pur essendo una commedia è un film realmente estremo, come solo le Valerie nazionali (c’è pure la Golino, frizzantissima) potevano offrirci.
È il Loznitsa di The Event, un Loznitsa di montaggio, quello che i più disattenti definirebbero inutilmente noioso o barbosamente anticonformista. Spiega come creare drammaturgia attraverso il montaggio, e basterebbe questo.
I Taviani sono fra i registi chiave del cinema italiano anni ’80: La notte di San Lorenzo è un film di equilibri impossibili, tutto alla giusta distanza.
Lanthimos confessa, ci prende in giro un po’ da sempre. Ma partendo da questa premessa (assunzione di colpa?) il film risulta onestamente un’acuta e graffiante pantomima che si regge sull’abilità dei suoi attori e sulla velenosità della comicità al cinema.
Rithy Pahn torna a indagare i luoghi svuotati della più grande tragedia umana della storia del Novecento, per numero di vittime soprattutto. La scuola è quella di Lanzmann, ma rispetto agli esordi la ricerca della commozione edulcora un po’ l’approccio documentaristico, che però continua a mantenere la sua dignità basandosi costruttivamente sulla tecnica della dissolvenza incrociata.
Lo Tsai post-apocalittico ricerca l’umanità a cui sembrava aver rinunciato: attendiamo ulteriori sviluppi per capire se si tratta o meno di una retrocessione. E anche immaginando un’impossibile coerenza di intenti, si tratta di un film che (soprav)vive troppo dei fantasmi del passato – letteralmente. La recensione qui.
Cambia il contesto ma è sempre lo stesso Audiard: ecco perché alla fine di The Sisters Brothers si è uguali a come si è all’inizio. Audiard rimane prezioso, uno dei più grandi giocolieri postmoderni delle icone di genere in circolazione. Forse però occorrerebbe un riarrangiamento delle sue modalità, più strutturale che superficiale.
È un film troppo segmentato perché diventi una vera esperienza di immersione sensoriale, però come un collage il film di Schnabel può essere apprezzato per le sue piccole pillole di regia, e per aver riacceso l’interesse per un pittore che di recente al Cinema e altrove sembra essere stato solo svenduto al pubblico e basta, senza alcun tipo di criticità.
Con Sawsan Arsheed, Reham Al Kassar, Samer Ismail, Oweiss Moukhallalati, Ahmad Morhaf Al Ali
L’occhio della regista Soudade Kaadan è attento ad ogni piccola variazione ambientale, per cui ogni movimento di camera diventa davvero la matrice di un forma di suspense che ristagna tutta nel paesaggio e nel fuoricampo.
Con Zhalgas Klanov, Eric Tazabekov, Zhasulan Userbayev, Ruslan Userbayev
Un film di composizioni, forzato ed eccessivamente impostato. Eppure, contiene delle pillole di crudeltà che avrebbero avuto grosse potenzialità eversive se sfruttate meglio.
Il vincitore della Settimana della Critica è un’immersione nel caos di un conflitto che non si esaurisce, che crea martiri e sembra annullare la sensibilità della paura della morte. Il montaggio di 450 ore di montato per un totale di 116 minuti non stressa però il pathos, ma sottolinea il peso dello strumento, del pratico mezzo-cinepresa che diventa una nuova arma. È davvero la guerra dell’era digitale.
Con Nader Fallah, Elham Korda, Majid Aghakarimi, Vahid Rad, Mohammad Rabbani
Da Faulkner, un film di tensioni mal sopite che esplodono a poco a poco, con uno scarto di montaggio o con l’inespresso del fuoricampo. Tra i titoli più dignitosi di Orizzonti.
Nick Hamm è un realizzatore seriale di regie alimentari. Ma qui si vede che è innamorato di ciò che guarda, dalle reaganiane cacce ai drugdealers fino alle macchine e alle scenografie. Una trama per nulla scontata né consolatoria si snoda in modo serenamente ordinario senza lasciare tracce, ma neanche irritazioni.
L’opus n. 2 di Laszlo Nemes è problematico e fa discutere. Probabilmente è uno dei più emblematici film che permette di vedere in primo piano il pericoloso superamento del confine fra stile e maniera. La recensione qui.
È gustosamente provinciale, Tumbbad, fermo nei suoi confini e con pochi cedimenti al facile apprezzamento. Ma il fascino è al confine con il folkloristico, e troppo invadente è la confezione – con tanto di effetti speciali un po’ sciatti – per convincere di un qualunque spessore nell’ambito del discorso dei generi (il fantasy e l’horror soprattutto). Gli anonimi virtuosismi di regia sembrano figli di tendenze occidentali, più che di una vera presa di posizione.
Con Sandor Funtek, Sandrine Bonnaire, Virginie Acariès, Alexis Manenti
Film dal relativo fascino e dalla struttura che è ormai accademica in Francia, per quanti se ne fanno con lo stampino. Lo si vede per il piacere di apprezzare Sandrine Bonnaire. La recensione qui.
Uno dei titoli più discussi è anche uno dei film più sopravvalutati dell’intera Mostra. Un film che nonostante la confezione grandiosa cerca di guardare all’essenziale, alla congiunzione di pubblico e privato, alla bellezza dei dettagli. Andando un attimo oltre la stucchevolezza di questi assunti, è abbastanza inconcepibile che un film con simili pretese abbia una regia così perfezionistica, in cui tutto arriva sempre come in un concerto di sincronie esibizionistiche e superflue. Uno dei più esemplari casi recenti in cui l’eccesso di linearità rende il film estetizzante e superficiale, con un meccanismo esattamente contrario al normalmente concepito, quello per cui un film “privo di contenuti” sarebbe un film di sola forma. ROMA è un film così ricco di contenuti da essere solo forma, vedere per credere. E' cinema imbalsamato, impagliato e appeso alla parete.
Parte come School of Rock e diventa una versione apocalittica di Village of the Damned: l’apprezzamento dipende dal fatto se si stia o meno al gioco. Dopo mezz’ora però già è tutto parecchio chiaro e trasparente.
Titolo originale What You Gonna Do When the World's on Fire?
Regia di Roberto Minervini
Con Judy Hill, Dorothy Hill, Michael Nelson, Ronaldo King, Titus Turner, Ashley King
In streaming su Rai Play
Il problema di Minervini non è tanto la ridondanza di ciò che vuole dire, spesso diluito in tempistiche ingiustificate, ma la sua tendenza a stressare il tessuto delle cose reali per trovare sempre l’angolazione più effettistica e drammatica. L’utilizzo del b/n qui conferma una tendenza espressiva che ha molto meno del rigore che promette.
Il film di Corbet è problematico, ha un’ambigua distanza da ciò che vuole raccontare, e un approccio analitico che offre poco spazio a libertà interpretative: è un film che ha la tirannia di un assioma, entusiasta come un’opera prima (è seconda, siamo lì) e inutilmente apocalittico. La recensione qui.
Con Agathe Bonitzer, Pierre Moure, Thomas Scimeca, Basile Meilleurat, Paul Barge
Uno dei film più dignitosi della Settimana della Critica appartiene a un anomalo filone di Cinema francese, che mischia volgarità e fiabesco come fa Ado Arrietta (vedasi Belle dormant). Poco interesse, però si entusiasmerà chi ama la scatofagia (?).
Martone non lo si riconosce più, è soprattutto rintracciabile nel contesto della sua trilogia sulle origini dell’Italia contemporanea (Noi credevamo e Il giovane favoloso). Ma nel suo film c’è pochissimo gusto estetico, se non isolato alle sequenze di ballo e di coreografie. Anche se il film vorrebbe raccontare una spinta di energia passionale che porta alla rottura delle convenzioni sociali, d’altro canto si dilunga nei confronti fra scienza e spiritualità, e fa un compitino anti-atmosferico che dimostra, insegna e non fa vivere un bel nulla.
Con Muhammad Khan, Raditya Evandra, Rianto, Randy Pangalila, Whani Darmawan
Dall’Indonesia, un film dalla forza entropica che va fuori dagli schemi – a volte anche schematicamente – per parlare di disorientamento sensoriale. Tanta energia fuori dai binari, ma privare il film di gerarchie situazionali non sempre permette di centrare il punto. C’è poco di costruttivo, però magari è una forma di anarchia un po’ surreale che rivaluteremo in futuro. Per ora se ne può fare a meno.
Tutti parleranno di Apichatpong Weerasethakul e di come il film di Aroohnpeng guardi essenzialmente ai film del maestro thailandese. Ma il film è un remake sfacciato di I Don’t Want To Sleep Alone di Tsai Ming-liang, e quando questo si rivela palese lo sforzo di non fare confronti è troppo pesante. Ed è un confronto che ovviamente non regge.
Il corto vincitore della SIC@SIC è un piccolo esercizio di montaggio, jump cut e decentramento dell’immagine. Giustamente sgradevole, inutilmente fischiato alla sua proiezione finale.
Con Irene Ferri, Anna Ferraioli, Pilar Fogliati, Nina Fotaras, Marco Giuliani
Il corto di Cosimo Alemà è un divertissement, sia di ritmo che di tecnica (è un one cut totalmente gratuito, ma va bene). C’era o non c’era andava bene uguale.
Zahler è stato apprezzato un po’ da tutti qui sul Lido, ma si sapeva che diluire i tempi e annullare la suspense è il miglior modo per stuzzicare gli appetiti degli sguardi che si definiscono più smaliziati. Un film fighetto di un regista ufficialmente fighetto.
Non c’è nessun gesto estremo nel film russo di Merkulova e Chupov, se non quello politico. Ma l’importanza politica non ha alcuna attinenza col discorso cinematografico.
Regia muscolare e di stucchevole rigore in un ordinarissimo scheletro di classico biopic di concezione moderna: respingente per insignificanza. La recensione qui.
Sono finte le ambiguità di un film senza regia, senza sguardo, senza nulla. In realtà è tutto nei canoni. Sulla mia pelle è trasformare la cronaca in propaganda di piccolo-borghese indignazione. Prossimamente su tutti i PC dei Netflix-muniti.
Lafosse al minimo sindacale. Non è mai stato un regista dalla grande personalità, ma ha avuto occasione in passato di superare anche la media decenza per film magari telefonati ma sempre robusti. Ma se prima si poteva accusare eccesso di referenze a discapito dell’originalità, qui si può tranquillamente accusare latenza di Cinema in primis.
Con Helge Schneider, Heiner Müller, Galina Antoschewskaja, Peter Berling
Kluge che sperimenta appiattendo le ultimissime conclusioni godardiane. Va dato atto al regista tedesco di essere cosciente dello stato dell’arte, ma il suo film è un mezzo disastro. Per dettagli, la recensione qui.
Con Lali Espósito, Leonardo Sbaraglia, Inés Estévez, Daniel Fanego, Gerardo Romano
Vabbè, fa impressione vedere il filmetto televisivo in concorso a Venezia. Forse il contesto ha spinto il Lido a odiare il film più del necessario, ma certamente non c’è una scelta che sia visiva o cinematografica che dir si voglia.
Con Yassmine Dimassi, Aziz Jbali, Bilel Slatnia, Hela Ayed, Bahri Rahali
Si puntava tanto sull’horror tunisino della SiC. Ma è forse il titolo peggiore presentato da questa sezione. Modalità ovvie, giochetti gratuiti, gore neanche troppo ricco e personaggi mai così detestabili in un horror.
Se si vedono i film precedenti che hanno orgogliosamente portato lo stesso titolo, si può solo uscire ancora più esausti da un melodrammone polpettoso in cui non si capisce nemmeno cosa ci stia a fare Lady Gaga, che ha sempre basato la sua personalità artistica sulla rivalorizzazione identitaria del pop, e che adesso propina con Bradley Cooper l’idea che la musica pop fa schifo e che invece l’hipsterismo chitarristico è di per sé più sano. Indegno.
Andò andrebbe rinchiuso. Non è divertente, non fa ridere, non ha inventiva. Fa esercizi talmente aridi da rasentare il ridicolo. Ma forse si sente Jerzy Skolimowski, speriamo di no.
La prima metà di Greengrass sembrerebbe un film robusto e forte, distante il punto giusto. Ma è tutta la preparazione per un film dai facili e ovvi obbiettivi, e che sciorina la lezioncina nel finale con personaggi gratuitamente disposti nella storyline per smuovere le coscienze e invitare ad avere una giusta morale anche nei confronti di chi è più scomodo e antipatico, cioè a dire il terrorista cattivone.
Yimou ha ormai zero inventiva, se non per qualche nuovo strumento infernale con cui armare i suoi non-personaggi. Scenografia in bianco e nero che promette barocchismi e riconsegna estenuante piattezza.
Con Aisling Franciosi, Sam Claflin, Baykali Ganambarr, Damon Herriman, Harry Greenwood
L’operazione più antiproducente possibile per portare avanti il discorso femminista, pieno di chiaroscuri in Babadook e qui invece tornato indietro a un’approssimazione moralistica che vuole buoni e cattivi, pulp che urti lo stomaco degli impressionabili e morale finale che faccia riflettere. Il punto più basso di Venezia 75.
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